La democrazia è ancora una cosa seria?

Ho i miei dubbi sull’opportunità di prendere sul serio il dibattito presidenziale americano.
Il peso geopolitico degli Usa è indiscutibile.
Ma siamo davvero convinti che lo sia anche la recita elettorale a cui si è ridotta la sua democrazia?
E cosa significa questo per l’Europa?

La risonanza satirico-mediatica delle affermazioni più esilaranti di Trump è una questione che va oltre la difficoltà retorica dell’ex presidente.
La performance oratoria a punti a cui si è ridotto il confronto è anch’esso un problema che, però, a questo punto, può passare in secondo piano.

Anche nelle sue uscite da imprenditore, Trump non è mai stato un campione di loquacità e contenuti.
Ma, se la sua prima candidatura poteva in qualche modo sembrare plausibile (il fattore sorpresa, il tono sopra le righe, l’antipolitica, il voto di protesta, il fascino imprenditoriale – nonostante i tanti punti deboli della sua biografia anche su questo aspetto), giunti al terzo tentativo ed innumerevoli gaffe, sembra francamente poco credibile.

Perché – sia chiaro – Trump non ha perso un dibattito a causa della sua performance oratoria.
Trump ha perso un dibattito perché era del tutto privo di contenuti, di vocabolario, di preparazione e di statura politica.
E assistere ad un dibattito in cui si presenta impreparato come ad una interrogazione scolastica, è francamente imbarazzante per un sistema politico intero.

Com’è possibile che non sia venuto fuori nulla di più solido e credibile?
Com’è possibile che trovi ancora il sostegno politico-economico per candidarsi alla presidenza?
La domanda non è retorica.

Si sta ridendo molto negli Usa della sua risposta alla domanda sulla sanità: “Quindi lei non ha ancora un piano?”, chiede la giornalista; “Ho i concetti per un piano, ma non sono ancora presidente: quando lo sarò lo preparerò”. Ma, quel che è peggio è che, come se non bastasse, neanche uno di questi concetti è stato argomentato nel corso del dibattito. Né sulla sanità né su altri temi.

Si avrebbe difficoltà persino a incontrare una frase di senso politico compiuto durante l’intero dibattito.
Niente che vada oltre gli slogan: i migranti che delinquono e mangiano i cani, l’accusa di estremismo e marxismo rivolta ai democratici e, in particolare, a Kamala Harris – che certo ci dà molte indicazioni sui valori dei repubblicani americani e ci ricorda un’altra affermazione recente dell’ex presidente, quando accusò i democratici di voler l’assistenza sanitaria universale e di essere, quindi, comunisti.
Insomma, populismo da bar e, oltre questo, il nulla: l’assoluta incapacità di fornire numeri, dati, informazioni tangibili, idee complesse.

E’ questo il massimo a cui può aspirare quella parte del paese che non si riconosce nei “democratici”?
Possiamo anche dire che i moderatori sembravano di parte e ribattevano solo a Trump, ma bisogna anche ammettere che Harris è apparsa semplicemente più credibile e preparata.
E questa non è affatto una buona notizia se pensiamo che è la stessa vicepresidente di una amministrazione che assiste al genocidio israeliano contro i palestinesi senza muovere un dito, che rappresenta gli interessi di chi vuole proseguire il massacro della guerra russo-ucraina a spese dell’Europa.
E che ancora oggi si limita a dire che Israele ha il diritto di difendersi.
Trump sarebbe l’alternativa all’interventismo democratico?
Se Harris insegue la lobby israeliana, Trump si spinge retoricamente oltre: “senza di me, Israele smetterà di esistere”.

Il black out di Trump è durato per l’intero dibattito
Non ribatte. Non si difende. Vago sull’economia e sulla sanità, generico sui migranti, perfino sulla questione aborto è apparso disorientato, senza una posizione chiara, con l’unica risposta che continuava a ripetere: “ho ridato la parola agli Stati” (il riferimento è al superamento della competenza federale sulla questione aborto e il ritorno, dal 2022, grazie ad una Corte Suprema a maggioranza repubblicana, alla competenza dei singoli Stati, che ha dato il via al divieto di abortire in diversi Stati).

Fin dalla prima domanda (“economicamente, gli Usa sono un Paese migliore rispetto a quattro anni fa?”), nessuno dei due parla di contenuti reali, come in una recita appunto, ma Harris quanto meno ha studiato.
Si dipinge come figlia della classe media, amica dei piccoli imprenditori, decisa a proseguire la politica (interventista) delle alleanze classiche nell’ambito della politica estera, mentre ancora una volta, anche in questo caso, Trump sembra non sapere cosa rispondere.

Concetti vaghi espressi con un lessico scarso e una fraseologia ai limiti dell’incomprensibile.
Non rivolge mai lo sguardo a Harris, non sorride, sembra non padroneggiare affatto della situazione.
Dall’altro lato, Harris si muove, ride e lo deride, appare (appare) spontanea, lo guarda in faccia e sembra perfettamente gestire la situazione.
Lamentandosi – giustamente – del “solito vecchio e stanco copione” di Trump, incapace persino di sfruttare quell’attentato che per un attimo aveva fatto pensare in una vittoria certa di Trump.

SEMBRA UN INCONTRO TRUCCATO.
Per caso lo è davvero?

Così come sembrava poco credibile che nessuno si rendesse conto dello stato confusionale di Biden (fino allo strategicamente preparatissimo cambio in corsa post-dibattito), sembra infatti poco probabile che nessuno noti l’insufficienza politica di Trump, che ha perso anche quel poco di appeal e originalità della sua prima candidatura.

Ma, se pure non riusciremo mai a scoprire quanto sia sincero (ad esempio) l’appoggio di Elon Musk a Trump e quali siano i veri interessi dietro l’endorsment, le ipotesi in campo sono evidenti ed in ogni caso sconfortanti.

Se Trump – consapevolmente o meno – sia stato messo lì per essere massacrato mediaticamente e perdere, proprio come in un incontro truccato in cui è stato già deciso il vincitore di comune accordo, gli Usa ne uscirebbero come una oligarchia mediaticamente manovrata.
Ma se invece Trump sia riuscito ad imporsi sui media e sull’establishment (cosa che vedo poco probabile) soltanto grazie alla forza della volontà popolare e l’appoggio sincero del capitalismo conservatore, davvero la democrazia statunitense ne uscirebbe meglio?
Considerando quanto abbiamo visto, direi proprio che, nel migliore dei casi, gli Usa dimostrerebbero unicamente di essere una democrazia disfunzionale, ormai incapace di selezionare i migliori ed in cui lo sforzo di creare un’unica alternativa al globalismo (imperialista) democratico ha prodotto una destra più reazionaria che mai.

A livello elettorale e politico, infatti, la campagna elettorale di Trump conferma una tendenza che interessa anche l’Europa e il Sud America, ovvero il blocco occidentale nella sua interpretazione più ampia.
Questa tendenza è l’inequivocabile (quanto prevedibile) involuzione della destra “sovranista”, che ha presto abbandonato il ruolo di promotore di istanze sociali abbandonate dalla sinistra, riportando la destra a posizioni più conservatrici che mai.
Da Milei fino ad Abascal e Orban, tutti gli amici della Meloni (prontamente divenuta non a caso tatcheriana) sbavano ormai quotidianamente contro il socialismo, neanche ci fosse ancora l’Unione Sovietica alle porte ed i comunisti contassero ancora qualcosa.

Ci troviamo quindi in una fase politica quanto mai allarmante: scoperti a sinistra, del tutto sprovvisti di una alternativa sociale e liberale e, a quanto pare, anche di una democrazia credibile.

Emmanuel Raffaele Maraziti

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