Ci risiamo con la propaganda: Islam e scontro di civiltà

A man holds a placard which reads "I am Charlie" to pay tribute during a gathering at the Place de la Republique in ParisOltre un decennio dopo l’11 settembre, oltre Bush padre ed figlio, oltre il Muro di Berlino e la Guerra fredda, nonostante la «speranza» Obama alla Casa Bianca ci risiamo, come in un pessimo déjà-vu.

Ai vertici dello Stato italiano due democristiani, la Russia torna ad essere lo spauracchio dell’Occidente ed un’altra fetta di Medioriente, messa a repentaglio da bande finanziate proprio dagli americani in nome della guerra al nemico pubblico numero uno di turno, riporta in auge più che mai lo scontro di civiltà.

Da una parte lo Stato Islamico, con la sapiente regia dei suoi videomaker, i proventi del petrolio, le crudeltà indicibili, la propaganda estremamente curata ed aggiornata rispetto alla «vecchia» Al Qaeda, meno chiacchiere, più azione, ed un esercito impegnato su più fronti.

Dall’altra un’America che soltanto in corner si è salvata dalla figuraccia di appoggiare esplicitamente i terroristi nella guerra contro Assad, combattuta se non altro sottotraccia, responsabili oggettivi di una destabilizzazione che non può non apparire frutto di incredibile ingenuità o dell’esplicita volontà quanto meno di un’intelligence sempre molto influenzata dalla necessità dello stato ebraico.

Anche e soprattutto su questo versante la propaganda non manca. Basta leggere i titoloni de «Il Foglio», de «Il Giornale», di «Libero», un editoriale di Sallusti o le rievocazioni quotidiane di Oriana Fallaci.

Oppure andare al cinema a vedere «American Sniper», il film di Clint Eastwood che celebra la vita del soldato Chris Kyle.

Propaganda pura che, nel momento in cui riflette un patriottismo autentico, certamente si eleva dalla sua funzione utilitaristica ed ovvia è l’ammirazione che suscita per questo texano così distante dal cliché cinematografico americano stile Rambo: eroe silenzioso ed altruista, devoto al proprio paese e con la sola difficoltà di godersi la tranquillità artificiale di un ritorno che vive come un abbandono («Ho compiuto il mio dovere e rimpiango soltanto i fratelli che non ho salvato»).

Quanto sincera è la vicinanza all’etica del film: «Pecore, lupi, cani da pastore», concetto che rimanda all’idea tradizionale del guerriero, al di là del bene e del male, dei moralismi e dei dogmi, gloria o dannazione nelle cause di un’azione apparentemente identica ad un’altra che diventa unica ed irripetibile in virtù della scelta personale.

Ma, poiché il punto di vista è, per scelta legittima, unicamente quello del protagonista ed il piano rimane quello esistenziale, il risultato è che l’opera fa dell’America stessa quel cane da pastore che Kyle incarna, ricompattando gli animi attorno ad un occidentalismo che, senza se e senza ma, ci racconta il bene contro il male, senza mettere in discussione nulla del concetto di «noi».

american sniper

Del resto, le reazioni all’attentato contro Charlie Hebdo dimostrano come la propaganda non miri alla condanna del terrorismo ma all’ottica dello scontro di civiltà, con i «ve l’avevo detto» dei vari Magdi Allam a riproporre l’opposizione tra la «nostra» libertà d’espressione e la «loro» intolleranza, tra la «nostra» democrazia e la «loro» oppressione, tra liberalismo ed Islam.

Un dualismo, quest’ultimo, che effettivamente è nei manuali e nella realtà, fanatismo a parte e che, però, dà per scontato un fattore ed, anzi, mira proprio ad affermare questa idea: che l’Occidente sia e debba essere per antonomasia il modello liberale, l’America la guida naturale e che questo sia l’unico modello accettabile, ultima tappa del progresso, unica alternativa all’Islam.

Un aut aut creato ad arte, che si rivela una maschera utile soltanto a tenere in vita la contrapposizione nel momento in cui, ad esempio, subito dopo il coro unanime e libertario «Je suis Charlie», il più volte censurato comico francese Dieudonné viene arrestato con l’accusa ridicola di aver commesso apologia nei confronti degli attentatori, dopo aver giustamente polemizzato per la danza dell’ipocrisia ballata sul concetto di libertà assoluta di parola a difesa dei vignettisti francesi, i quali, com’è noto, non si erano certo limitati a fare satira con umorismo, argomentazioni e buon senso, ma si erano appropriati abusivamente di una libertà altrui: quella di  non veder il proprio dio, profeta, antenato o quant’altro una comunità o un individuo riconosca come sacro o afferente alla sua sfera personale, preso per il culo o violentemente insultato da penna o parola altrui.

A dimostrarlo, altresì, il fatto stesso che il liberalismo possa essere considerato pregiudizialmente superiore alle altre culture, senza distanziarsi troppo dallo spirito colonialistico dei secoli scorsi.

A dimostrarlo, il reato di lesa maestà presidenziale, la legge Mancino e simili e così via esemplificando.

Ci sarebbe, dunque, da far chiarezza sul concetto di liberalismo e sull’assurdità di una libertà assoluta come cardine di una società che, con un cardine del genere, non può che scardinarsi e, pertanto, chiude gli occhi, si tura il naso e, non solo si dà, com’è ovvio, dei limiti alle libertà consentite – poiché, come diceva il vecchio adagio liberale, la libertà di ciascuno termina dove ha inizio quella del prossimo – ma sconfina addirittura spesso nell’incoerenza di una legislazione liberticida.

Ecco perché sarebbe da incorniciare l’uscita papale («se offendi la mia mamma, aspettati un pugno») che ha spiazzato i giornalisti i quali, inizialmente, avevano colto soltanto la scontata condanna per il terrorismo e non l’asprezza di un concetto pur così elementare contro  una società assuefatta al politicamente corretto.

Cortocircuiti infiniti, gente in galera per aver messo in discussione la storia, violenze nere da condannare e violenze rosse che si scoloriscono, Grillo che fa storcere la bocca per un vaffanculo, Salvini che può essere aggredito perché denuncia la criminalità rom e poi, però, contro l’Islam, sono tutti Charlie Hebdo, tutti per la libertà di pensiero e di parola, assoluta, senza limiti.

Ipocriti. Sudditi travestiti da cittadini. Con una bandiera senza storia e tante stelle che sventola sulle loro teste ed una con qualche stella in più che ci propina un’identità che, in realtà, non è liberalismo, non è democrazia e non è nulla, perché l’occidentalismo è imperialismo fine a se stesso.

«Distinguere la questione dell’immigrazione e quella religiosa. L’Islam è un patrimonio di valori spirituali che non può essere ridotto a discussioni da osteria», ha dichiarato Pietrangelo Buttafuoco, che in ogni caso vede, probabilmente a ragione, il leader della Lega come l’unica alternativa politicamente percorribile. E noi, che concordiamo su entrambi i punti, non possiamo che ribadire il rischio di incorrere in un boomerang concettuale eccedendo nelle banalizzazioni sull’argomento.

L’alternativa che occorre deve essere culturalmente sovrana. Non per forza o, almeno, non propriamente liberale, che rompa l’attuale divisione made in Usa tra buoni e cattivi e ne riproponga una basata semmai sui nostri interessi, che abbia la capacità di prendere dall’America soltanto quell’orgoglio patriottico pur propagandistico che gli permette di sfornare film come «American sniper», che mostra un popolo capace di scendere in strada per onorare un guerriero, un patriota. Difendendosi dai nemici ma dalla nostra trincea, anziché identificarci con un’idea di Occidente che è soltanto un costrutto ideologico a stelle e strisce.

Emmanuel Raffaele,  “Il Borghese”, marzo 2015

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