“Doromizu”, il ‘noir’ di Vattani che, di riflesso, ci racconta il Giappone

Doromizu«Come si dice “umiliante” in giapponese?». Kuzujokuteki. Pare che si dica così. «Umilianti, che trasformano le cose belle in cose brutte. Che buttano giù lo spirito delle persone. Che sviliscono la bellezza». Se Mario Vattani – ex console italiano in Giappone, attualmente coordinatore dei rapporti con i paesi dell’Asia e del Pacifico, tempo fa finito sui giornali e sospeso per un suo concerto nel corso di una iniziativa di CasaPound – avesse voluto banalmente raccontare il “suo” Giappone, avrebbe semplicemente fatto un libro opposto a quello che, invece, è giunto già alla prima ristampa dopo pochi mesi nelle librerie. Perché in “Doromizu – Acqua Torbida”, romanzo edito da Mondadori, trecentosessantatre pagine che si leggono d’un fiato, la tradizione giapponese si vede solo di riflesso. Vattani, che pur lascia intuire di amarla, la sfiora, le passa accanto, ma non osa andare oltre, prenderla di petto, farsene interprete. E’ una scelta – supponiamo – non solo narrativa. Una forma di rispetto molto orientale, di poche parole.

Ad essere umiliate nel racconto di Vattani sono le donne dei violenti video per adulti girati dal protagonista Alex Merisi, italiano cresciuto nel Regno Unito, in Giappone forse per perdersi e probabilmente poi ritrovarsi. Una lettura politica sarebbe riduttiva e fuori luogo, ma quello che (tra le righe) viene fuori ricorda, se non altro, l’umiliazione del Giappone, dopo Hiroshima e Nagasaki, l’annientamento materiale e spirituale, la “colonizzazione americana”. «Intanto, come tanti morti viventi, al ritmo della musica che rimbomba dai locali, uomini e donne sfatti, sudati e scamiciati nonostante il freddo, iniziano ad avviarsi verso la stazione. Penso che l’inferno sia fatto così».

“Doromizu” è sicuramente altro, molto di più da un punto di vista metaforico e molto di meno da un punto di vista letterale. Legata, in copertina, una donna in abito tradizionale giapponese, richiamo alle pratiche descritte dalle scene dei film che Alex si trova a raccontare armato di telecamera. Legata sembra essere l’anima del Giappone. Che sopravvive come può in tutto ciò che non è modernità, perfino nell’oscurità della yazuka e nell’ambigua funzione dei tatuaggi tradizionali, ai confini di un mondo «dove non ci sono né colpa né perdono», nel quale, però, conta dare il meglio di sé, circondarsi di chi e di cosa ti permette di tirarlo fuori. Conta la consapevolezza di aver fatto ciò che dovevi. Ed in qualche modo l’errore è perdere l’equilibrio, cadere è soltanto una conseguenza. Mentre è saggezza rendersi conto del legame tra i due momenti.

Dal buio e dalla umiliazione, un Giappone che affronta l’Occidente vincitore a modo suo, un modo tragico, fatale, silenzioso. «Forse nella vita reale, come nella fotografia, quando la luce è troppo forte appiattisce le immagini, nel senso che le rende ancora più bidimensionali, toglie loro la profondità, il contrasto». Sarà per questo che Vattani, per raccontarci il Giappone, ha scelto il “noir”.

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