Trump: dal patriottismo populista al nazional-imperialismo

Subito dopo l’insediamento di Donald Trump, poco prima di fare il saluto nazista, Elon Musk ha celebrato la vittoria dicendo: “questa non è stata una vittoria qualsiasi, è stato un momento cruciale per la civilizzazione umana“. Poche ore prima, in effetti, il neo-presidente aveva pronunciato un discorso inaugurale ben diverso da quello di otto anni fa.

Un discorso che, parafrasando le parole di Musk, ha provato a collocare la nuova presidenza nel solco della storia americana e non una fase storica a caso, ma quella dell’espansione territoriale, della costruzione del mito americano e del capitalismo senza regole.

“Oggi il mio messaggio agli americani”, ha affermato Trump, “è che è tornato il tempo di agire con il coraggio, il vigore e la vitalità della più grande civilizzazione della storia“.
Subito dopo ha fatto riferimento ad un altro concetto importante, quello del “destino manifesto” degli Usa. E’ stato solo uno dei numerosi riferimenti al mito fondante dell’espansione e della conquista, usato storicamente per appropriarsi dell’ovest e dei territori messicani e poi ripreso implicitamente nella missione di cui gli americani si sono sempre sentiti investiti, quella di ‘esportare democrazia‘.

“Gli Stati Uniti”, ha aggiunto infatti, “torneranno a considerarsi come una nazione in crescita, una nazione che incrementa la sua ricchezza, espande il suo territorio, costruisce città, aumenta le proprie aspettative e porta la sua bandiera verso nuovi e bellissimi orizzonti. E inseguiremo il nostro destino manifesto fino alle stelle, lanciando gli astronauti americani a piantare la bandiera a stelle e strisce sul pianeta Marte”.

Dopo il riferimento esplicito all’annessione del Canada e della Groenlandia nelle settimane precedenti all’insediamento, Trump ripropone anche nel suo discorso programmatico la questione dell’espansione territoriale. Sul suo social Truth, aveva addirittura pubblicato una mappa con il Canada a stelle e strisce.
Ma lo sdoganamento dell’imperialismo più esplicito, che non ha più neanche il pudore di inventare una scusa plausibile per appropriarsi di un Paese sovrano e spinge il mondo verso un ritorno al passato colonialista, non sembra scandalizzare troppo.
Trump ha addirittura minacciato Panama ancora più chiaramente: “abbiamo dato il canale a Panama, non alla Cina e ora ce lo riprenderemo” (non sarebbe la prima invasione di Panama – l’ultima, nel 1989).

Del resto, nessuno si è scandalizzato per il saluto nazi del nuovo padrone del mondo, Elon Musk, ormai talmente a destra da aver condiviso la definizione di “Hitler comunista“.
Anzi, tutti si sono impegnati a spiegare che no, non era un saluto nazi, che Musk è un po’ autistico, esprime le emozioni in modo strano, usa anfetamine e droghe varie (si, è stata usata come spiegazione plausibile anche questa).
Addirittura, lo spietato Travaglio (uno che generalmente apprezzo) ha detto che, per capire il suo gesto, “bisognerebbe entrare nella sua testa”, giustificandolo con fare scherzoso – “forse era fatto come una zucchina” – e concludendo che, dopo tutto, l’episodio non è così rilevante. Su altri giornali ho addirittura letto la definizione di “saluto energico“, oltre alla giustificazione più accreditata: “ha detto ‘il mio cuore va a tutti voi’, stava solo facendo il gesto di lanciare il cuore al pubblico”.

Ora, non mi preoccupa il saluto romano in sé, così come trovo ridicola la caccia alle streghe ogni volta che ad una commemorazione spunta fuori un saluto romano.
Mi inquieta, invece, se il saluto Nazi lo fa Musk, così come lo strano ed improvviso giustificazionismo generalizzato, l’improvvisa cecità di chi non vuole vedere perché non vuol parlar male del padrone.
Mi spaventa la spudoratezza arrogante con cui Musk può permettersi di fare un saluto nazista ed essere, al tempo stesso, sponsor principale e parte della nuova amministrazione americana.
Perché non sarebbe mai potuto accadere finora, sarebbe stato impensabile e per questo è tutto questo è molto strano.
Tanto strano che, proprio se fossi un nazi, teoricamente anti-capitalista, non mi fiderei per niente di quello che succede.

Perché questa complicità/omertà diffusa mi spinge a pensare a grossi cambiamenti “dietro le quinte” e, di conseguenza, in serbo per il futuro.

Nel 2017, Trump appena eletto veniva contestato duramente, la sua elezione destava scandalo e nei confronti dei suoi sponsor c’era un’aria di semi-boicottaggio.
Eppure non si era mai azzardato a pronunciare frasi come quelle pronunciate ultimamente.
Oggi, invece, i miliardari fanno la coda per finanziare la sua cerimonia di inaugurazione [raccolta che ha fatto registrare il record da sempre, triplicando i fondi di Biden].

Zuckerberg, finora paladino del politicamente corretto, tira fuori il “machismo d’ordinanza” e reclama più “mascolinità”, cancella in tempi record i controlli sulle piattaforme Meta e denuncia la censura democratica.
Gli stessi Musk e Bezos, prima lontani da Trump, oggi sono in prima fila alla sua corte: tutti baciano l’anello del potere. Cosa è cambiato?

Certo, nel 2017 Trump perse nel voto popolare, mentre questa volta ha vinto (vincendo anche Stati chiave), ma non è questo: è proprio uno switch “strutturale” quello a cui stiamo assistendo.
Tutti si allineano al diktat reazionario e, come in tempo di covid, tutti sembrano improvvisamente distratti.
Oggi come allora, c’è aria di regime e poco importa se, all’epoca, sembrava si trattasse di progressismo e oggi conservatorismo: in fondo quello che mostrò il covid fu la scarsissima rete di protezione e capacità di resistenza dello spirito democratico e liberale.
I media mainstream avevano dimostrato il conformismo più totale nei confronti del potere, proprio come oggi, qualunque esso sia e qualsiasi cosa comandi.

L’elemento comune sono quindi gli oligarchi: in entrambi i casi, al centro del gioco ci sono loro, ecco cosa è cambiato: ora stanno con Trump.
E stavolta hanno puntato tutto su di lui, che ha evidentemente promesso alle big tech un ruolo da protagoniste, considerandole evidentemente – giustamente – l’investimento più lungimirante per affrontare le sfide economiche del futuro prossimo.
Stiamo parlando di intelligenza artificiale e biotecnologie, sul cui sviluppo si centra l’economia del futuro, nonché tutti i potenziali problemi sociali che dovremo affrontare.
E, su questo aspetto, i ceo vogliono campo libero e pochi ostacoli.

I toni apocalittici di Trump, echeggiati da Musk, rivelano quindi cosa c’è in palio e sono evidenti in moltissime frasi del suo discorso di insediamento:

“L’età dell’oro dell’America inizia proprio adesso”; “La luce del sole oggi illumina il mondo intero e l’America ha la possibilità di cogliere questa opportunità come mai prima”; ; “Saremo l’invidia di ogni nazione. E non permetteremo più a nessuno di approfittarsi di noi”; “Reclameremo la nostra sovranità. Restaureremo la nostra sicurezza. Torneremo a equilibrare la bilancia della giustizia”; “Da questo momento il declino è finito”; “Non dimenticheremo il nostro Paese. Non dimenticheremo la nostra Costituzione. E non dimenticheremo il nostro Dio”.

Al contrario del 2017, è un discorso sfacciatamente reazionario, con punte di fanatismo altissimo, che ricordano le allusioni fasciste all’uomo della Provvidenza: “L’ho avvertito allora e l’ho credo ancora di più ora: la mia vita”, ha detto Trump, “è stata salvata per una ragione: sono stato salvato da Dio per rendere l’America di nuovo grande“.

La stessa età dell’oro citata da Trump, fa del resto riferimento a un periodo storico concreto, che va dal 1870 al 1900 circa, in cui gli Usa conobbero un grande sviluppo economico, ma anche l’inizio delle grandi accumulazioni capitalistiche, della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e delle grandi disparità. Il periodo di Rockfeller e dei “baroni ladri”, dello sfruttamento dei lavoratori e delle risorse, dell’inquinamento e della povertà popolare.

Del resto, Trump si è anche speso in una promessa fortemente simbolica: restituire al monte Denali il nome di monte McKinley, in onore del presidente William McKinley, al potere proprio in questa epoca e, naturalmente, repubblicano – il nome con cui Obama aveva ribattezzato la montagna era invece di origine indigena.

“Non esiste una nazione come la nostra. Gli americani sono esploratori, costruttori, innovatori, imprenditori e pionieri. Lo spirito della frontiera è scritto nei nostri cuori“, ha ricordato Trump, “e la chiamata della prossima grande avventura risuona nelle nostre anime. I nostri antenati hanno trasformato un piccolo gruppo di colonie ai margini di un vasto continente in una potente repubblica dei cittadini più straordinari della Terra. Nessuno ci si avvicina”.

Anche questa frase ci spiega perché non è un caso che, mentre Trump ha incluso nell’identità americana ispanici e afro-americani, non ha invece fatto lo stesso con i nativi americani, che non sono stati infatti nominati nel suo discorso.

Trump ha infatti rivendicato quelle battaglie e quell’espansionismo.
E, dopo aver lanciato una serie di proclami tutti tesi al futuro e all’esaltazione delle vittorie passate e future degli Usa, ha concluso: “Siamo un solo popolo, una sola famiglia e una sola gloriosa nazione sotto Dio“.

Nel 2017?
Nel suo primo discorso inaugurale Trump era certamente agguerrito, forse più di oggi, ma senza dubbio più populista che nazional-imperialista.
Non stava lì a rivendicare la missione civilizzatrice degli Usa nel mondo, tutt’altro: era piuttosto isolazionista. Rivendicava la forza americana, ma non sfociava nel fanatismo, anzi, era quasi un atteggiamento sulla difensiva.

Non solo: al centro del suo discorso c’erano il popolo, la classe media, il lavoro, contro le elite. E ancora, le difficoltà, le sofferenze, i dimenticati, la solidarietà. Era, insomma, un discorso con delle sfumature molto differenti, anti establishment.

Oggi”, ruggiva otto anni fa, “non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un’amministrazione all’altra, o da un partito all’altro, ma stiamo trasferendo il potere da Washington, D.C. e lo stiamo restituendo a voi, il popolo americano. Per troppo tempo, un piccolo gruppo nella capitale della nostra nazione ha raccolto i frutti del governo mentre il popolo ne ha sopportato i costi. Washington è prosperata, ma il popolo non ha condiviso la sua ricchezza. I politici hanno prosperato, ma i posti di lavoro sono andati via e le fabbriche hanno chiuso. L’establishment ha protetto se stesso, ma non i cittadini del nostro paese”.

Oggi, invece, Trump è spalleggiato proprio dall’establishment ed il suo approccio è cambiato.

Oggi parla di vittorie della nazione, all’epoca diceva: “le loro vittorie (quelle dell’establishment) non sono state le vostre vittorie […] e mentre celebravano nella nostra capitale, c’era poco da celebrare per le famiglie in difficoltà in tutto il Paese”.

Oggi Trump si presenta come “salvato da Dio per fare grande l’America”, ieri rivendicava la vittoria per il popolo: “questo momento è il vostro momento: vi appartiene. Appartiene a tutti coloro che si sono riuniti qui oggi e a tutti coloro che guardano in tutta l’America. Questo è il vostro giorno. Questa è la vostra celebrazione. E gli Stati Uniti d’America sono il vostro paese. Ciò che conta davvero non è quale partito controlla il nostro governo, ma se il nostro governo è controllato dal popolo”.

Detto questo, certo, la lotta all’immigrazione clandestina con cui ha incalzato Trump è sacrosanta (seppur le modalità lasciano trasparire poca rispetto dei diritti umani – mi riferisco alle foto dei migranti rimpatriati in catene), così come è sacrosanto lo stop alla cultura woke e l’insopportabile cappa costituita dal politicamente corretto. Musk ha senza dubbio ragione quando afferma davanti alla platea dell’Afd che non vogliamo un mondo dove tutti i posti sono uguali e senza identità.

Ma chi conosce la storia sa benissimo che troppo spesso, sia in senso rivoluzionario che reazionario, la politica tende a risolvere i problemi portandoli all’estremo opposto. Ecco perché, in questo momento in cui la cultura woke e il progressismo globalista sembrano sconfitti, penso sia il caso di lanciare un appello all’equilibrio.
Superare la censura distopica, riaffermando anche l’esistenza dei soli due sessi biologici in cui è divisa la specie umana, non deve voler dire ritornare alle discriminazioni del passato (la questione trans fuori dall’esercito potrebbe rientrare in questo caso) e al moralismo sessuale-religioso.
L’orgoglio identitario non deve riportare al fanatismo nazionalista.
Tanto meno l’opposizione al globalismo può essere rappresentata da un ritorno di fiamma imperialista o neocolonialista – sovranità è tutt’altra cosa.

Il pericolo in momenti come questi è sempre quello di una deriva autoritaria, dovuta non tanto alle istituzioni fragili quanto al contesto culturale e alla totale mancanza di consapevolezza storica – proprio ieri leggevo che una maggioranza Gen Z nel Regno Unito vede di buon occhio una dittatura.

Per finire, sovrastruttura a parte, ritengo centrale rendersi conto che sono i miliardi che hanno fatto cambiare la musica e non il contrario. Ed il problema nasce sempre dalla concentrazione di soldi e potere in poche mani. Mani che vogliono tenersi stretti i frutti dei progressi tecnologici dei prossimi anni. Sottraendoli ai popoli, insieme al potere che ne deriva.

E’ in questo momento che la coscienza democratica e liberale serve più che mai.

Emmanuel Raffaele Maraziti

RIFERIMENTI UTILI:

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.