
[ARTICOLO PUBBLICATO SULLA RIVISTA “LA FIONDA“]
Pochi giorni fa, evidenziavo le ragioni dello straordinario appoggio della comunità latina nei confronti di Trump alle ultime elezioni Usa. E facevo notare che, anche in Spagna, la sempre più numerosa comunità latina dimostra una certa simpatia per la destra, sull’onda di un sentimento antisocialista ed “antiwoke” in gran parte condiviso.
In questo caso, però, c’è un altro elemento che vale la pena approfondire eche favorisce la destra: si tratta dell’Ispanità, celebrata proprio lo scorso 12 ottobre, in occasione della festa nazionale spagnola che ricorre nell’anniversario del primo sbarco in America.
Nonostante possa sembrare un’ovvietà, infatti, il concetto di ispanità va ben oltre l’eredità linguistica, toccando in pieno il tema delicatissimo del colonialismo. Per questo motivo l’abile uso che ne fa la destra suscita spesso polemica.
AYUSO, LA REGINA DEL PP
“Siamo immersi in un incredibile paradosso politico: la sinistra difende i diritti dei migranti, ma la destra e Isabel Diaz Ayuso trionfano tra gli immigrati latinoamericani“: questo, in effetti, il sommario dell’articolo di Nuria Labari, dal titolo “L’Ispanità e la sua regina latina postmoderna“, pubblicato su “El Pais” pochi giorni fa.
Nell’articolo Labari spiega: “Qualcosa starà facendo molto bene o la sinistra molto male rispetto all’oltre mezzo milione di latinoamericani censiti nella comunità (di Madrid, ndr). In effetti, Ayuso mette a rendita il Giorno della Ispanità, mentre buona parte della sinistra si mobilita contro i fasti del 12 ottobre attraverso un discorso rigoroso, anti-coloniale e antirazzista che non porta voti. E quanto più forte è il grido anticoloniale, maggiore è l’investimento di Ayuso nella sua festa dell’Ispanità“.
Da sempre data simbolica centrale nei rapporti tra la Spagna e il Sud America, il 12 ottobre in Spagna è stato dapprima (1918) il “Giorno della Razza”, su proposta del ministro Faustino Rodríguez-San Pedro, come festa nazionale per celebrare “la comunione spirituale tra Spagna e i popoli dell’America ispanica”; poi, in epoca franchista avanzata (1958), la celebrazione si è trasformata in “Giorno della Ispanità“; in epoca democratica, infine, il nome ufficiale viene cambiato in Festa Nazionale di Spagna, giorno in cui vengono celebrate anche le Forze Armate. Ma la retorica dell’ispanità e la denominazione tradizionale non è sparita.
Ecco perché proprio Ayuso, nel 2021, ha inaugurato nella Comunità di Madrid un costosissimo Festival dell’Ispanità, dallo slogan azzeccatissimo: “Tutti gli accenti trovano spazio a Madrid” (“Todos los acentos caben en Madrid”) – uno slogan è apparentemente inclusivo, ma rigorosamente rivolto agli ispanoparlanti.
Al centro del discorso inaugurale, “il vincolo di fraternità tra le varie nazioni di origine spagnola sparse sui due continenti” e le “600 milioni di persone distribuite sui due lati dell’Atlantico” che parlano spagnolo.
AL CENTRO DELL’IMPERO
L’ambizione per nulla velata è, in effetti, quella di sfruttare la leva linguistica e migratoria per tornare ed essere il centro dell’impero: “la cultura in spagnolo fa di noi una potenza culturale di prim’ordine, con quello che comporta in termini di influenza politica e ricchezza, che si traduce in vari punti del Pil” – tra gli obiettivi anche quello di rafforzare l’asse Miami-Madrid sulle produzioni musicali in lingua spagnola. “La lingua inglese”, ricordava, “monopolizza gli studi superiori nel mondo intero: non stiamo approfittano come dovremmo della ricchezza dello spagnolo”. L’augurio, infine, che “sempre più giovani catalani, estremegni, colombiani o messicani si sentano orgoglioso di questa lingua più che mai di moda” – da notare come le nazionalità americane vengano citate insieme alle identità regionali spagnole.

In occasione del 12 ottobre scorso, del resto, ha ricordato: “condividiamo una grande opera che unisce anime ai due lati dell’Atlantico, più di 600 milioni di persone con la stessa forma di concepire la vita”. Mentre, in una intervista, pochi giorni prima, aveva ribadito: “la immigrazione ispanica non è immigrazione“.
Non è la prima volta, infatti, che Ayuso – che ha anche proposto un piano per la ‘importazione’ di lavoratori latinoamericani in ambito soprattutto sociosanitario – fa dichiarazioni simili, distinguendo esplicitamente l’immigrazione latina da quella africana o islamica – e da quelli che “scappano dal comunismo”, come sottolineò un anno fa. Non sono differenti, del resto, le ragioni politiche per cui il partito di destra radicale Vox, pur minacciando deportazioni di massa dei migranti irregolari, preferisce sempre puntare il dito contro gli immigrati africani e/o islamici, senza mai nominare esplicitamente i pur tantissimi irregolari sudamericani.
Ecco perché, nonostante i tantissimi discendenti di italiani in Centro e Sud America (soprattutto in Argentina), in questa area geografica la Spagna gioca in ‘casa’. E, se è vero che la premier Giorgia Meloni ha dichiarato che, invece degli immigrati musulmani, dovremmo far arrivare in Italia immigrati dal Centro e dal Sud America, i deboli sforzi del nostro governo per esercitare il proprio soft power in America Latina sono poco o nulla in confronto alla “potenza di fuoco” della Spagna e, in particolare, della destra spagnola.
L’ISPANITA’ COME SOFT POWER
Naturalmente, usare la leva linguistica per esercitare il proprio soft power è una aspirazione legittima. Del resto, anche con l’attuale governo socialista questo legame culturale quanto istituzionale viene coltivato attivamente, anche attraverso accordi che, ad esempio, facilitano la convalida di titoli di studio o l’ottenimento della cittadinanza. Ecco perché, nell’ultimo rapporto del Ministero per l’Inclusione si sottolinea specificamente il contributo lavorativo e la regolarizzazione crescente dei latinoamericani in Spagna. Il vantaggio linguistico, del resto, è innegabile, quanto reciproco. Per questa ragione in Spagna, in effetti, la comunità latina sta trovando la sua seconda Patria e i numeri parlano chiaro: circa 4 milioni di latinoamericani – quasi il 9% della popolazione – vivono nel Paese e, nonostante siano molti meno quelli in situazione regolare, la crescita è del 120% dal 2019. I paragoni con l’Italia, anche matematicamente, sono impietosi (meno di 500mila persone).
Le criticità, dunque, non riguardano il concetto di ispanità in sé, considerando che, nel migliore dei casi, è piuttosto un simbolo di fratellanza. Ciò che invece mette in difficoltà la sinistra e favorisce la destra è un ispanismo quanto meno timido a sinistra che, sommato ai fattori politici a cui facevo riferimento inizialmente, favoriscono l’ispanismo nostalgico ed ostentato della destra: un ispanismo che fa leva sull’orgoglio mai sopito del proprio passato imperiale, che anche la sinistra moderata non può permettersi di sfidare apertamente.
Come evidenziava Labari, nella precedente citazione, il pur comprensibile senso di colpa di matrice anti-coloniale, che spinge la sinistra a criticare o a celebrare sobriamente l’ispanità, in un giorno in cui inevitabilmente il militarismo è uno dei protagonisti, lascia il gioco nelle mani di una destra che si sta dimostrando abile a mascherare di buoni sentimenti e fraternità la propria aspirazione neo-imperiale.
DALL’ISPANITA’ ALL’ISPANISMO NOSTALGICO
Va da sé, infatti, notare che il linguaggio e la retorica paternalista, da parte di una destra che non trova nulla da ridire rispetto al passato coloniale, hanno molto spesso il sapore della nostalgia. Ed è proprio questa la critica che si ritrovano spesso ad affrontare gli ispanisti: usare il Giorno dell’Ispanità per riproporsi ai popoli del Sud America come la Madre Patria benevolente; sfruttare l’emigrazione più o meno forzata per propinare ai nuovi arrivati la stessa morale di salvezza paternalista da cui avevano voluto rendersi indipendenti oltre un secolo fa.
Si tratta, in effetti, di una retorica che pesca abilmente nel mare di insoddisfazione di molti latinoamericani rispetto alla situazione dei propri Paesi di origine (con economie difficili e un altissimo senso di insicurezza), che facilita il riflesso involontario del “si stava meglio quando si stava peggio”. Ancor più efficace se consideriamo il contesto di una comunità che, per ragioni storiche, ha interiorizzato una struttura sociale di tipo padronale e che, anche per questa ragione, come facevo notare nell’articolo sul voto latino negli Usa, vuole sentirsi integrata nel “modello occidentale”, uscire da ogni dinamica “terzomondista”, ha per diverse ragioni tendenze antisocialiste e non fatto propria la retorica woke su larga scala.
I movimenti che, anche in questa area geografica, hanno spinto a celebrare il 12 ottobre nel nome delle comunità indigene sono un fatto per lo più di sinistra, ma non certo lo specchio di una coscienza diffusa nel sentimento popolare. Senza contare che l’ondata woke proveniente dagli Usa, che pure aveva lambito l’America Latina, sembra oggi più che mai in ritirata e la nuova parola d’ordine è: Restaurazione.
Ecco perché su Huffington Post, Pablo Padilla commenta: “Il Festival dell’Ispanità a è un artefatto ideologico di prim’ordine che la Comunità di Madrid sta ingrassando anno dopo anno”. “Ogni affermazione, ogni parola scelta – prosegue Padilla, che fa anche riferimento ai 9 milioni di euro spesi finora per il festival – cerca di infiammare i sentimenti di chi rimpiange le Armate delle Fiandre, usa immagini dei Templari come avatar sui social media o crede di vivere in una Crociata. La scelta del nome non è innocente. Hanno escluso di celebrare la “Festa della Razza” perché commemorare Alfonso XIII è fuori moda. Ma raccogliere il testimone iniziato nel 1958, nel pieno della dittatura franchista, si adatta meglio ai segni dei tempi e al cambiamento della destra“.
IL FRANCHISMO TORNA DI MODA

In effetti, una statistica fresca di stampa afferma che almeno il 20% degli spagnoli vedono di buon occhio la dittatura di Franco, senza contare che il discorso radicalmente nazionalista ed anti-socialista di Abascal sta conquistando tanti elettori o potenziali elettori del Partito Popolare e, soprattutto, tanti giovani tra i quali Vox sembra la nuova tendenza – in linea con le statistiche nazionali e internazionali che indicano un ritorno delle aspirazioni all’autoritarismo tra i ragazzi.
E’ quella Spagna nostalgica che Vox sta cercando di conquistare con l’armamentario ideologico completo dell’ispanismo nostalgico: la difesa del campo, dell’esercito, della gloria imperiale e perfino della tauromachia, per porsi come baluardo assoluto delle tradizioni spagnole. Non a caso, proprio il 12 ottobre, la “superstar” della Corrida, Morante de la Puebla si è fatto fotografare con Abascal dopo la sua ultima sfida, durante il simbolico taglio della coda cha ha sancito la fine della sua “carriera”, dedicando proprio al segretario di Vox la sua ultima “impresa”. Sempre in occasione delle celebrazioni per il 12 ottobre, Abascal ha inoltre rifiutato la tribuna con il re ed il presidente Sanchez, scegliendo invece di presenziare tra la gente, postando poi in rete una (a dir poco) evocativa foto con la descrizione: “Con il Popolo, con l’Esercito“.
Abascal è in effetti il simbolo di un ispanismo sciovinista, che considera la conquista coloniale spagnola un contributo alla civilizzazione americana e, dunque, un motivo di orgoglio, tanto da usare persino la definizione falangista di “impero solare spagnolo“.
L’ISPANISMO E LA MISSIONE CIVILIZZATRICE DELL’IMPERO
Sono queste le ragioni per cui la regina del PP Isabel Ayuso prova a competere con Abascal sullo stesso campo.
Fu proprio lei, in effetti, a rimproverare Papa Francesco quando, in passato, offrì al Messico le sue scuse per gli errori della Chiesa ai tempi del colonialismo.
In quella occasione, Ayuso si disse “sorpresa che un cattolico di lingua spagnola parlasse così” ed esclamò: “La Spagna portò la libertà e la civilizzazione in America“. Parole che riecheggiano quelle del dittatore Franco: “La Spagna non conquistò, piuttosto evangelizzò. La Ispanità è una unità di destino nell’universale“.
Lontano dall’aver raggiunto le vette dell’estremismo americano, dunque, il dibattito sull’imperialismo spagnolo esiste ma porta con sé una difficoltà obiettiva da parte della sinistra moderata nell’attaccare esplicitamente il proprio passato imperiale, mentre dall’altra parte la destra lo usa a proprio vantaggio. Se il premier socialista Sanchez celebra l’ispanità sobriamente, senza sbilanciarsi sul tema, è perché il senso di colpa spagnolo rispetto al passato coloniale è – comprensibilmente o meno – minoritario. Molti concordano con la Ayuso nel ritenere esagerata la “leggenda nera”, che attribuisce ogni tipo di nefandezza al colonialismo spagnolo – nonostante l’impero non sia stato certo esente (tutt’altro) dal razzismo istituzionale che istituì un vero e proprio sistema di caste, dalle stragi di civili e dalla schiavitù. D’altronde, non bisogna dimenticare che la Spagna è una monarchia storica, la cui continuità storico-istituzionale rispetto all’epoca della conquista americana non è stata rotta neanche dal franchismo e dalla transizione democratica.
Per capirci, l’Ispanismo a cui ci riferiamo sta alla Spagna come la retorica della “Città sulla Collina” sta agli Usa: entrambe servono a dare una giustificazione spirituale al proprio imperialismo attraverso l’argomentazione della missione civilizzatrice (come del resto faceva Roma e il regime fascista con la romanità) – su tutti basti leggere “Difesa della Ispanità” di Ramiro de Maeztu, 1934.
L’ISPANISMO E L’APPROPRIAZIONE DI COLOMBO
Per capire il riflesso popolare di questo tipo di ispanismo sul 12 ottobre, merita una rapida menzione la teoria revisionista di un Cristoforo Colombo catalano o, comunque, non italiano, rilanciata spesso dagli studiosi e che trova per questo ampio seguito tra gli ispanisti in rete, nel tentativo di monopolizzare culturalmente il merito della “scoperta del Nuovo Mondo”, negando all’italianità anche questo simbolo storico – nonostante nessuna teoria revisionista sia stata mai riconosciuta ufficialmente né minimamente provata, tanto che l’italianità di Cristoforo Colombo è riconosciuta anche dalla Reale Accademia di Storia di Madrid.
Vale la pena sottolineare, infatti, che se, per ovvie ragioni, negli Usa, il Columbus Day (1971), celebrato nella stessa data in cui Colombo sbarcò per la prima volta in America, si centra soprattutto nella figura dell’esploratore italiano (e non certo la celebrazione della conquista spagnola delle Americhe), per molti ispanisti il legame tradizionale di questa celebrazione con la comunità italo-americana risulta molto meno immediato.
Qualche anno fa, a difendere le statue di Colombo buttate giù negli Usa in chiave anti-colonialista c’erano soprattutto italiani, per i quali la celebrazione di Colombo rappresenta il riconoscimento di essere un elemento fondante della storia americana. Ma la personificazione di questa celebrazione è un fatto prettamente italo-americano appunto. Perciò quegli stessi italiani, oggi, celebrano (insieme a Giorgia Meloni) l’elogio di Trump al famoso navigatore e alla comunità italiana negli Usa. Al contrario, più che l’impavidità di un navigatore straniero, il 12 di ottobre l’ispanità celebra comprensibilmente se stessa ed il merito di una missione finanziata dai re cattolici per la gloria dell’impero.
Per quanto la sua immagine sia stata “ripulita”, il 12 ottobre è il palco perfetto per gli ispanisti che, coscienti o meno, non fanno altro che ripercorrere le tappe del franchismo nella sua promozione dell’ispanità come strumento di soft power, anche in questo caso con “forti tinte anti-comuniste, tradizionaliste, cattoliche e anti-liberali“, come quelle portate avanti dal Caudillo attraverso il Consiglio dell’Ispanità (qui, un approfondimento interessante sull’argomento e la l’ispanismo come “cultura della salvezza”).
ISPANISTI CONTRO IL TERMINE “AMERICA LATINA”
Non a caso, l’ispanismo social contemporaneo ha anche un altro obiettivo che, in un certo senso, non va proprio a favore degli interessi italiani in fatto di soft power ma ha anch’esso radici storiche. Infatti, se dire America Latina o parlare di Latino Americani per noi (e per tutto il mondo) è normalissimo, molti ispanisti contestano fortemente l’uso di questa definizione.
Se oggi, in effetti, chiamiamo America Latina quell’area geografica che va dal Centro al Sud America in cui si parlano lingue di origine romanza (ovvero latina), come il francese, il portoghese e lo spagnolo, per gli ispanisti questa definizione è un furto di identità compiuto nel nome dell’interesse ottocentesco della Francia, che minimizzerebbe l’influenza spagnola sulla regione.
Se ai nostri occhi dire “Latino America” sembra (e lo è) una semplificazione inclusiva, volta a comprendere anche i Paesi non ispanoparlanti, per gli ispanisti non ci sarebbe altra definizione possibile che quella di Ispano America, che i più radicali preferiscono anche a quella di Ibero America (poiché includerebbe implicitamente l’influenza portoghese). E di certo non sopportano quando, a fare a meno di questa definizione, siano addirittura gli stessi ispano parlanti, soliti autodefinirsi latinoamericani.
Per quanto etimologica, anche questa battaglia rivela chiaramente come l’ispanismo, per ragioni storiche e identitarie, si sia sempre sentito in competizione con il mondo anglo-sassone (ciò che ancora una volta riecheggia le parole di Ayuso sul monopolio dell’inglese) – anche a scapito dei pur marginali interessi italiani in questo senso. E, più in generale, completa il quadro del conservatorismo che si nasconde dietro la retorica dell’Ispanità.
Emmanuel Raffaele Maraziti