Dal 4 marzo al 31 agosto gli appassionati della boxe in tutto il mondo avranno un motivo in più per visitare Londra. Infatti, “The O2”, l’enorme tensostruttura a forma di cupola allineata al meridiano di Greenwich, costruita a fine anni Novanta, ospiterà nel corso della primavera e dell’estate, l’attesissima esposizione dedicata alla vita di Muhammad Ali dentro e fuori dal ring.
Già sperimentata con lo scomparso Elvis Presley, che aveva attirato oltre 200mila visitatori, la formula servirà adesso a raccontare la storia di Cassius Marcellus Clay Jr, classe 1942, titolo mondiale dei pesi massimi dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978, divenuto Muhammad Ali in seguito alla conversione all’Islam, campione eccentrico e ribelle, “razzialmente identitario”, si vide ritirare la licenza da parte della commissione pugilistica in seguito al rifiuto di prestare il servizio militare nel corso della guerra degli Usa in Vietnam: «Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato “negro“».
“I am the greatest”, non a caso, è la frase che gli organizzatori hanno scelto per pubblicizzare l’evento: “quando si è grandi come lo sono io, è difficile essere modesti”, dichiarò infatti Ali, provocatore, esuberante, tracotante e, soprattutto, velocissimo ed imbattibile sul ring grazie ad un gioco di gambe che lo rendeva simile ad un ballerino nonostante la potenza dei suoi quasi cento chili distribuiti su 191 cm di altezza.
Un ring interattivo mostrerà, tra le prime cose, le sue tecniche di allenamento ed il suo modo di boxare. E poi ancora video inediti, fotografie e oltre un centinaio di oggetti tra guantoni, medaglie (compresa quella delle vinta da giovanissimo nel 1960 alle Olimpiadi di Roma) ed altre cose appartenute al campione che oggi, a 74 anni e con un morbo di Parkinson che non gli ha impedito di impegnarsi nella solidarietà, è stato calorosamente invitato dagli organizzatori a voler partecipare all’evento.
Uno degli spazi espositivi, ha spiegato David Miller, uno dei curatori della mostra, sarà dedicato proprio al suo scontro con le autorità nel 1967, quando si rifiutò di combattere contro i Vietcong. Autore di ben quattro libri sul personaggio, Miller confida: “Non sarà un’esperienza museale, vogliamo una mostra dallo sguardo torvo e che abbai contro le persone allo stesso modo in cui farebbe Ali. Vogliamo, al tempo stesso, far ridere e piangere i visitatori”.
Campione irriverente e fuori dagli schemi, non reagiva al razzismo con vittimismo ma ostentando l’orgoglio delle sue radici, tanto che in un’intervista televisiva [1], al giornalista politicamente corretto che lo incalzava: “non mi dispiacerebbe se mia figlia sposasse un nero: è la società che ci vuole diversi”; lui rispondeva candidamente: “Dio ci ha fatto diversi”. Ed alle obiezioni dell’intervistatore, replicava con queste parole: “Triste? Non è triste se voglio che mio figlio somigli a me. Sarei triste se perdessi la mia meravigliosa identità. Chi vorrebbe uccidere la propria razza?”