Soldi, migranti e politica estera: analisi dei punti forti di Trump

A causa della retorica democratica, Trump è sembrato più interessato e vicino ai problemi reali. Per il semplice fatto di non avere peli sulla lingua. Se, come abbiamo visto, l’estrema semplificazione dei concetti è pericolosa, dire le cose come stanno, senza girarci intorno e senza falso perbenisimo, lo ha comprensibilmente premiato.

STOP ALL’IMMIGRAZIONE IRREGOLARE

Sul tema dell’immigrazione irregolare, il neo presidente è stato a dir poco politicamente scorretto, fino ad usare frasi criticabilissime, ma ha senz’altro toccato aspetti reali del problema.
Aspetti che i democratici, per salvaguardare una narrativa utopica, evitano di evidenziare.
Per questo il popolo americano, anche se in pubblico è costretto dalla cultura woke ad auto-censurarsi, nell’urna ha scelto chi ha affrontato il problema di petto.

Questo elemento ha fatto molto probabilmente la differenza tra i due candidati: in tanti ormai non digeriscono più la retorica democratica e la loro assoluta distanza dalla realtà.

LA CARTA VINCENTE: UNA POLITICA ESTERA MENO INTERVENTISTA

Per la stessa ragione, la politica estera di Trump è stato forse uno dei maggiori punti di forza.

Le parole del consigliere di Trump, Bryan Lanza, pubblicate pochi giorni fa dai giornali, chiariscono il perché.
“La nuova amministrazione Usa”, riassume Il Fatto Quotidiano, “si concentrerà sul raggiungimento della pace in Ucraina, invece di focalizzarsi sul ripristino dell’unità territoriale del Paese”. “Lanza ha anche detto”, spiega ancora la redazione del Fatto, “che Trump si aspetta da Volodymyr Zelensky ‘una visione realistica della pace, e se venisse al tavolo a dire che la pace ci sarebbe solo con la Crimea ci mostrerebbe di non essere serio’, perché, appunto è ormai ‘andata’. La riconquista della penisola, ha sottolineato il consigliere che lavora con Trump dal 2016, è un obiettivo irrealistico e soprattutto ‘non è un obiettivo degli Stati Uniti’. ‘Se questa è la sua priorità, riavere la Crimea e far combattere i soldati americani per riavere la Crimea, se la sbrighi da solo’, ha ammonito Lanza”.

A parte le burocrazie europee e americane, la maggior parte delle persone da entrambi i lati dell’oceano, anche chi non vede Putin di buon occhio, non vuole una escalation, è convinta che gli Usa abbia le loro responsabilità nelle cause della guerra e poca intenzione di farla smettere, non crede nell’innocenza dell’Ucraina di Zelensky e non crede abbia senso continuare a difendere territori russofoni dell’Ucraina a colpi di miliardi su miliardi finora rivelatisi inutili.

Soprattutto, non crede nell’assurda macchina di propaganda costruita sulla questione Ucraina in nome della grandeur atlantica. L’ultimo esempio? Solo qualche mese fa hanno provato a farci credere che le truppe ucraine stessero quasi per arrivare a Mosca, solo per avere attaccato un fronte scoperto sul confine russo, lasciando scoperto quello sul confine sud.

Gli Stati Uniti hanno già stanziato per la guerra in Ucraina tra i sessanta e gli ottanta miliardi di dollari.
L’Europa nel complesso quasi 120 miliardi di euro (l’equivalente di un bilancio annuale comune), con Germania e Francia in prima linea e un grosso contributo relativo da parte dei Paesi baltici. Uno sforzo bellico enorme, iniziato anche con la formazione dell’esercito ucraino per prepararlo alla guerra per procura, che si è però rivelato inutile.

Le parole del consigliere di Trump sono solo una ovvietà ampiamente condivisa che però i democratici non hanno voluto raccontare, alimentando anzi una clima di censura e ostracismo nei confronti dei pacifisti.

Se Trump ha colpito positivamente per qualcosa, è proprio per il fatto di non aver portato avanti guerre durante il suo mandato. Le persone non lo hanno dimenticato.

LA COMPLICITA’ DI BIDEN- HARRIS NELLA QUESTIONE ISRAELIANA

Sul fronte israeliano-palestinese, la retorica democratica non è evidentemente bastata a bilanciare il totale sostegno e l’invio di miliardi su miliardi di aiuti a Israele senza condizioni. Una vera e propria complicità nel genocidio ai danni dei palestinesi – è sempre di pochi giorni fa il dato secondo cui il 70% degli oltre 40mila morti nella Striscia di Gaza sono stati donne e bambini – che ha passato fattura dal punto di vista elettorale. L’odio che il governo israeliano ha attirato su di sé è in effetti qualcosa che non ha eguali nella storia recente.

Tutto questo ha sicuramente penalizzato l’amministrazione Biden, di cui la Harris fa parte e dalla quale non si è e non poteva ovviamente distanziarsi.
Non ci sono garanzie sul fatto che Trump, in questo caso, faccia meglio. Al contrario, le sue posizioni e i personaggi di cui si sta circondando, suggeriscono una forte vicinanza ad Israele. Ma è probabile che tanti elettori non se la siano sentita di votare Harris dopo l’eco mediatico che sta avendo il “conflitto” in Palestina e che abbiano scelto il meno peggio – considerando forse cinicamente che una delle due battaglie sembra ormai persa, mentre l’altra può ancora costarci una guerra mondiale.

L’impressione, peraltro, è che il blocco di potere che Trump rappresenta sia probabilmente capace di una maggiore autonomia in politica estera, rispetto alle scelte teleguidate dei democratici, spesso contrari anche agli interessi americani.
Su una cosa infatti non c’è dubbio: l’appoggio incondizionato a Israele sta senza dubbio costando caro e sta danneggiando la reputazione americana.

IN ECONOMIA NIENTE DI NUOVO PER I REPUBBLICANI: MENO TASSE E MENO STATO SOCIALE

Quanto all’economia, il tema dell’inflazione si è aggiunto all’America First della prima candidatura. Senza modificarne l’impostazione di base.
Da questo punto di vista – è bene ribadirlo – il protezionismo di Trump non risponde certo ad una logica anti-liberista, ma alle esigenze del capitalismo nazionalconservatore.
Un capitalismo che si è reso conto di non poter trarre sempre vantaggio dalla logica liberista quando la concorrenza cinese (e non solo) è ormai fortissima.

E’ ovvio che queste esigenze si incontrano in parte con quelle dei lavoratori, che hanno tutto l’interesse nel voler riportare la produzione negli Usa e limitare l’ingresso di merci a basso costo per proteggere i prodotti americani.
Ma è importante non confondere gli interessi coincidenti con quelli comuni.

In questo senso, Trump è abbastanza continuo rispetto alla linea repubblicana: meno tasse e meno Stato sociale.
In un Paese in cui chiedere la sanità pubblica può costarti l’accusa di comunismo (parola di The Donald), la sua elezione non è certo una buona notizia in tal senso.

L’INFLUENZA SULLA DESTRA OCCIDENTALE

La vittoria di Trump rappresenta una sconfitta per lo Stato sociale, già debolissimo negli Usa.
Ma ciò che più preoccupa è come il trumpismo sembra abbia indirettamente dato inizio alla definitiva trasformazione della destra europea in una destra di tipo conservatrice di stampo anglosassone.

Culturalmente, infatti, sembra ormai chiaro che, ciò che lega i pur diversi Trump, l’argentino Milei, lo spagnolo Abascal e l’italiana Meloni – che ha fatto presto a mettersi alle spalle la destra sociale – è solo un profondo anti-socialismo, tradotto nel culto dell’imprenditore e nella demonizzazione dello Stato sociale.

Questa destra, di cui fa pienamente parte la Lega, non si è accorta che l’Europa è il continente con il migliore equilibrio tra ricchezza prodotto, equità e sicurezza proprio grazie al radicamento dello Stato sociale. E, proclamando i vecchi slogan della destra neocon, dimostra di non essersi resa conto che lo Stato Sociale è una conquista distintiva della civiltà europea.

Emmanuel Raffaele Maraziti

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