
Sono contento che la cultura “woke” abbia perso le elezioni?
Assolutamente si!
Sono contento che un’amministrazione guerrafondaia abbia perso le elezioni?
Certamente si!
Sono felice dell’elezione di Trump?
Non esattamente.
In primo luogo perché è evidente che il presidente neoeletto, non è certo un campione di cultura e contenuti.
E’ stato reso evidente dai discorsi tenuti nei vari rally, ma anche dall’unico dibattito elettorale: livello di argomentazioni elementare, slogan ripetitivi e tanta disinformazione.
Poi, certo, è un tipo pratico, politicamente scorretto, ma davvero basta così poco per essere considerato un grande uomo politico?
E per rivestire una delle cariche più importanti al mondo?
Discutendo con un conoscente, mi sono sentito rispondere:
“Donald Trump è solo un portavoce, ha uno staff dietro e parla un linguaggio che tutti possono capire“.
Ma, dietro questa frase, si nascondono due grossi rischi per la democrazia: il rischio di abbassare il livello (del dialogo, della politica, della società) e il rischio di eleggere burattini o farsanti, anziché politici.
E proprio questo che differenzia una democrazia sana da una democrazia a rischio.
Un uomo politico, una guida, un vero leader appunto, non si adegua (ammesso e non concesso che sia il caso di Trump) ma alza il livello del dibattito.
Il suo compito è trascinare verso l’alto chi lo ascolta, offrirgli qualcosa di più di quello che già sa: spiegare, mediare, proporre una visione del mondo e mostrare il cammino per realizzarla.
Parlare per slogan, non significa solo semplificare la forma, ma anche i contenuti.
La realtà è incredibilmente complessa, ricca di sfumature e prospettive differenti da considerare.
Riducendo tutto ai minimi termini e trascurando tanti dettagli, spesso, è impossibile raccontare come stanno davvero le cose.
Gli slogan, quasi sempre, falsificano la verità e questo tende ad estremizzare le posizioni e allontanare il dialogo.
Non fraintendiamo: anche un vaffanculo, se argomentato, a volte è necessario.
Ma non può passare il messaggio che le argomentazioni non servano a niente.
E’ questo che alimenta il peggior populismo.
Peraltro, anche a causa del suo background, uno dei messaggi che riceviamo dall’elezione di Trump è la vittoria dell’uomo “pratico” di destra (e coi soldi) sull’equivalenza cultura = sinistra = woke.
Sarebbe però auspicabile, per la destra stessa, che l’obiettivo sia scardinare entrambe queste equivalenze, piuttosto che alimentarle.
Mettere a nudo la vacuità della moda woke, anziché rifugiarsi nell’elogio dell’ignoranza. E, allo stesso tempo, non far passare l’idea che il merito si riduca a saper far soldi, a prescindere dal come e dal valore umano di una persona.
RAPPRESENTANTI DI CHI?
Quanto all’altro rischio a cui accennavo, quello di trovarci al potere burattini o farsanti, davvero bisogna aggiungere altro?
Si, in democrazia, il politico è un rappresentante. Ma una cosa è essere un rappresentante (del popolo) – compito già difficile da portare avanti con la necessaria obiettività e neutralità -, un’altra è essere manovrabile e manovrato. E, se chi manovra è un gruppo di potere o di interesse specifico con la forza di piazzare il politico sulla poltrona, questo politico ha già perso la sua indipendenza – già carente se il politico non lo è culturalmente.
Se ci arrendiamo alla idea che un politico possa limitarsi ad essere solo il volto di una campagna elettorale, con uno staff che pensa al posto suo ed una lobby che lo sceglie quasi fosse un interprete o un attore ben retribuito, vuol dire che accettiamo definitivamente il fatto che chi ci governa davvero non è chi viene votato. Si tratta di una incredibile e pericolosissima deresponsabilizzazione della politica.
La democrazia non è uno spot pubblicitario.
Emmanuel Raffaele Maraziti
Una risposta a "Trump, leader o istrione?"