“Emozionarsi non è reato: come liberare i maschi dal maschilismo”.
Jonathan Bazzi, noto per esser stato “scoperto” e poi sputtanato da Selvaggia Lucarelli, collaboratore di gay.it per il quale scrive soprattutto di se stesso, “ospite” lo scorso 4 settembre de “Il Fatto Quotidiano“, dall’alto della sua esperienza, ha deciso di sfidarci a “immaginare e legittimare versioni alternative dell’identità maschile eterosessuale“. Come iniziare? Bene, è facile. Gli uomini devono “decostruire la loro identità“. Proprio così.
Essere maschio “il più delle volte” significa ricoprire il “ruolo del carnefice”. Ecco, dunque, come risolvere la situazione: “prendere lo spazio che hanno nella società e renderlo femminista“, ci spiega citando l’attivista Kelly Temple. Gli uomini, insiste, possono essere di più: “possono giocare con l’identità e emozionarsi, ‘sconfinare esteticamente, sperimentare – anche col corpo e la sessualità, deragliare dai binari dei ruoli”. Insomma, devono evitare di essere maschi.
Ora che “il processo al maschio” è iniziato e non si passa più per matti ad uscirsene con robe simili, la proposta di Bazzi è del resto molto più comoda: per evitare l’ossessione della discriminazione omofoba, basta de-maschilizzare l’uomo, renderlo ‘gender fluid’ proprio come lui, farlo vestire come lui, farlo ‘sconfinare’ come lui ed abolire i ruoli come fa lui, che li rifiuta. In breve, basta abolire il maschio e non c’è più discriminazione. Senza diversità, come può esserci? Avremmo dovuto pensarci prima: tutti cloni di Bazzi, felici e contenti. La tesi del “processo al maschio” come cardine dell’ideologia gender, centrale nell’ultimo libro di Adriano Scianca che si occupa proprio di queste tematiche, trova in questo intervento una delle sue dimostrazioni più esplicite. Al di là dell’ironia, la logica estremamente individualista che lo spinge a sognare un mondo di cloni di se stesso, non è per niente ipotetica. Si rivela, anzi, soprattutto in una frase: “l’incapacità di conformarsi al modello del Grande Maschio Dominante – granitico, non ambiguo e onnipotente – genera paura”. Bazzi ha paura. Ha avuto paura di uno stereotipo e, così, lo ha colpevolizzato, ingigantito, deformato, demonizzato.
“Non piangere mai, in nessun caso. Nascondi fragilità e debolezze. Non dipendere da nessuna donna. Anzi dominale, dominale tutte. Fatti obbedire. Nessuna può permettersi di rifiutarti. Devi essere sempre pronto a fare sesso, a mo’ di maniaco. Fattene il più possibile: sei un collezionista. Non emozionarti: è da sfigati. Ti è concessa solo la rabbia. Devi essere dotato. Grosso, fisicato. Non chiedere aiuto. Non chiedere niente. Sfotti gli omosessuali: dimostra che non sei come loro. Non avvicinarti troppo agli amici maschi: saresti sospetto. Buttala sempre sul ridere, evita le menate e le seghe mentali. Difendi il territorio e la femmina. Fai vedere a tutti quanto vali. Devi essere coraggioso: sei il capobranco”. L’idea di maschio di Bazzi è un po’ quella del bullo di periferia. E’ rozza pur senza nascondere verità. Ma, fondamentalmente, i maschi secondo Bazzi sono proprio quei bulli dai quali continua a scappare, come ha confessato nel 2016 in una lunga lettera alla giornalista Selvaggia Lucarelli, che poi la pubblicò facendo fare alla sua storia il giro del web. Nella lettera si leggono tutte le comprensibili difficoltà di un ragazzo che cresce nella periferia milanese, a Rozzano, con il disagio e la criminalità di un “paese-ghetto” formato da generazioni di immigrati meridionali sradicati dalla propria terra quando non da veri e propri delinquenti.

“Ecco come è stato essere gay a Rozzano”, ci racconta Bazzi. Solo che, a ben guardare, la realtà che ci racconta, certamente verosimile, è una realtà difficile di per sé, è una realtà che se la prende col più debole, una realtà in cui il più forte sopravvive, ma tutto ciò ha poco a che fare con l’omosessualità. Una volta viene picchiato da una donna, ci racconta. Era lesbica, specifica (“vicino alla chiesa, sotto la statua dell’arcangelo Gabriele posta in cima all’edificio anni ’70, mi spiegò in modo assai convincente che non mi dovevo più permettere, assestandomi un calcio volante dritto in pancia”). Il punto – è ormai evidente – non è l’omosessualità: il punto è la debolezza, che ovviamente non può essere una colpa per essere vigliaccamente preso di mira, ma è comunque un’altra cosa. L’omosessualità, semmai, è una ‘scusa’. A Rozzano si viene presi di mira quando non si sa menar le mani, spiega.
Ed ecco che quella prepotenza, quella degenerazione della virilità, Bazzi la identifica col maschio. E per chiudere la questione, per non aver più paura, si augura così un mondo senza maschi che gli possano far male. “Vivevo quindi perlopiù recluso, odiavo stare con gli altri, sopratutto coi maschi“, scriveva nella lettera. “Ancora adesso ho paura quando vado a Rozzano“. Il calcio? Confessa di essere “totalmente negato” e che lo “inquietava per i falli aggressivi, bellici, rabbiosi dei terroncelli rozzanesi“, aggiungeva poi, lasciando trasparire anche in questo passaggio un certo snobismo pregiudiziale verso i meridionali. Del resto, per descrivere in senso dispregiativo Rozzano, usa questa espressione: “è una specie di Sud senza il calore del Sud”. La Lucarelli, che certo non siamo qui a portare ad esempio di verità incarnata, aveva diffuso la sua storia ed ha finito per prendersi da lui della “rotta in culo” (sarà mica maschilista?!) e poi, quando la signora si è offesa, della “buzzicona”. L’idillio tra i due è finito e la Lucarelli, icona del perbenismo social, gli ha praticamente dato del vittimista egocentrico. Su gay.it ha detto che “il Pride deve continuare ad essere osceno”, per continuare a scandalizzare, che Marco Prato non doveva essere lasciato “in una condizione carceraria spesso disumana” (quando i soprusi non li subisce direttamente, a quanto pare, è più tollerante, invece, la morte del vicino napoletano che lo disturbava da ragazzino gli ha fatto tirare un sospiro di sollievo) e che “dobbiamo imparare a immaginare le famiglie non tradizionali“. Secondo lui (e qui ci sarebbe da fare un rimando diretto al paragrafo in cui Scianca collega l’ideologia gender al nichilismo contro la vita e la natura in quanto reali), infatti, “tutta la civilizzazione e la cultura e il diritto intervengono per rendere possibile qualche cosa d’altro dall’ordine ‘naturale’. In natura, ad esempio, il forte prevale sul debole. La femmina è presa e violata, i vecchi restano indietro, i deboli sono i primi a essere divorati dai predatori, quel che può succedere succede. La natura non è il regno del giusto, non protegge l’uomo, i suoi legami, la sua dignità” (salvo poi pubblicare la storia di un pesciolino che cambia continuamente sesso, che in certi casi la natura fa comodo!). Praticamente, dalla sua infanzia a Rozzano, Bazzi costruisce tutto il suo modo di pensare. E fa di tutta l’erba un fascio, continuamente. Anche questa storia della natura, infatti, non è mica tutta una frottola: la civiltà aggiunge l’etica alla dimensione puramente animalesca, è vero. Ma non può certo andare oltre quella dimensione, mutare la realtà, i dati di fatto della natura, della biologia, come l’essere genitore ad esempio.
Manuel Peruzzi, collaboratore di diversi giornali e siti internet, gay e dedito ai ‘gender studies’, in un post commentava la confessione di Bazzi sulla sua sieropositività. “Ci pensavo a questa deriva comunitaria-arcobaleno-dei diritti e dell’identificazione, a questa falsa libertà, a questo “io sono io, unico” del gay medio, mentre tentavo da minuti di cercare invano quale fosse il passaggio più orripilante del testo”, scrive Peruzzi in riferimento ad un Bazzi soprannominato con fare sarcastico “la Rosa Park di Rozzano“, “quello che non soddisfatto d’essere un aspirante scrittore gay del ghetto è voluto diventar per tutti noi l‘aspirante gay sieropositivo del ghetto, identificandosi prima con Rozzano, poi con una comunità, e infine (?) con un virus”. Secondo Peruzzi, non sospettabile di omofobia, “Bazzi senza omosessualità non esiste […]. Jonathan Bazzi è un cliché, ma ancor peggio, è un mitomane“. Ma Peruzzi non si limita al livore contro Bazzi. “Prima che si desse nome all’omosessualità e alla sodomia, prima che ci fosse una parola per dirlo, prima che si aprissero luoghi e club comunitari: si scopava da Dio“, esordisce provocatorio. E, soprattutto, dando le coordinate di una nuova fase: “Tutto è finito con la liberazione sessuale […]. Inizio dell’ideologizzazione“.
Ma, prima di concludere, facciamo un salto indietro. Dopotutto, lo abbiamo ammesso: in quello stereotipo, che è l’incubo di Bazzi, c’è pur sempre del vero. La rappresentazione che fa dell’identità maschile è (non a caso) bambinesca ed abbiamo anche visto perché. A tratti è contraddittoria: come lui stesso ammette, infatti, il “farsene più possibile” non è certo prerogativa del maschio eterosessuale. Ma non è del tutto campata in aria. E proprio per questo è significativa. In quella rappresentazione è mescolata la forza con la prepotenza. Ovvero, con la canalizzazione negativa della forza. Ma a lui non disturba quella negatività, l’ingiusto, l’errore. Anzi, non fa proprio distinzione. Il nemico di Bazzi, ragazzino indifeso e debole, è la stessa forza, la natura, la realtà.
“Non piangere mai, in nessun caso. Nascondi fragilità e debolezze. Non dipendere da nessuna donna”. Bazzi ci invita a piangere, a cedere, a rinunciare, a non tentare neanche di combattere. Il modello di maschio che ci propone è il debole. Non ci è riuscito battendosi, per cui ci prova culturalmente a sconfiggere quei bulli. Tentando di far saltare il tavolo. “Devi essere dotato. Grosso, fisicato”. Ancora una volta, Bazzi proietta in negativo, e lo trasforma in esteriorità, un modello di forza – come se poi i gay non andassero (forse più degli etero) in palestra. “Buttala sempre sul ridere, evita le menate e le seghe mentali. Difendi il territorio e la femmina. Fai vedere a tutti quanto vali. Devi essere coraggioso”. Ancora una volta, niente di più esplicito: questa volta il nemico è chiamato per nome. E’ il coraggio. Non ce l’ha avuto e, quindi, diventa un anti-valore. Così come difendere la tua donna, difendere la propria terra, evitare le paranoie. Comportamenti nobili (che puntualmente vengono invocati come in occasione delle aggressioni a Colonia o del recente omicidio di Lloret de mar) vengono letteralmente rovesciati di significato come niente fosse. Come se la viltà potesse essere, al contrario, un valore. Come se la passività lo fosse.
Ecco, non serve essere dei buzzurri per essere maschi. Ma di certo è necessario non seguire i consigli di Bazzi.
Emmanuel Raffaele
Una risposta a "Jonathan Bazzi ci insegna come essere maschi eterosessuali: bisogna essere come lui"