Alternanza scuola-lavoro: si ma non così. Ecco cosa non va nella riforma di Renzi

“La lavapiatti a pranzo non c’è, pensateci voi: la cucina è al piano di sopra”. “Non potete finire domani, sono sotto di personale, mi servite ancora”Il primo e (in teoria) l’ultimo giorno di alternanza scuola-lavoro inizia così per due ragazze di un liceo linguistico in provincia di Como arrivate in Spagna per lo stage curriculare reso obbligatorio dalla legge n. 107 del 2015. E’ la cosiddetta “Buona Scuola” di Renzi, considerata una delle riforme cardine del governo dell’ex premier ed attuale segretario di un Pd che perde pezzi. Ma, nonostante l’alternanza – introdotta per la prima volta in Italia dalla legge n. 53/2003 e che richiama direttamente il decreto legislativo n. 77/2005 – non sia una novità e proprio la riforma renziana mirasse a farne un caposaldo dell’istruzione italiana, l’introduzione della sua obbligatorietà è stata indubbiamente attuata con una leggerezza che lascia allibiti. Una legge-propaganda che, invece, sarebbe stata certamente apprezzabile se, prima di entrare in vigore e non in corso d’opera, fosse stata perfezionata, rendendo sufficientemente chiari tutti gli aspetti operativi e pronti tutti gli strumenti relativi. Invece, l’alternanza scuola-lavoro, le cui novità sono regolate da poco meno di una decina di commi dell’art. 1 della legge citata e principalmente dal comma 33 – che introduce il monte ore minimo di 200 ore per i licei e 400 per le scuole professionali da svolgere negli ultimi tre anni -, continua a rivelare, a due anni dalla sua introduzione, enormi lacune.

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