Joker, l’incompreso (dalla critica)

Il film “Joker: Folie à Deux” sta registrando record negativi di incassi e perdite milionarie e per questo il regista Todd Philips – che pare abbia voluto fare tutto di testa sua – è nel punto di mira della critica e della Warner.

Le accuse e le ipotesi si riassumono in un pensiero ricorrente: “Ha tradito Joker“.

A proposito di questo, su “Xataca” trovo una osservazione interessante:

“Nel suo discorso finale del sequel”, prosegue John Tones, “Joaquin Phoenix esclama che il Joker non esiste, che vuole solo essere Arthur Fleck, il che genera un abbandono massivo da parte dei suoi fans nella finzione, che lo abbandonano alla sua sorte nel giudizio. Un abbandono che ha avuto un indiscutibile parallelismo nella vita reale, laddove i fans non si sono sentiti identificati con il messaggio del film e lo hanno abbandonato ai botteghini”.

“Il direttore e sceneggiatore di Joker 2 non voleva un film di supereroi e Warner gli ha dato carta bianca: non è stata una buona idea”, titola il post.

Xataca a parte, il resoconto è una riproduzione abbastanza fedele delle critiche che circolano in rete.
E che, innanzitutto, mi spingono a chiedermi: se un libro non si giudica dalla copertina, è possibile giudicare un film solo dagli incassi?

JOKER NON SI PUO’ GIUDICARE GUARDANDO AGLI INCASSI

Ci sono migliaia di film indipendenti di qualità notevolmente maggiore rispetto a tanti film commerciali (contro i quali non ho assolutamente nulla, anzi).
Quindi, il fatto che il sequel di Joker sia tutt’altro che un film di supereroi e che questa scelta non sia stata una buona idea è un’affermazione tutta da dimostrare dal punto di vista qualitativo.

La seconda riflessione obbligatoria nasce spontanea dall’azzeccato parallelismo dell’abbandono.
In effetti, il sequel di Joker non è piaciuto perché non è quello che ci si aspettava.
Ma questo, più che parlarci male del film, ci dice che Todd Philips è un genio.
Senza volerlo, ha infatti dimostrato che il messaggio del film è azzeccatissimo (e che troppi non avevano capito nulla del suo primo Joker).

Perché se lo avessero capito, non avrebbero gridando al tradimento e non si sarebbero sorpresi affatto per la trama.

UN JOKER IN LINEA CON QUELLO DEL 2019: NICHILISTA, SENZA EROI E SENZA RIVALSA

In effetti, in una “recensione” del film [“Joker”, capolavoro allucinato che ci trascina nell’abisso], avevo definito il Joker del 2019 “nichilista, senza eroi e senza rivalsa”.

Già si capiva che la volontà di Philips non era quella di creare un anti-eroe o addirittura un rivoluzionario [sull’esempio di “V per Vendetta” o “La Casa di Carta”].
E che l’idillio tra il Joker e la folla era illusorio.
Il regista dimostrava perfettamente di non voler approfittare la costruzione di una prospettiva anti-elitaria nella trama per percorrere la via facile del successo basato sulla retorica della rabbia sociale.
Anzi, il passaggio dalla rabbia alla follia da parte del Joker lasciava intendere che il regista puntava ad approfondire la dimensione esistenziale, certamente più tragica, reale ed interessante di quella commercialmente più conveniente.

Ed è questo che in effetti fa nel sequel: dopo essersi soffermato sulla dimensione tragica del sorriso di Joker, su una realtà spietata coi deboli e dai quali esige comunque il sorriso e l’accettazione, nel secondo Joker fa luce alla perfezione sulle dinamiche sociali del conformismo.
E quindi, appunto, sul falso seguito delle folle.

DAL SORRISO TRAGICO ALLA PRIGIONIA DELLA MASCHERA

Tutti stanno con il Joker, ma nessuno sta davvero con il Joker.
Vogliono solo la maschera, la loro proiezione di Arthur Fleck, la loro idealizzazione della sua lotta, la loro sceneggiatura del suo pensiero.

Pur proclamandosi suoi fans, a nessuno importa la tragedia e il dolore personale che sta vivendo. Ne strumentalizzano la rabbia, ne fanno un eroe suo malgrado e lo preferiscono martire piuttosto che reale.
Hanno bisogno di un idolo e hanno bisogno di vedere nel Joker anche quello che non c’è.

Mentre Arthur Fleck è un uomo in cui vive una profonda relazione tra la sua giusta rabbia, la debolezza e la follia. Una parte di lui sa che la sua rabbia è sacrosanta, perfino socialmente comprensibile.
Un’altra sa anche che probabilmente non c’è scampo, che neanche nella rabbia c’è la salvezza, perciò la follia diventa il suo rifugio. Un’ultima parte, infine, vorrebbe solo che essere capita e lasciata in pace, libera di innamorarsi, di essere amata e di essere solo Arthur.

Ecco perché solo rinunciando al ruolo dell’anti-eroe, Arthur Fleck si libera di una sceneggiatura che altri volevano scrivere per lui. A prescindere da lui. E si riappropria di una identità semplificata dalla maschera. Su un filo psicologicamente sottolissimo che Philips racconta con una grande profondità psicologica.

Ora, si potrebbe anche rimproverare al regista la scelta del formato musicale (forse fin troppo invasivo), ma sarebbe davvero ingeneroso considerata la recitazione spettacolare di Phoenix, il capolavoro meta-cinematografico della trama e del suo significato, la brutale suggestione delle riprese carcerarie.
Senza contare che il regista inserisce magistralmente le parti musicali all’interno della sceneggiatura, tanto da essere funzionali alla rappresentazione della realtà onirica della mente del Joker.

In conclusione, gli scarsi risultati ai botteghini rispondono a una ragione molto semplice: per essere un film commerciale, il Joker 2 non segue le logiche di un film commerciale.
E’ intimista, concettuale e tragico.
La grande esposizione mediatica, unita a questi fattori, hanno contribuito ad un grande fraintendimento critico, che ha svuotato le sale.

Emmanuel Raffaele Maraziti

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