Abbiamo visto come la nuova centralità del concetto di sovranità come categoria politica sia conseguenza della “sommatoria della dialettica destra/sinistra tradizionalmente dominante ad una crescente contrapposizione tra, appunto, sovranisti e anti-sovranisti/globalisti, accentuatasi progressivamente insieme ad una aumentata visibilità (a partire dalla Seconda Guerra Mondiale) del potere degli organismi di governo sovra-nazionali”.
Dunque, partendo dalla sovranità come dato di fatto storico-politico quanto meno fino al secondo conflitto mondiale, resta da capire se, come e perché questo avvenimento abbia cambiato le carte in tavola e, in ogni caso, come si sia modificata la considerazione della sovranità nella teoria politica. L’impressione, infatti, è che i mutamenti imposti dalle contingenze abbiano indotto il salto di livello, che gli eventi abbiano influenzato la teoria e se, com’è ovvio, ciò non è avvenuto del tutto passivamente, è fuori di dubbio che il nuovo scenario abbia ispirato soluzioni nuove ed un approccio differente. Più semplicemente, potremo dire che, se di cosmopolitismo si è sempre “fantasticato” nella filosofia politica, i nuovi equilibri creatisi hanno dato coraggio, concretezza e contenuti all’utopia globalista.
Sintomatica e paradigmatica può ritenersi, ad esempio, la copertina dedicata al tema dal settimanale “Internazionale” lo scorso 4 maggio 2018: “LA FINE DEGLI STATI“.
Perentoria e sfrontata, l’apertura del periodico italiano che raccoglie e traduce articoli dalla stampa estera, racconta chiaramente l’affermazione ormai incontrastata di una visione globalista che relega lo Stato al passato, che si rivela all’opinione pubblica esplicitamente, senza esitazioni e timori, forte di una consapevolezza ormai data per scontata. E’ la prova di un cambiamento già avvenuto nella cultura dominante, laddove lo Stato non è più intoccabile, il cosmopolitismo non è più una fantasia visionaria e l’aspirazione ad un nuovo ordine mondiale non è più faccenda riservata ai complottisti, perché è già politica. Si tratta di un ulteriore passaggio (di certo conseguente) rispetto all’idea di economia globale che l’ideologia liberista aveva suggerito fin dalla sua nascita. Ed ecco, ancora, la connessione tra economia e politica, ma soprattutto il legame inscindibile tra capitalismo e globalismo. Non c’è globalismo senza capitalismo e non c’è capitalismo senza globalismo. Uno dei suoi vantaggi, forse il vantaggio strategicamente più grande, è che a sinistra molti non l’hanno capito e, come sul tema dell’immigrazione di massa, fanno il gioco del capitalismo scambiando la mobilità indotta della manodopera mondiale con l’utopia del mondo senza frontiere.
LA CRISI DEGLI STATI-NAZIONE
Già in copertina, senza girarci troppo intorno, la testata diretta da Giovanni De Mauro suggerisce: “è ora di immaginare un nuovo modello globale di convivenza”. Dunque, un nuovo modello di convivenza, su scala globale, in cui lo Stato nella sua forma attuale sarà accantonata definitivamente. Più avanti, il concetto – fondamentale – verrà ulteriormente sviluppato e chiarito.
Prima, però, diamo uno sguardo all’analisi sugli stati-nazione “in crisi in tutto il mondo” e sul “ritorno del nazionalismo” come “risposta al loro declino”, laddove già si confonde volutamente, attraverso uno schema abusato ma efficace, sovranismo e nazionalismo.
Ci accorgiamo subito che le preoccupazioni circa la tenuta del mercato e gli scambi globali sono quelle prevalenti: “In tutti i paesi del mondo compriamo gli stessi prodotti e usiamo Google e Facebook, ma curiosamente la politica è ancora fatta di cose diverse in ogni paese e conserva ancora l’antica fede nei confini nazionali“. I confini ridotti a fatto arcaico fondato sulla fede e il mercato unico globale considerato indiscutibile e imprescindibilmente moderno: così Rana Dasgupta sul quotidiano britannico “The Guardian” (tradotto appunto sul periodico italiano).
“La novità più importante della nostra epoca”, prosegue, “è proprio l’erosione dello stato: la sua incapacità di resistere alle spinte del ventunesimo secolo e la sua catastrofica perdita di influenza sulla condizione umana. L’autorità politica nazionale è in declino, e siccome non ne conosciamo altre, ci sembra la fine del mondo“. E per carità no, non è la fine del mondo: il problema è se, come sembra probabile, si tratti quanto meno della fine della sovranità popolare nelle sue diverse forme; se l’impossibilità di resistere a questa erosione di potere non dipenda in realtà soltanto da una volontà politica che non intende fermarla o che si arrende al potere del mercato, ovvero alla volontà delle lobby economico-finanziarie che hanno tutto l’interesse a superare lo Stato; e se questo interesse economico non vada contro l’interesse (economico e politico) dei popoli.
E’ naturale, del resto, chiedersi: l’ “erosione dello stato” è avvenuta per cause naturali o è la conseguenza di un attacco? E, se di attacco si tratta, prima di buttare gli Stati e le nazioni nel cestino dei rifiuti della storia solo perché ‘è così, non ci si può far niente’, ci hanno spiegato perché è giusto e opportuno lasciar fare?
“Le strutture politiche del novecento affogano in un oceano fatto di deregolamentazione finanziaria, tecnologia sempre più autonoma, militanza religiosa e rivalità tra grandi potenze”. “Le élite finanziarie – e la loro ricchezza – si sottraggono sempre più agli obblighi di fedeltà nazionale. La perdita di autorità della politica nazionale deriva in gran parte proprio dalla sua incapacità di controllare i flussi di denaro […] La fuga di queste risorse indebolisce le comunità nazionali dal punto di vista sia materiale sia simbolico. Ed è causa, ma anche effetto – scrive quasi per salvare la faccia -, della loro decadenza”. Ancora: “Oggi la distribuzione della ricchezza e delle risorse a livello planetario è quasi totalmente svincolata da ogni meccanismo politico”. Col risultato di un divario sempre più ampio tra ricchi e poveri, infatti.
D’altra parte, più avanti, viene ricordata una epoca in cui “i capitali non erano liberi di fluire incontrollati oltre i confini e le speculazioni valutarie erano trascurabili rispetto a oggi. I governi, in altre parole, avevano un controllo sostanziale sui flussi monetari, e se parlavano di cambiare le cose era perché erano effettivamente in grado di farlo”. “Per alcuni decenni il potere dello stato è stato monumentale – quasi divino – e ha creato le società capitalistiche più sicure e più eque mai conosciute. La distruzione dell’autorità dello stato a vantaggio del capitale ha rappresentato l’obiettivo esplicito della rivoluzione finanziaria che definisce la nostra epoca“.
Se qualche risposta al nostro interrogativo sembra quindi venir fuori, le soluzioni proposte sembrano però del tutto contraddittorie rispetto ad esse.
Escludendo l’estrema genericità della connessione con la militanza religiosa e la rivalità tra potenze, infatti, l’erosione pare essere piuttosto questione di un mancato rafforzamento degli Stati e della necessità di una nuova regolamentazione della finanza e dei mercati; la conseguenza di un attacco, appunto, e non la causa di un problema insito agli Stati.
Perché dunque mandarli al macero anziché difenderli e migliorarli?
Se ad erodere il potere degli stati è fondamentalmente – come è sembrato di capire – il sistema economico globale, è legittimo eleggere il capitalismo a sovrano del nuovo ordinamento mondiale o quanto meno assecondarlo? Non sarà, appunto, un tantino antidemocratico e pericoloso?
Nonostante ciò, per demonizzare chi diffida del “nuovo che avanza”, si fa di tutta l’erba un fascio e gli ‘scettici’ vengono così banalmente dipinti: “oggi è in voga una strana forma di nazionalismo apocalittico. Tuttavia il machismo come stile politico, la costruzione di muri, la xenofobia, il mito e la teoria della razza e mirabolanti promesse di restaurazione nazionale non sono i rimedi alla crisi”.
IL GOVERNO GLOBALE E’ UN PIANO GIA’ IN ATTO
La soluzione alternativa prospettata evoca invece una sorta di giurisdizione e polizia globale.
“La Libia”, osserva Rana Dasgupta, “è solo uno dei tanti paesi che esistono esclusivamente sulla carta geografica. Solo il 5 per cento dei conflitti combattuti nel mondo dal 1989 ha coinvolto gli stati: i 9 milioni di morti nelle guerre degli ultimi trent’anni sono stati causati in massima parte da conflitti interni, non da invasioni. E, come è successo nella Repubblica Democratica del Congo e in Siria, il vuoto di potere che a un certo punto si crea finisce per attirare nel conflitto paesi di tutto il mondo”. Ed ecco, dunque, uno dei motivi (o delle scuse) per cui sarebbe necessario una sorta di supervisore globale che impedisca “vuoti di potere”.
Per farla breve, gli utopisti che auspicano un governo mondiale pensano, insomma, di risolvere i conflitti governando al posto dei popoli. Senza abolire formalmente la democrazia, ma svuotandola. Eppure, l’osservazione qui riportata suggerisce ancora una volta come, alla radice del problema, non ci sia la sovranità in sé, ma una sovranità debole o assente.
D’altra parte, l’abolizione della sovranità delle nazioni non abolisce la necessità di uno o più centri decisionali, non abolisce il potere, che al massimo si sposta, si centralizza e vola via dalle mani delle nazioni e dei popoli. E c’è da dire che, l’ultima volta che venne perseguito il tentativo di abolire il potere, per far governare direttamente una classe, nacque l’Unione Sovietica e si risolse nella peggiore e più duratura dittatura della storia.
Ecco perché non conviene sottovalutare le seguenti parole, che rappresentano senza dubbio il passaggio fondamentale dell’intervento: “Senza una grande innovazione politica, la tecnologia e il capitale globale ci governeranno senza alcun tipo di controllo democratico”, ammette la giornalista, che conclude auspicando dunque “forme politiche capaci di operare su questa scala” e facendo riferimento a “nuovi meccanismi politici transnazionali” e ad “un’infrastruttura politica altrettanto formidabile, che non abbiamo ancora nemmeno cominciato a concepire” per completare una “globalizzazione, oggi pericolosamente incompiuta”.
Non possono che provocare inquietudine, del resto, le previsioni non troppo azzardate della giornalista: “presto emergeranno nuove tecnologie capaci di sostituire anche le altre funzioni fondamentali dello stato nazione. L’utopia libertaria in cui delle burocrazie antiquate soccombono a sistemi privati puri che prendono in mano la gestione della vita e delle risorse è uno scenario più probabile di qualsiasi fantasia su un ritorno alla socialdemocrazia“. “Assisteremo alla continuazione su scala nazionale dei processi tecnologici già in atto, che promettono nuovi tipi di governo basati su algoritmi, con una ulteriore delegittimazione della politica. Le aziende che sfruttano la raccolta di grandi quantità di dati (Google, Facebook, eccetera) hanno già assunto molte funzioni un tempo affidate allo stato, dalla cartografia alla sorveglianza”. “Il potere dello stato è una bufala”.
O per meglio dire: il capitalismo ha trasformato in una ‘bufala’ il potere dello Stato.
Eppure, inspiegabilmente, il nemico continua ad essere la sovranità nazionale, tanto da rievocare in senso positivo, ed ancora più inquietante, persino gli imperi: “Gli imperi non erano democratici, ma erano costruiti per includere chiunque finiva sotto il loro dominio. Le nazioni, invece, si basano sulla distinzione fondamentale tra chi ne fa parte e chi no, e dunque porta in sé la tentazione della purezza etnica. Tutto questo le rende più instabili degli imperi, perché queste caratteristiche possono sempre essere cavalcate da qualche demagogo nativista”.
Concetti che non sembrano nuovi rispetto alle parole d’ordine mondialiste.
Dimenticando peraltro che gli imperi (come quello ottomano a cui si fa riferimento) procedevano comunque da un’identità dominante e preminente, passando sopra la libertà dei popoli e ponendo come sempre l’accento sulla stabilità e la ricchezza, esattamente come fanno oggi i burocrati europei e mondiali.
Non si può più dire, dunque, che oggi l”obiettivo, sia nascosto e segreto, né si può accusare di complottismo chi parla di nuovo ordine mondiale. Non si tratta di complotti e sette massoniche, infatti, ma di una teoria e di una strategia chiara e lucidamente portata avanti dalle élite progressiste, nonostante il parere dei popoli: “le nazioni devono essere inserite in un’architettura di strutture democratiche stabili – alcune più piccole, altre più ampie – capace di far si che le turbolenze a livello nazionale non portino al collasso del sistema. L’Unione Europea è il principale esperimento in questo senso“.
“Serve”, insomma, “una democrazia globale flessibile”. Serve costruire “i meccanismi politici di un sistema mondiale integrato“. “Ci vorrà quasi un secolo. E ancora non sappiamo dove approderemo. Ma “serve”.
Non l’abbiamo deciso noi, l’hanno deciso loro. Serve. Si farà.
Così come si abolirà il concetto millenario di cittadinanza, definita “la prima forma d’ingiustizia nel mondo” dal momento che, quelli derivanti dal nascere in una nazione piuttosto che un’altra, sarebbero “vantaggi accidentali” e, dal momento che “nel 97% dei casi la cittadinanza è ereditaria”, […] le variabili fondamentali della vita su questo pianeta sono già decise dalla nascita”.
Capito, insomma, perché i ‘buoni’ ci spiegano che il fenomeno dell’immigrazione di massa dall’Africa è inarrestabile, perché Scalfari auspica un “popolo meticcio”, perché il finanziere Geroge Soros e un punk anarchico che vive in una roulotte si trovano nella “impresa” di ‘scaricare’ migliaia di migranti dall’Africa all’Europa? Il sistema economico globale non sopporta la frammentarietà nazionale, esige una governance mondiale, il libero spostamento della manodopera e la cancellazione dei popoli in quanto tali. E tutti quelli che a parole dicono di voler combattere contro le ingiustizie del sistema economico globale, non fanno altro che preparargli il campo e attaccare l’unico argine al dilagare del capitale e del profitto privato sul diritto: la sovranità.
Emmanuel Raffaele Maraziti
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