Le “Atmosfere in nero” di Mario Merlino (recensione e intervista video)

Il luogo comune non abita da queste parti. E le «Atmosfere in nero», titolo del nuovo libro di Mario Michele Merlino, potrebbero in verità essere d’ogni colore. Rosse magari. Perché no. «Il titolo, del resto, è provocatorio, visto che dà l’idea di qualcosa di tombale», spiega nel presentarlo l’autore, che di starsene buono buono in una casella proprio non ci sta e nel suo testo fa a pezzi ogni banalizzazione dell’idea fascista.


D’altra parte, si tratta di racconti, cinque per la precisione, ragion per cui la lettura risulta notevolmente alleggerita da un incedere rapido e vivace. Cinque racconti per raccontare «il rapporto l’Uomo e l’Idea», in una definizione che osiamo trafugare ad un giovanissimo consigliere comunale, Roberto Rizza, che ha entusiasticamente accolto la presentazione del libro in terra calabra.
L’opera, per ammissione dello scrittore, è un collage in cui la fantasia tiene insieme storie vissute in prima persona, storie fatte proprie e storie condivise da persone vicine: dall’ausiliaria Gina Romeo, protagonista del terzo racconto, «Il Manifesto», alla «puttana Alima», che figura nel secondo.
Gina, che nel racconto, si staglia vittoriosa rispetto ad un Ludovico, eterno indeciso, in fondo poco coraggioso e con scarsa forza di volontà, consapevole del proprio dovere ma troppo debole per perseguirlo, finito suo malgrado dietro una scrivania importante a rimpiangere le cose non fatte.
Alima, che invece vien fuori alla fine di una vicenda in cui è sapientemente mescola la storia, quella grave, pesante e politicamente scorretta, qual è la storia del colonialismo fascista, ad una storia d’amore altrettanto scomoda, vissuta tra un giovane italiano, giunto in terra d’Africa per imparare a non sprecare la sua vita in un letto, ed una etiope insieme alla quale sfida le leggi di difesa della razza.
Lei, che incarna contemporaneamente l’Africa, la Passione, la Terra e la Donna.
«Un uomo guarda il confine del suo mondo spesso insofferente e come fosse una prigione, ma la sua donna e la sua terra sono il rifugio, rifugio d’anime».
Una donna quasi stilnovistica se non fosse per la forte carnalità con cui lega Marco, il protagonista, in un racconto in cui l’Africa torna ad essere «lavacro purificatore di ogni spirito d’avventura fissato sui romanzi di Salgari, è la porta dischiusa dove ogni fantasia appare realtà, grembo materno in cui ridestare il corpo e i suoi istinti primari, primitivi forse ma anche più liberi e spontanei» ed, al tempo stesso, «è l’umiliazione della sconfitta ad Adua e riscattata con le armi ed ora con il lavoro. Il gladio e l’aratro».
Un racconto che termina con l’avvento degli inglesi, che spazzano il tricolore e si portano via Marco.
«Non una parola, non una lacrima. Lo guarda dritta negli occhi e lui la guarda, raddrizzando la schiena e sorridendole. L’una è conforto per l’altro, l’altro è conforto per lei. Fiera e sprezzante verso i vincitori, i nuovi signori della sua terra, verso la sua stessa gente, ella leva il braccio destro nel saluto che conosce appartenere agli uomini della sua stessa razza del suo uomo, rigida nell’esile corpo e ferma nell’animo forte. È l’ultima immagine che Marco porterà con sé».
Un’altra donna vittoriosa, un’altra donna fascista – seppur inconsapevolmente quest’ultima – che, come l’ausiliaria Gina, rimane donna fin nel profondo senza mai risultare sottomessa.
Un’immagine, quella conclusiva, da cui si passa bruscamente ad un mondo che, sessant’anni dopo, ci riporta ad un’Alima, giovane etiope, discendente della protagonista, che finisce in Italia a fare la prostituta rimpiangendo la sua terra e, implicitamente, facendo quasi rimpiangere il suo passato.
«L’idea coloniale non era solo un’idea di conquista», commenta Merlino, «e noi possiamo anche cospargerci il capo di cenere e lanciarci in piagnistei su quanto siamo stati cattivi. Ma, oggi che siamo buoni, che cosa stiamo facendo per queste masse di diseredati, cosa offriamo loro se non rimpinguare la linfa della delinquenza invece di portare in quei paesi gli strumenti per uno sviluppo localistico?».
Una storia in qualche modo collegata al quarto racconto, «Il silenzio della terra», in cui un teso ma commovente rapporto tra padre e figlio disvela cautamente il senso di un silenzio carico di significati.
«In Etiopia tutto è più lento. Non ci sono orologi a scandire i minuti né i campanili delle chiese a ricordare ogni quarto d’ora. C’è ancora il sole e le ombre della sera, il vento e la pioggia a disegnare le stagioni». È la conclusione del racconto di Alima.
«Adesso cominciavo a capire il silenzio della terra, il suo silenzio, il silenzio degli uomini abituati da secoli a dialogare attraverso i gesti quotidiani con la natura e i frutti e le difficoltà, che essa stabilisce di distribuire in un disegno intraducibile. Di fronte ad essa non servivano lunghi discorsi, ma l’offerta tacita e dura». È invece pressoché la conclusione del quarto racconto, momento di riconciliazione tra il padre ed il figlio, tra l’uomo e la natura e, soprattutto, tra l’uomo e se stesso.
Nessun senso di colpa per il vivere cittadino, chiarisce Merlino, ma senz’altro, implicitamente, nella figura del padre, ex combattente della Rsi, la consapevolezza, sottolinea ancora l’autore, che «dietro le armate alleate si celava l’assalto a quei valori rurali che il Fascismo voleva far propri anche della città e diffondere nella società industriale. Un richiamo, insomma, all’eterna guerra del sangue contro l’oro, pur ricordando che non è necessario nell’esser vinti piangersi addosso».
«Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti», è d’altronde l’omaggio a Marguerite Yourcenar in apertura dell’ultimo racconto, «Il Maestro di Scuola», che il nostro spiega esser l’unico finora mai scritto al computer, ma prima di tutto il racconto che «gli amici ritengono più bello, forse perché, essendo romagnolo, ci ho messo un po’ di animus campanilistico», confessa lo scrittore.
Sta di fatto che la chiusa del libro regala attimi di disorientamento ed entusiasmo ad un tempo con la Rivoluzione tradita a fare da protagonista implicita e la violenza politica (reciproca) degli anni movimentisti del Fascismo a ricordare le basi di un regime incompiuto, con repubblicani ed anarchici, interventisti e socialisti e varia umanità a raccontare il Ventennio a partire dall’idea frenetica e primigenia che portò dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla Marcia su Roma.
Un racconto che è un punto di vista sul Fascismo nonché espressione della visione del mondo dell’autore, anarco-fascista per auto-definizione, convinto che dalla Marcia su Roma a Valle Giulia, rispettando gli insegnamenti di Robert Brasillach, rimane valido un monito: quello di «rimanere fedeli al sentimento fondamentalmente libertario di chi, dopo l’8 settembre, parte senza speranza e certezza di vincere, consapevoli che la dimensione spirituale e la dimensione libertaria possono e devono coabitare».

Emmanuel Raffaele, “Il Borghese”, gennaio 2011

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