Paura, sottomissione e oscurantismo: ecco l’inganno sull’eredità spirituale di Cristo

mattia-preti-2Secoli di storia della Chiesa e, soprattutto, delle società cristiane hanno restituito del Cristianesimo l’immagine di una religione della paura, della rinuncia, della debolezza. A volte, quanto meno, dell’oscurantismo. Tutta impostata, insomma, sulla negazione, anziché sull’affermazione. E ciò in senso, appunto, ambivalente.

Ma è veramente questa l’eredità spirituale di Gesù Cristo?

Paura, dicevamo. Paura in riferimento all’oscurantismo medievale o medievaleggiante di una religione in cui il timor di Dio, inteso in senso letterale, ha una parte essenziale in relazione alla minaccia ossessiva e costante della sanzione divina del peccato (in primis di quello legato alla corporeità), ma anche, in senso forse opposto, una paura come status esistenziale proprio del cristiano, raffigurato come tipicamente sottomesso e mai ribelle, debole o comunque non affascinato dal concetto di forza che quasi assimila alla superbia.

È la “morale degli schiavi” di cui parla Nietzsche nel suo “Anticristo”, che in un aforisma, infatti, osserva: «Buddha dice: “Non adulare il tuo benefattore”. Pronunciate queste parole in una chiesa cristiana e l’aria sara’ purificata da tutto cio’ che è cristiano».

E che, in maniera ancor più diretta, spiega: «La divinità della decadence, mutilata nelle sue virtù e nei suoi istinti più virili, diventa a quel punto, per forza di cose, Dio dei regrediti fisiologici, dei deboli. Costoro non chiamano se stessi i deboli, si definiscono i “buoni”…ora si comprende senza che ci sia più bisogno di farvi cenno, in quali momenti della storia la finzione dualistica di un Dio buono e di uno cattivo diventi possibile».

E’ la polemica rispetto alla figura del «buon Dio» che smette di incarnare la forza di un popolo e le sue qualità virili per trasformarsi nel culto della tranquillità “piccolo borghese”, capovolgendo l’etica e l’approccio tradizionale alla divinità ma, forse, anche distanziandosi rispetto alla paura cui accennavamo inizialmente in quanto timore di un Dio vendicativo in stile veterotestamentario.

D’altra parte, se pure è indispensabile osservare preventivamente come entrambe le prospettive risultino oggi anacronistiche, ciò non deve ingannare sulla veridicità di un background culturale che, senz’altro, non è un’invenzione del filosofo tedesco.

Semplicemente, infatti, si tratta di un anacronismo che è l’effetto di una estrema laicizzazione (meglio, materializzazione) della società e l’allontanamento da un cristianesimo che, anzi, dimostra esattamente, nel processo di rimozione che progressivamente subisce, sia la scomparsa della percezione del pericolo della “dannazione” e quindi del sentimento religioso del timor di Dio, sia la distanza attuale rispetto ad un buonismo inadeguato per un mondo sempre più incattivito, individualista, fondato sulla competitività carrierista, sulla forza e sul predominio economico, sull’immagine e sulla “rinuncia alla rinuncia”.

Conseguenze del “vietato vietare” di sapor sessantottino, ancor prima del razionalismo d’eredità liberal/illuminista e, d’altra parte, del darwinismo sociale d’estrazione capitalista e del materialismo di cui è appunto intriso.

E’, in poche parole, che oggi vige un ateismo di fatto per cui rari sono gli individui che si “sottomettono” ad una disciplina religiosa in maniera ferrea e, se vogliamo, anche “folkloristica” come un tempo (non troppo lontano, se pensiamo a certe realtà del sud Italia); è, infine, che essere “buoni”, “pii” e “casti” non è certamente cool. E non ci riguarda, in questa sede, se questi siano fattori positivi o negativi, ma soltanto il dato di fatto: l’anacronismo degli stereotipi esposti, che legano il cristiano alla paura nei due sensi rapidamente individuati, non nega assolutamente il loro fondamento, ma ne attesta semplicemente il loro superamento che è, però, insieme anche un superamento della centralità del cristianesimo a cui essi rimangono fortemente legati, rappresentandone anzi l’identità ultima e, probabilmente, anche il motivo di questa rottura.

Ciò che ci interessa è, appurata l’esistenza di una stratificazione culturale così riassumibile e d’altronde frutto di innumerevoli attacchi al cristianesimo nel corso della sua storia, rilevare l’incoerenza di questa eredità morale rispetto alla figura del Cristo. Senza pretendere di dimostrare nulla o di tenere lezioni teologiche, ma limitandosi soltanto a riflettere e a far riflettere.

adjustE’ per caso ossessionato dal peccato il Cristo che sfida la legge e comanda solo l’amore? E’ ossessionato dal peccato colui che afferma: «chi è senza peccato scagli per primo la prima pietra contro di lei», impedendo la lapidazione di una adultera, non in nome del buonismo ma in nome di un distacco rispetto al falso moralismo farisaico? Lo è quando infrange il “sabato”? Cristo non è un oscurantista, non è un fanatico: predica la giusta via ma senza intolleranza, per affermazioni anziché per negazioni. Tanto che nella Lettera ai Romani, Paolo scrive: «Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. Uno crede di poter mangiare di tutto, l’altro invece, che è debole, mangia solo legumi. Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi non mangia, non giudichi male chi mangia, perché Dio lo ha accolto. Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone». Esempi come cento altro di una predicazione fondata sull’invito ad astenersi da giudizi morali, che appartengono soltanto a Dio (il padrone della metafora paolina), e di conseguenza su una certa laicità del suo messaggio, che non mira a fondare uno stato teocratico in cui chi ogni peccato è legge, ma lascia spazio alla coscienza nelle questioni etiche.

Quanto alla paura. Era per caso timoroso il Cristo che sfidava impavido i Giudei e le loro leggi? Era per caso timoroso il Cristo che scacciava in malo modo i mercanti dal tempio? Era per caso timoroso, debole o esitante il Cristo che affrontava inumane torture senza cedere nel corpo e nello spirito? Dimostrava di aver paura il Cristo che davanti a Pilato non pensava minimamente ad evitare il peggio? Lo era il Cristo che sfidava costantemente un’autorità che considerava indegna? Oppure lo era quello che moriva in croce per le sue “idee” (come diremmo se si trattasse di personaggio storico e di un’idea “qualunque”)?

Si sentirebbe all’altezza ciascuno di voi di affrontare le medesime durissime prove dimostrando altrettanta forza d’animo, altrettanto coraggio, altrettanta forza e determinazione?

Non è forse l’intera vita di Cristo paradigma di un coraggio che non si limita a non temere la morte ma, anzi, tende a cercarla e superarla ponendo in qualcosa di più alto l’essenziale?

Tutto ciò è innegabile, come è innegabile il coraggio dei martiri cristiani che affrontarono indicibili torture per la loro fede, ma dimostrarono anche il loro coraggio intellettuale andando in giro a raccontare qualcosa che doveva certamente generare come minimo incredulità e magari sdegno e scherno. Mostra forse debolezza san Sebastiano, corpo da combattente, infilzato da mille frecce per la propria fede? Esempi che giungono fino al secolo scorso, fino al sacrificio, per dirne uno, dei Cristeros messicani, alcuni dei quali giovanissimi, disposti a morire dopo impressionanti torture e mutilazioni per non voler rinunciare a gridare “Viva Cristo Re”.

Un’esclamazione che simbolicamente e plasticamente restituisce un’idea sovrana e aristocratica del Cristo. Non sottomesso: mai dalle sue parole traspare sottomissione ed, anzi, semmai imperio, comando; le sue frasi sono insegnamenti oppure ordini, senza smancerie. Non debole, ma vincente. Non schiavo, ma re, per stirpe e, soprattutto, temperamento, carisma, coraggio. Re perché, vincendo la morte, è stato senz’altro sovrano della vita e ciò non soltanto in un senso simbolico religioso a cui ovviamente possono credere solo i cristiani, ma in senso oggettivo: «chi impara a morire disimpara a servire» è un vecchio adagio classico. Perché, in breve, se nella resurrezione risiede il senso spirituale della sua vittoria sulla morte, è già nella sua umanità che il Cristo vince la morte, smettendo di temerla, affrontandola a testa alta, sfidando sofferenze che poteva evitare.

san_sebastiano_anonimo_1600Cosa che invece non fa e che insegna a non fare: «Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà». E ancora: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Lui, che insegna a non rinnegare amici, idee, fede, a qualunque costo e che certo non era un reazionario timoroso di denunciare l’ingiustizia, sintetizza nella sua vita la negazione della paura. Lui che non ha fatto altro che criticare apertamente e pubblicamente il moralismo e l’ipocrisia dei «Giudei» e dell’ebraismo del suo tempo, ha opposto una sovrana libertà (e non l’anarchia) alla sottomissione, all’apparenza delle forme la sostanza dell’atto nella sua purezza, all’intellettualismo erudito e sofista il valore del ragionamento e della logica, al burocratismo delle regole una spiritualità che va al sodo ed un’etica fondata sul significato del gesto.

Eppure, non tanto la malafede, quanto la debolezza d’animo degli uomini, ha condotto nel tempo a travisare la sua rivoluzionaria ed anticonformista vicinanza al popolo e la sua non belligeranza, abbassandole al livello di un mistico pacifismo unito all’esaltazione aprioristica di tutti gli “anti-valori”. Un paravento per i timorosi bisognosi di dare alle proprie paure una giustificazione religiosa.

E’ sufficiente la sua non belligeranza per considerarlo un semplice pacifista? Era un buono o un giusto, dal momento che sapeva all’occorrenza usare toni duri?

D’altra parte, quale battaglia avrebbe mai dovuto combattere?

Appare evidente, oltre al coraggio, che il suo non è il pacifismo di chi teme la guerra, ma la serenità spirituale di chi potrebbe vincere o perdere qualsiasi guerra mantenendosi equanime.

E tutto ciò non attiene al suo essere Messia dei cristiani, parte della Trinità o figura religiosa, ma al suo essere stato uomo. Seguirne l’esempio autentico dovrebbe certo essere l’aspirazione dei cristiani. Comprenderne la natura, anche da una prospettiva laica, può avere un senso anche per chi non crede o possiede una fede diversa.

Ma, più di tutto, affinché questa parentesi riflessiva abbia anche un senso pratico, è consigliabile valutare l’influenza negativa che la paura ha su ogni aspetto della nostra vita e, quindi, l’importanza della lotta contro di essa. Che riassume in sé la lotta contro le ansie, le insicurezze, le esitazioni, le gelosie, le invidie e tutto ciò che, come un tappo, blocca lo spontaneo sgorgare delle nostre energie positive, limitandoci, inchiodandoci alla terra, all’individualismo, alla mediocrità, all’impossibilità di essere ciò che siamo, ciò che vorremmo essere.

Emmanuel Raffaele

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