Di là dall’essere originato alla concezione morale di peccato (per poi diventarlo solo in seguito e spesso nel senso moralista dell’apparenza), il pudore è, al contrario, secondo Evola, «il disagio che l’essere umano in quanto tale […] prova nel mettersi nello stato proprio di un animale».
È, dunque, anche a questo da connettersi la ricerca di una relativa intimità dell’atto, propria di una sfera erotica tutt’altro che connessa alla parte animale dell’uomo. E di cui sembra prova «la serietà che subentra negli amanti nel punto dell’unione dei corpi».
«“Quando si ama, non si ride; forse si sorride appena. Nello spasimo si è seri come nella morte”. Ogni distrazione cessa. Oltre la serietà, l’amplesso indica un grado particolarmente alto di concentrazione […]. Per tale ragione, ogni cosa che malgrado tutto lo distogliesse può avere su di lui un immediato effetto eroticamente inibitorio, anzi perfino fisiologicamente inibitorio […]. Questi tratti, questa serietà, questa concentrazione sono dei riflessi del significato più profondo dell’atto d’amore, del mistero in esso racchiuso». Proprio nel pudore dell’atto e della nudità, dunque, l’ennesima prova di un Eros che non è semplice biologia. Ma, soprattutto, proprio nella funzione erotica, come vedremo, del pudore la prova che in ciò non ci sia nulla di morale, se non in ciò che è secondario (oltre ai genitali, le aree del corpo che nelle diverse culture costituiscono oggetto di pudore). Mentre è nella “serietà dell’atto” la prova di uno stato di coscienza diverso da quello ordinario, intaccato dal momento erotico così come avviene (ma in forme diverse e “contrarie”) in quello del sonno.
«Al tempo in cui nove pretendenti si inginocchiavano in cerchio attorno a lei – scrive Kundera -, essa proteggeva con cura la sua nudità, come a voler esprimere, attraverso la misura del pudore, il valore del suo corpo». In contrasto, «la nudità era stata per Tereza il segno dell’uniformità obbligatoria del campo di concentramento; un segno di umiliazione».
Il pudore, quindi, a protezione del Mistero dell’Eros, a differenziarlo dall’animalità della biologia, che infatti rimanda alle forme umilianti connesse alla nudità. Ad una nudità impudica, che non è intima, conquistata ma «“naturale” e quasi casta, afunzionale, abituale e pressoché pubblica» e che va cosi «a testimoniare – o a propiziare – una diminuita tensione e, per l’appunto, l’ottusità propria dell’ “ideale animale”», come scrive Evola in un articolo del 4 maggio 1957, in riferimento all’affermazione della nudità come fatto normale nella società contemporanea.
Viene in poche parole meno il suo valore erotico con tutte le analogie connesse e che, soltanto nella donna, hanno a che fare con l’inaccessibilità (l’idea altamente erotica della verginità, si pensi alla tradizione giapponese della geisha) e il desiderio di conquista violenta che caratterizzano l’erotismo.
L’evidenza, dunque, porta riconoscere l’ambivalenza dell’Eros come “estasi” o, all’opposto, come “ebbrezza della debolezza”.
Del resto, proprio Evola parla del principio femminile come «principio e causa di ebbrezza. E questa ebbrezza può avere sia la forma inferiore e elementare, dionisiaca, selvaggia e menadica, sia la forma superiore di ebbrezza trasfigurante e luminosa».
Quanto alla donna, nella contrapposizione (da intendersi non schematicamente) tra gli archetipi di Demetra (madre) – a cui Evola non attribuisce potenzialità trascendenti se non nella trasfigurazione non biologica e disinteressata del rapporto col figlio – e Durga (amante), «il femminile afrodisiaco abissale», anche per lei l’Eros «può essere tanto via di perdizione quanto via di superamento della Madre».
Per concludere, è possibile affermare, sintetizzando, che l’Eros, spogliato del moralismo che lo vuole peccaminoso e sporco, è in realtà un’esperienza che ha anche assunto significati iniziatici ma che, a parte questo, rimane un’esperienza di potenziale trascendenza e che, in quanto tale, è ambivalente.
Va distinto, insomma, un aspetto sub-personale da uno superindividuale, che esemplificando potremmo indicare come scadimento nell’esperienza prettamente meccanica (che questa abbia come fine il piacere o la riproduzione) o connessione diretta tra gli strati più profondi dell’essere “uomo” e “donna”.
È chiaro che, escludendo la morale dal discorso, la sua valutazione è legata a fattori del tutto soggettivi e per nulla legati all’azione in sé, che di suo può avere significati interiori differenti.
Stando anche a quanto scritto dal Julius Evola in alcuni articoli raccolti nel testo “Critica del costume”, è chiaro che il riflesso di questa visione sui costumi di uomini e donne corrisponde perfettamente all’etica fascista precedentemente prospettata: ripudio dell’ipocrisia moralista, degli “occhi bassi” ma anche della superficiale frivolezza, dell’esibizione “animalesca”, seguita magari dalla paradossale logica del “vietato toccare” scandalizzato. Esibizione semmai elegante, “aristocratica”, misurata e non volgare. Distacco da una logica di tipo volgarmente predatorio e parolaio. Rifiuto del giudizio bigotto e conseguente distanza da fanatismi “religiosi” e, tanto più, da ogni pretesa di “statalismo teocratico”.
“Né falsamente severi, né stupidamente frivoli”, per parafrasare un’indicazione strettamente fascista.
Uso e non abuso di parole, emozioni e sensazioni, senza alcun preconcetto morale, guidati anche qui dalle tre “E” del validissimo Manifesto dell’Estremocentroalto: etica, epica, estetica.
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