Prima di tutto andate a vederlo. Non è una pellicola che lascia senza fiato e non è tutto quello che vi potreste aspettare ma ne vale la pena.
“L’ultimo lupo” di Jean Jacques Annaud, già regista de “Il nome della rosa” e di “Sette anni in Tibet”, costato ben sette anni di lavorazione e circa 38 milioni di dollari, seguito da 480 tecnici, addestratori e partecipato da circa 200 cavalli, mille pecore e una ventina di lupi, ha l’ambizione di un film epico ma non ne possiede l’impronta, mantiene alta l’attenzione ma lascia la sensazione che manchi qualcosa, alterna dialoghi intensi a passaggi in cui la sceneggiatura è deludente.
«Con la morte del saggio Bilig scompariva la steppa che avevo conosciuto», chiosa il protagonista, riecheggiando fin troppo una scena analoga de “L’ultimo samurai” sulla fine del Giappone tradizionale e, soprattutto, scoprendo le carte sugli obiettivi narrativi del film.
Ma “Wolf Totem” (questo il titolo originale) è, in realtà, un’opera che arriva fino in fondo senza intoppi e però senza neanche vera suspense, senza troppi drammi, senza grandi effetti scenici ed armato soltanto di tanto realismo descrittivo e qualche punta di misticismo.
In parte un merito, se non fosse per le aspettative create da una presentazione che lascia immaginare qualcosa di più di un semi-documentario ecologista sul delicato equilibrio della steppa mongola.
«Hai catturato un Dio e ne hai fatto il tuo schiavo», rimprovera eloquente il vecchio Bilig al giovane Chen Zen, studente di Pechino ai tempi della “Grande rivoluzione culturale” maoista (siamo nel 1967), inviato tra le tribù della Mongolia per insegnare loro a leggere e scrivere, che però si innamora dei lupi e decide di contravvenire alle legge che ne impone l’uccisione, allevandone uno, inizialmente in segreto.
Questa la frase più significativa del film, la stessa che in effetti campeggia nelle locandine su cui posa, fiero, un lupo.
«I lupi», prosegue il saggio capo, «vogliono sfamarsi da soli, è una questione di dignità, il lupo è un guerriero. E se privi un lupo della sua fierezza, se gli impedisci di uccidere, quale guerriero sarà mai?».
Frammenti di dialoghi che regalano quel minimo di contenuti necessari ad un film che, per il resto, non indugia troppo sul contesto storico, né sulla vita e le credenze dei mongoli, lasciando un po’ l’amaro in bocca quando ci si rende conto che l’epica prospettata si riduce a celebrare la figura del lupo in senso animalista, senza metterlo realmente in relazione con la civiltà mongola, che pure dovrebbe esser quanto meno coprotagonista della pellicola.
Manca forse questo, manca fortunatamente un po’ di retorica, manca l’approfondimento psicologico dei personaggi, manca il ritmo, manca una vera e propria trama, con un plot fin troppo circolare, al punto che Chen Zen, in chiusura, annuncia: «era il momento di ridiventare il ragazzo di città che non avevo mai smesso di essere».
Uscito nelle sale lo scorso 26 marzo, poco più di un mese dopo Cina e Francia, dove il film è stato prodotto, la pellicola è basata sul secondo libro più letto nella storia della Cina, “Il totem del lupo” di Jiang Rong.
«La voglia di uccidere li tortura ma non sprecheranno questa occasione per avventatezza. I lupi sono organizzati. Attendono il momento giusto. E obbediscono alla volontà del capobranco». E, soprattutto, sono creature libere, capaci di sottomettersi soltanto al Tenger (Il Cielo), nemici da rispettare come ogni avversario di valore.
Sacralità guerriera, libertà aristocratica, religiosità “pagana” negli insegnamenti di Bilig, che spiega: «I mongoli non sotterrano i propri morti, restituiscono alla steppa la carne con cui ci ha nutrito».
La sua morte è la fine simbolica di una civiltà. Il lupo e Chen Zen rimangono testimoni di un tempo, di cui però non sono stati protagonisti. E l’esperienza diretta diventa memoria.
Il lupo allevato dal giovane studente, unico sopravvissuto alla strage tra i lupi della steppa, tornato impetuosamente alla sua natura, è una fiaccola ancora accesa pronta a riappiccare il fuoco della sua tradizione guerriera. Ed allo stesso modo torna nel suo mondo il “padrone” Chen Zen.
“Nemici”, diversi per natura, nonostante entrambi si siano “contaminati” con un’identità che non gli appartiene. A ciascuno la propria vita, la propria essenza. Inestirpabile. Così Chen Zen non sposa la donna indigena di cui è innamorato, Bilig non sopravvive al cambiamento, il progressismo non cede alla tradizione.
E ad ogni passaggio, ad ogni ciclo, ad ogni contaminazione, si perde qualcosa di quello che fu.
Ed il lupo stesso destinato a rifondare la sua stirpe guerriera è pur sempre un lupo che ha perso un po’ della sua natura selvaggia, della sua identità. Niente sarà come prima. In attesa di un nuovo ciclo aureo.
«Comandare non contempla l’essere amati, a volte si deve obbedire a degli ordini, anche contro il nostro cuore», commenta il delegato governativo dopo aver fatto uccidere l’ultimo branco di lupi, con una frase da cui traspare un determinismo che, forse, non è rivolto tanto a giustificare moralmente il burocraticismo ed il materialismo di ispirazione progressista e matrice comunista alla base del “disordine” che egli rappresenta, quanto a collocarlo metastoricamente in un fase in cui la fine è a sua volta preludio ad un nuovo inizio, così come la morte alla resurrezione. E’ necessario che tutto accada, anche il male. Anche il Kaliyuga.