“Qui sei completamente solo, senza famiglia, senza niente. E così finisci in strada“. La questione dell’immigrazione di massa sta forse tutta qui, nelle parole di un giovane senegalese in occhiali da sole e felpa, richiedente asilo ed attualmente ospite del “Cara” di Mineo, tristemente famoso centro d’accoglienza siciliano in provincia di Catania. Ogni giorno, dopo l’apertura dei cancelli alle otto di mattina, pedala per due o tre ore, raccoglie arance per qualche padrone pagato intorno ai dieci euro e poi rientra al “Residence degli Aranci”. Gli immigrati ci pagano le pensioni, dicono gli esperti. E visto che son così bravi, ecco che arriva anche il protocollo d’intesa tra il Ministro dell’Interno Alfano e Confindustria per i tirocini d’inserimento lavorativo riservati ai rifugiati: in un paese con la disoccupazione giovanile alle stelle, qualcosa sicuramente non quadra. Ma questo qualcosa, a volte, non ha a che fare soltanto con la cattiva politica ma anche con lo sfruttamento, altro aspetto della questione immigrazione che difficilmente può ancora essere nascosta. Ieri, ad esempio, “Internazionale” pubblicava il quarto di una serie di reportage dedicati al fenomeno migratorio dal titolo paradigmatico: “Gli schiavi di Mineo”, un servizio curato da Paolo Martino e Mario Poeta nel quadro dell’inchiesta “Welcome to Italy” coordinato da Stefano Liberti. Tra gli intervistati il ragazzo di cui sopra, perfettamente cosciente della situazione: “mi dicono che i bianchi guadagnano 40/50 euro al giorno”, spiega prima di lanciarsi in un rap che si chiude così: “Dio è grande, un giorno mi vedrete in alto”. Dio è grande e la voglia di rivalsa delle masse di migranti è tanta, lo scontro sociale è dietro l’angolo ed esplode qua e là, mostrandosi a viso aperto, ad esempio, in quel di Rosarno. I responsabili diretti forse non stanno sulle poltrone, ma le loro politiche buoniste ed inefficienti, probabilmente, permettono la persistenza di queste situazioni. “Più rimangono, più si mantengono certi equilibri”, spiega Rocco Anzaldi di Flai/Cgil, facendo capire che il centro fa comodo a molte aziende, fa comodo a chi sfrutta ed i tempi burocratici assolutamente fuori da ogni normativa aiutano il proliferare del lavoro nero, grigio o schiavistico. Gli ospiti della struttura sono circa quattromila e “circa in mille ogni mattina”, spiega Anzaldi, “vanno nei campi e, nonostante un mese fa ci siano state sanzioni, il fenomeno continua”. “Qui non si tratta di lavoro nero, ma di schiavi”, conclude. Nelle strutture temporanee, i richiedenti asilo non dovrebbero stare più di trentadue giorni, in realtà ci stanno per mesi ed è impossibile allo stato attuale fare diversamente: i tempi sono lunghi, troppo lunghi, ed a volte gli immigrati rimangono per anche per cinque mesi senza mai aver modo di incontrare la commissione e portare avanti la richiesta. Quando poi ricevono l’esito, se è negativo, devono pagare un avvocato e aspettare altrettanto. Nel frattempo, trascorsi sei mesi, dovrebbero ricevere un permesso temporaneo che gli permette di lavorare. Ormai i tempi si sono allungati, a volte si aspettano anche due anni e la commissione più vicina è a Siracusa. La legge, praticamente, è una farsa. La burocrazia è la realtà. E la realtà è lenta, farraginosa, complice dell’illegalità. In ogni caso, chi lavora nei campi non ha bisogno di permesso. Anzi. Serve manodopera a basso costo per una filiera a dir poco in difficoltà nella quale i produttori, da una parte sono l’ultimo anello di una catena che li spreme imponendogli prezzi bassissimi, dall’altra si trasformano spesso in padroni che sottopagano i lavoratori, stranieri soprattutto ma anche gli italiani che non hanno altra scelta.
“I prezzi sono scesi al loro minimo storico”, spiega il secondo rapporto “#FilieraSporca” realizzato dalle associazioni “daSud”, “Terra” e “terrelibere.org”, “arrivando a toccare il minimo di 16/20 centesimi al chilo per il prodotto “fresco” e di 5/7 centesimi al chilo per il prodotto destinato alla trasformazione”. La filiera, che rifornisce anche multinazionali e grandi aziende italiane, è estremamente frammentata verso il basso, la produzione è basata su piccole aziende spesso a conduzione familiare, impossibile una vera tracciabilità. “Se volessimo controllare i fornitori della Ortogel, per evitare assolutamente il rischio da voi paventato, dovremmo visitare 11.571 aziende agricole nei 100 giorni lavorativi di una campagna agrumaria. Sono 115 aziende agricole al giorno”, spiegano dall’azienda. Esselunga, invece, ha dichiarato di lavorare con aziende che sottoscrivono un preciso codice etico, ma non ha voluto farne i nomi. Per la realizzazione del rapporto, a ben dieci grandi attori del settore sono state chieste informazioni su fornitori e subfornitori. Si tratta di Coop, Conad, Carrefour, Auchan – Sma, Crai, Esselunga, Pam Panorama, Sisa Spa, Despar, Gruppo Vegè e Lidl. “Le risposte sono pervenute solo da quattro di loro: Coop, Pam Panorama, Auchan – Sma e Esselunga”, chiarisce il rapporto, che evidenzia quanto arduo sia, soprattutto, spesso anche per le aziende, risalire ai subfornitori, piccoli e piccolissimi produttori a cui facevano riferimento poc’anzi. La manodopera a basso costo è la risposta ad una filiera che non funziona. “Il fenomeno del lavoro schiavile nei campi italiani è da anni irrisolto. Il motivo è semplice. Si tratta di qualcosa di funzionale al sistema produttivo”. Funzionale, certo, ma direttamente connesso con la concorrenza di paesi in cui il costo di produzione scende vertiginosamente, così che aumentano paurosamente, come sottolinea il rapporto, le importazioni da Egitto, Marocco, Spagna e dal Brasile per il succo. Lì sta la causa del caporalato e forse non siamo troppo lontani dalla verità se diciamo che, tra i mandanti, c’è la politica delle frontiere economiche completamente aperte. Non si accorgono che gli schiavi prima o poi si ribellano. “Le arance finiscono a magazzini e industrie che – molto probabilmente – vendono succo e prodotto fresco a notissimi marchi della grande distribuzione e alle multinazionali che tutti conosciamo”. Basti pensare che gli agrumi rappresentano il 15 % del pil siciliano ed il 4% di quello nazionale. “Tra produttore singolo e OP non cambia niente, il problema è che quest’anno ci sono troppe arance, e troppo piccole, e non riusciamo a reggere la concorrenza degli agrumi provenienti da Spagna e Marocco, venduti a 15 centesimi al chilo e trattati chimicamente, cosa che in Italia è vietata”, spiega un piccolo produttore. E così che le aziende di trasformazione medio-grandi, che un decennio fa erano duecento, oggi si sono ridotte a 13, mentre “i piccoli contadini nella morsa della fame costringendoli a vendere le loro terre a commercianti, che grazie al capitale accumulato dai fondi europei, sono in grado di investire in una sorta di landgrabbing (accaparramento delle terre) in salsa nostrana”. Il percorso verso la competitività, insomma, passa da sfruttamento, grossi capitali e concentrazione delle risorse: controlli scarsi sulle regole e frontiere aperte, in breve, modificano la struttura del mercato e del tessuto imprenditoriale.
I mandanti di tutto questo stanno seduti in poltrona e cianciano di libero mercato. Chi denuncia, quasi sempre, sono organizzazioni e giornali, come lo stesso “Internazionale”, che si nutrono di retorica immigrazionista. Nel frattempo i migranti, soli, senza famiglia, finiscono in strada o nei campi a dieci euro al giorno. E nessuno pensa a fare uno più uno, dicendo basta al fenomeno criminogeno e sradicante dell’immigrazione di massa.
Emmanuel Raffaele, 24 giu 2016