Oltre l’ortodossia erotica: “né falsamente severi, né stupidamente frivoli” [quarta parte]

A photographer takes pictures of Fang in a wedding gown next to her husband as they hang from a cliff during a rock climbing exercise in LiuzhouDi là dall’essere originato alla concezione morale di peccato (per poi diventarlo solo in seguito e spesso nel senso moralista dell’apparenza), il pudore è, al contrario, secondo Evola, «il disagio che l’essere umano in quanto tale […] prova nel mettersi nello stato proprio di un animale».

È, dunque, anche a questo da connettersi la ricerca di una relativa intimità dell’atto, propria di una sfera erotica tutt’altro che connessa alla parte animale dell’uomo. E di cui sembra prova «la serietà che subentra negli amanti nel punto dell’unione dei corpi».

«“Quando si ama, non si ride; forse si sorride appena. Nello spasimo si è seri come nella morte”. Ogni distrazione cessa. Oltre la serietà, l’amplesso indica un grado particolarmente alto di concentrazione […]. Per tale ragione, ogni cosa che malgrado tutto lo distogliesse può avere su di lui un immediato effetto eroticamente inibitorio, anzi perfino fisiologicamente inibitorio […]. Questi tratti, questa serietà, questa concentrazione sono dei riflessi del significato più profondo dell’atto d’amore, del mistero in esso racchiuso». Proprio nel pudore dell’atto e della nudità, dunque, l’ennesima prova di un Eros che non è semplice biologia. Ma, soprattutto, proprio nella funzione erotica, come vedremo, del pudore la prova che in ciò non ci sia nulla di morale, se non in ciò che è secondario (oltre ai genitali, le aree del corpo che nelle diverse culture costituiscono oggetto di pudore). Mentre è nella “serietà dell’atto” la prova di uno stato di coscienza diverso da quello ordinario, intaccato dal momento erotico così come avviene (ma in forme diverse e “contrarie”) in quello del sonno.

«Al tempo in cui nove pretendenti si inginocchiavano in cerchio attorno a lei – scrive Kundera -, essa proteggeva con cura la sua nudità, come a voler esprimere, attraverso la misura del pudore, il valore del suo corpo». In contrasto, «la nudità era stata per Tereza il segno dell’uniformità obbligatoria del campo di concentramento; un segno di umiliazione».

Il pudore, quindi, a protezione del Mistero dell’Eros, a differenziarlo dall’animalità della biologia, che infatti rimanda alle forme umilianti connesse alla nudità. Ad una nudità impudica, che non è intima, conquistata ma «“naturale” e quasi casta, afunzionale, abituale e pressoché pubblica» e che va cosi «a testimoniare – o a propiziare – una diminuita tensione e, per l’appunto, l’ottusità propria dell’ “ideale animale”», come scrive Evola in un articolo del 4 maggio 1957, in riferimento all’affermazione della nudità come fatto normale nella società contemporanea.

Viene in poche parole meno il suo valore erotico con tutte le analogie connesse e che, soltanto nella donna, hanno a che fare con l’inaccessibilità (l’idea altamente erotica della verginità, si pensi alla tradizione giapponese della geisha) e il desiderio di conquista violenta che caratterizzano l’erotismo.

L’evidenza, dunque, porta  riconoscere l’ambivalenza dell’Eros come “estasi” o, all’opposto, come “ebbrezza della debolezza”.

Del resto, proprio Evola parla del principio femminile come «principio e causa di ebbrezza. E questa ebbrezza può avere sia la forma inferiore e elementare, dionisiaca, selvaggia e menadica, sia la forma superiore di ebbrezza trasfigurante e luminosa».

Quanto alla donna, nella contrapposizione (da intendersi non schematicamente) tra gli archetipi di Demetra (madre) – a cui Evola non attribuisce potenzialità trascendenti se non nella trasfigurazione non biologica e disinteressata del rapporto col figlio – e Durga (amante), «il femminile afrodisiaco abissale», anche per lei l’Eros «può essere tanto via di perdizione quanto via di superamento della Madre».

Per concludere, è possibile affermare, sintetizzando, che l’Eros, spogliato del moralismo che lo vuole peccaminoso e sporco, è in realtà un’esperienza che ha anche assunto significati iniziatici ma che, a parte questo, rimane un’esperienza di potenziale trascendenza e che, in quanto tale, è ambivalente.

Va distinto, insomma, un aspetto sub-personale da uno superindividuale, che esemplificando potremmo indicare come scadimento nell’esperienza prettamente meccanica (che questa abbia come fine il piacere o la riproduzione) o connessione diretta tra gli strati più profondi dell’essere “uomo” e “donna”.

È chiaro che, escludendo la morale dal discorso, la sua valutazione è legata a fattori del tutto soggettivi e per nulla legati all’azione in sé, che di suo può avere significati interiori differenti.

Stando anche a quanto scritto dal Julius Evola in alcuni articoli raccolti nel testo “Critica del costume”, è chiaro che il riflesso di questa visione sui costumi di uomini e donne corrisponde perfettamente all’etica fascista precedentemente prospettata: ripudio dell’ipocrisia moralista, degli “occhi bassi” ma anche della superficiale frivolezza, dell’esibizione “animalesca”, seguita magari dalla paradossale logica del “vietato toccare” scandalizzato. Esibizione semmai elegante, “aristocratica”, misurata e non volgare. Distacco da una logica di tipo volgarmente predatorio e parolaio. Rifiuto del giudizio bigotto e conseguente distanza da fanatismi “religiosi” e, tanto più, da ogni pretesa di “statalismo teocratico”.

Né falsamente severi, né stupidamente frivoli”, per parafrasare un’indicazione strettamente fascista.

Uso e non abuso di parole, emozioni e sensazioni, senza alcun preconcetto morale, guidati anche qui dalle tre “E” del validissimo Manifesto dell’Estremocentroalto: etica, epica, estetica.

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Demonico, abissale, fascinoso. È dunque questa la caratteristica dell’esperienza erotica, laddove il demoniaco non va ovviamente inteso in senso “cristiano”, ma nel senso letterale di “daimon”, “essere divino”, intermediario tra l’umano e il soprannaturale.

Ecco, “finalmente”, il carattere ambivalente dell’erotismo, che non a caso risulta essere il tratto più «fascinoso» appunto. Ed ha a che fare con il fascino dell’abisso, della notte, della “violenza”.

«Si è che in ciò intervengono», spiega ancora Evola in “Metafisica del sesso“, «fattori sottili, d’ordine sia cosmico che analogico: cosmico, perché, come si è detto, è di notte che, ciclicamente, avviene in tutti un cambiamento di stato, il passaggio della coscienza alla sede del cuore, per cui anche quando si resta svegli, di notte permane la tendenzialità di questo spostamento […]; analogico, perché l’amore sta sotto il segno della donna, e la donna corrisponde all’aspetto oscuro, sotterraneo e notturno dell’essere, al vitale-inconscio, e il suo regno è pertanto la notte, l’oscurità».

Venendo all’ambivalente rapporto tra amore e “morte”, esso si scorge fin nella «ambivalenza delle divinità, specie femminili, che sono divinità del desiderio, del sesso, della voluttà e, insieme, divinità della morte» (es. Kalì). E la sua origine sta esattamente nella natura magnetica dell’impulso erotico: «Il desiderio e il possesso dell’essere amato è ciò che distingue ogni amore sessuale dall’amore in genere come “voler bene”, come puro amore umano […], l’amore sessuale implica il desiderio come bisogno di assorbire».

Si può, in tal caso, fare riferimento al mito dell’androgino, all’unità originaria e alla reintegrazione delle qualità, ma anche al simbolismo taoista che spiega la natura dell’Eros nel magnetismo (tsing) che muove donna e uomo in quanto yin e yang, dal momento che nel Tao si tratta non a caso di due principi che sembrano in continua “lotta”, in un equilibrio dinamico, in un “conflitto misurato”.

Ecco dunque che «si può dunque parlare di una ambivalenza di ogni impulso erotico intenso, perché l’essere che si ama, mentre lo si afferma, in pari tempo lo si vorrebbe distruggere, assimilare, risolvere in sé stessi; sentendo in lui il proprio complemento, si vorrebbe che cessasse di essere un altro essere. Donde, anche, un elemento di crudeltà che si unisce al desiderio, elemento spesso attestato da aspetti anche fisici dell’amore e dallo stesso amplesso». Annota infatti Evola: «Nel Kama-sutra di Vatsayana, a parte una considerazione dettagliata della tecnica dei morsi, dell’uso delle unghie e di altri accorgimenti dolorosi nell’amore […], è interessante l’accenno ad un possibile effetto erotogeno-magnetico oggettivo provocato dalla vista dei segni corrispondenti rimasti sul corpo».

Ed è interessante notare come il tema in effetti ritorni molto spesso nella letteratura, a conferma di questa latenza implicita e che, si badi, solo in quanto latenza rimane nell’alveo di quell’equilibrio dinamico di cui sopra.

«Non di rado la sofferenza fisica nell’amore attrae più della blandizia», scrive D’Annunzio ne “Il piacere”.

«L’amore fisico è impensabile senza violenza», afferma Kundera ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, che riserva alla lettura diversi dialoghi e situazioni emblematiche in merito, contornando un testo noto per la denuncia politica dei regimi comunisti europei di significative riflessioni sull’amore e su quella che viene definitiva «amicizia erotica», non senza confusioni rispetto alla prospettiva qui adottata.

Nel cogliere dunque l’esistenza di un rapporto analogico e in minima parte concreto tra violenza ed Eros, osserviamo al contempo un dato che può essere considerato un primo risultato di questa indagine: ogni feticismo non è altro che l’estremizzazione di una latenza comunemente e normalmente presente.

Del resto, tornando al principio maschile e femminile puro, tornando anche visivamente al simbolo del Tao, yin ha in sé traccia del suo opposto e viceversa. Ecco, dunque, l’equilibrio dinamico nel mantenere tali queste latenze, sia in sé che fuori da sé.

Ed ecco, dunque, un primo significato dell’ambivalenza dell’Eros, dal momento che una rottura dell’equilibrio in sé è causa di una rottura dell’equilibrio fuori da sé, e viceversa.

Scrive D’Annunzio nel descrivere il giovane e nobile protagonista de “Il piacere”: «Non potendo più adeguarsi a una superior forma dominatrice, l’anima sua, camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si trasformava, si difformava, prendeva tutte le forme. Egli passava dall’uno all’altro amore con incredibile leggerezza; vagheggiava nel tempo medesimo diversi amori; tesseva, senza scrupolo, una gran trama d’inganni, di finzioni, di menzogne, d’insidie, per raccogliere il maggior numero di prede. L’abitudine della falsità gli ottundeva la coscienza. Per la continua mancanza della riflessione, egli diveniva a poco a poco impenetrabile a sé stesso, rimaneva fuori del suo mistero. A poco a poco egli quasi giungeva a non veder più la sua vita interiore».

Poco ci interessa delle implicazioni morali, né l’impostazione può esser completamente fatta “nostra”; ciò che rileva è, invece, la correlazione tra vita interiore ed esperienza erotica.

Tornando al carattere violento dell’esperienza erotica, che ne costituisce l’aspetto più “misterioso”, è chiaro che in esso il punto essenziale è quello della violenza come “conquista”. Lì sta l’analogia ed il mistero.

«Tutto il suo essere  – scrive ancora il Vate – accendevasi d’un orgoglio selvaggio, al pensiero di posseder quella bianca e superba donna per diritto di conquista violenta».

«Non era quindi – e siamo di nuovo a Kundera – il desiderio del piacere sessuale (il piacere era un’aggiunta, una sorta di premio), bensì il desiderio di impadronirsi del mondo (di aprire con il bisturi il corpo supino del mondo) ciò che lo spingeva ad inseguire le donne».

Qui pare che tutto torni: l’Eros come esperienza indipendente tanto dal bisogno fisico, che dal piacere, ma anche, per l’appunto, il tema della “violenza”, che giunge ad un’immagine estrema («aprire con il bisturi il corpo supino del mondo») per riferirsi all’atto sessuale, rappresentato esattamente come impulso al raggiungimento violento dell’essere nudo, come conquista, scoperta e come “violazione”. Immagine che diviene congiungimento dell’uomo assoluto con la donna assoluta nel momento in cui la donna è analogicamente rapportata al mondo, alla Terra, così come il principio femminile yin, in contrapposizione al principio maschile del Cielo.

«Solo nella sessualità il milionesimo di diversità si presenta come qualcosa di prezioso perché è inaccessibile pubblicamente e bisogna conquistarlo». In questo passo dello scrittore ceco la violenza che diventa conquista, impulso prometeico alla conoscenza, alla scoperta, di ciò che inaccessibile e che chiarisce tanti aspetti dell’esperienza erotica, cui non a caso deve includersi quella del pudore femminile.

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