“Essere comunità”, ma per davvero: una critica al libro di Marco Scatarzi

“Essere comunità”, testo edito nel 2017 da una casa editrice giovane come “Passaggio al Bosco” e scritto da Marco Scatarzi, è un libro che offre spunti contrastanti.
Titolo e copertina fanno ben sperare e, senza dubbio, si tratta di un libro che, con chiarezza, riassume le criticità della modernità ed esprime una visione del mondo condivisibile.
Il punto è che, però, la impostazione fin troppo marcatamente finalizzata alla definizione e comprensione del concetto di comunità militante e del ruolo che il singolo dovrebbe svolgere in essa, finisce per far risultare inappropriati, se non contraddittori, i pur graditi e sperati riferimenti alla comunità in senso generale e “sociologico” (realtà la cui riscoperta, in questo particolare momento della storia europea, risulterebbe senz’altro più centrale rispetto alle solite conventicole ideologiche – o pretese “élite”, che dir si voglia – su cui invece si concentra ancora l’attenzione.
In questione, dunque, non c’è una legittima scelta tematica in merito alla quale ci sarebbe poco da criticare, ma l’impressione che (a destra) si sfugga e si continui ancora a sfuggire colpevolmente alla questione stessa posta dal titolo: essere comunità.

Aspettarsi qualcosa di nuovo era quanto meno auspicabile.
Del resto, il richiamo all’identitarismo poteva far pensare a un’apertura rispetto alla ghettizzazione a cui – chi più e chi meno – quest’area politica ci ha abituati (come diretta conseguenza del processo di ideologizzazione di un idea – quella fascista – che invece nasceva anti-ideologica e con aspetti di per sé contrastanti).
Ma, evidentemente, la confusione dei termini (fascismo, identitarismo, populismo, destra) è un altro argomento che andrebbe approfondito e, in particolare, il termine identitarismo (che sottintende la comunità ma in senso del tutto anti-ideologico) dovrebbe essere usato con maggiore cura.
La comunità, spiegava il sociologo Tonnies – che tra l’altro è anche citato nel testo – nasce in generale da situazioni di fatto come la parentela e il vicinato, in cui il terzo elemento costituito dall’amicizia nasce da una connessione nata nel concreto di questi contesti, da esperienze condivise in comune e che affraternano.
Sempre Tonnies faceva notare che, non a caso, messo da parte il valore della famiglia e del “vicinato” (declinato in senso di comunità, patria e identità), in una società improntata sull’individualismo e sullo sradicamento, si è invece teso a preservare soltanto il valore dell’amicizia, l’unico che avrebbe in qualche modo permesso di far leva sul “moderno” concetto di “libera scelta”.
E’ così che si è posto l’accento su un aspetto dell’amicizia che è però conseguente e non fondante: l’esperienza comunitaria da cui nasce lo scambio e/o la scoperta di interessi comuni passa infatti in secondo piano; in primo piano sono adesso gli individui coi loro interessi bell’e fatti, che decidono condividere con altri qualcosa sulla base di una scelta del tutto razionale, a prescindere dall’esistenza di una relazione o connessione speciale e che, al contrario, ricerca la connessione o la relazione sulla base di un elemento dato che è appunto l’interesse in comune, che quindi anticipa la relazione stessa. Una connessione di tipo razionale e anaffettiva, dunque, che precede quella tipo irrazionale e affettiva. Come conseguenza secondaria, un atteggiamento di maggiore chiusura e ghettizzazione ciascuno nel recinto che si è scelto.
E’, se ci fate caso, la stessa concezione delle relazioni che appartiene agli algoritmi da social network, la stessa che spinge a cercare l’amore su una app, scegliendo il partner sulla base di una descrizione da catalogo per gli acquisti, fondata sull’avere, sull’apparire e sul dire e non sull’essere.
Tutto ciò trasformando così il concetto stesso di amicizia (e di amore) in qualcosa di fluido, virtuale, sradicato dalla concreta condivisione di legami ed esperienze quotidiane, come poteva essere il legame tra operai, colleghi, camerati, ecc. nel quale la realtà stessa permetteva l’emergere spontanea (e non razionalmente decisa) di un amicizia in virtù di una maniera di relazionarsi complementare e provata dai fatti, provata dalla fides.
Anche il legame familiare, del resto, prima che un “valore”, era qualcosa provato dai fatti, dal lavoro organizzato organicamente per portare avanti la famiglia (allargata), con il “rito” (a cui la società borghese ha tolto senso e spazio) del mangiare insieme come esito finale di uno sforzo collettivo in cui ciascuno dava il proprio contributo alla famiglia.
“In antico, comunità e società convivevano nella civiltà. La stessa organizzazione non era che un metodo per superare gli ostacoli”, scrive Luca Leonello Rimbotti, opportunamente citato da Scatarzi. E’ un altro aspetto cancellato dalla modernità del “posto di lavoro”, della carriera, della competitività capitalista, dall’allontanamento della produzione dagli individui, trasformatisi in consumatori di cose vendute e fabbricate da pochi, spesso lontano dalle nostre case, spesso lontani dalle nostre case. La famiglia, prima di essere una istituzione, era una funzione.
LA COMUNITA’ COME DESTINO
La comunità è insomma, nel suo significato più vero, una rete di sostegno, organica, solidale e funzionale, in cui è essenziale la dimensione orizzontale come quella verticale.
E in cui- è importante notare – la comunanza di tradizioni, lingua, cultura e storia sono il dato di fatto di partenza: è la nascita e il fatto stesso di esserci dentro a stabilire l’appartenenza, non una scelta “arbitraria”, come nel caso della comunità militante o di natura ideologica. E, seppur sul suo grado di coesione influisce ovviamente l’adesione più o meno forte della maggioranza ad una visione del mondo scaturita (immanentemente) dagli elementi elencati poc’anzi, seppur la sua organizzazione possa essere differente e influire differentemente (più o meno coercitivamente) sulla coesione, nonostante ciò, la comunità esiste ugualmente. In breve, la nostra patria – parafrasando un famoso adagio molto in voga – NON è laddove si combatte per la nostra idea. La comunanza di ideali è altra cosa, importante, certo, ma differente.
Ecco perché, perduta la funzione della comunità, va da sé che si è perduta la comunità.
Ed ecco perché parlare di rinascita e ricostruzione per mezzo dell’essere comunità, mettendo poi però al centro del discorso la comunità militante, è fuorviante.
Quello della “comunità in funzione di una idea” e del “cameratismo in funzione di un terzo elemento” è un concetto che può essere valido ma è certamente differente dal senso autentico di comunità come comunità di popolo.
Si tratta, per lo meno, di due piani differenti, da tenere separati.
D’altronde, “La comunità è il tempio delle differenze, perché rispetta le identità e le valorizza” è senza dubbio un enunciato che difficilmente si concilia con la realtà dei raggruppamenti politici, tanto più se radicali (laddove troppo spesso è premiato piuttosto il conformarsi, l’obbedienza cieca e meccanismi gerarchici inutilmente rigidi e cristallizzati).
La comunità va oltre le bandiere e gli slogan, nasce dalla spontanea e concreta connessione di animi che si scoprono simili, che lavorano e vivono insieme. Ed era auspicabile, quindi, si parlasse finalmente di una comunità per la comunità.
RICOSTRUIRE LE RELAZIONI SOCIALI, A PRESCINDERE DALLE IDEOLOGIE
Proprio oggi che spariscono le connessioni umane essenziali, che le strade sono terra di nessuno, che i rapporti di vicinato sono stati cancellati o si sono trasferiti sul web
, proprio oggi che la rete sociale è stata smantellata, si poteva sperare che una proposta di rinascita della civiltà europea prendesse forma a partire dalla ricostruzione dei rapporti umani di base, a prescindere da qualsiasi astratto “terzo elemento”, perché questo si è un fattore essenziale per la riaffermazione del concetto di popolo -che il globalismo vuole cancellare.
Del resto, non si recupererà la comunità parlando di comunità, ma costruendola (e pensando a come ricostruirla).
Ed è anzi questa la ragione per cui siamo (e rimaniamo), nonostante tutto, individui isolati di fronte alla coesione dei vari gruppi etnici che giungono nelle nostre città (e che ci spaventano per aver conservato una mentalità da clan, che spesso è la declinazione peggiore della comunità), provenienti da Paesi in cui il modello sociale si mantiene differente. E’ per questo che siamo e ci sentiamo isolati di fronte allo Stato, isolati nel mondo, isolati dalle e nelle nostre famiglie.
Emmanuel Raffaele Maraziti

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