
Lo spunto per ritornare sulla questione viene, come anticipato, da quello che è stato senza dubbio un valido intervento, due giorni fa alla Camera, da parte del deputato Giorgia Meloni.
La Meloni, in risposta all’informativa del presidente del Consiglio, ha infatti sollevato due questioni importanti: una è la strategia del governo e la gestione della fase due, l’altra invece riguarda più da vicino la legittimità costituzionale delle misure del governo, che ovviamente non mi permetto valutare ma sulla quale è importante lanciare una riflessione e spiegare come stanno le cose.
La Meloni ha ribadito quella che da più parti è considerata una stranezza per così dire: lo scorso 23 febbraio il governo emanato un decreto legge per la gestione dell’emergenza. Questo decreto conteneva le prime disposizioni di contenimento, con la possibilità di chiudere ad esempio le scuole e poi, all’articolo 3, rimandava ai successivi decreti del presidente del consiglio, i famosi dpcm di Conte, l’attuazione del decreto e l’adozione di ulteriori misure.
Come notava la Meloni, insomma, il decreto aggira il decreto stesso, perché in fase di conversione, ovvero di approvazione parlamentare, si approvano quasi a scatola chiusa anche le misure disposte dai dpcm successivi, che però non sono in realtà semplici misure attuative del decreto.
Qual è la criticità?
Per capirlo vi spiego brevemente cos’è un decreto legge, cos’è un dpcm e chi fa le leggi in Italia.
Innanzitutto, il popolo può proporre al parlamento una legge, ma per farlo ha bisogno di attivare un complesso meccanismo che prevede tra l’altro la raccolta firme a sostegno della legge in questione. Poi c’è il governo, che può proporre al parlamento un disegno di legge e sottoporlo al voto.
Ma è appunto sempre dal parlamento che vengono fuori le leggi e sono normalmente i parlamentari, nelle varie commissioni, che studiano e preparano le leggi per poi presentarle al voto del parlamento. In ogni caso questo processo richiede quanto meno dei mesi.
Ecco perché l’art. 77 della Costituzione permette anche al governo, non solo di fare leggi, ma anche che queste leggi entrino in vigore immediatamente, saltando ogni passaggio e approvazione parlamentare: un potere enorme ma in certi casi indispensabile.
Queste particolari leggi si chiamano più propriamente decreti legge, hanno valore di legge ma ci sono ovviamente alcune differenze.
Visto che non hanno bisogno di essere approvate e discusse in parlamento, i decreti legge nascono come leggi provvisorie.
Avendo infatti natura antidemocratica, la Costituzione prevede infatti che i decreti del governo debbano comunque essere approvati dal parlamento entro 60 giorni.
Quindi, i decreti entrano subito in vigore, ma solo se il parlamento li conferma diventano a tutti gli effetti una legge.
Se invece il parlamento boccia il decreto, perde la sua efficacia fin da quando è stato emanato, ovvero non è più valido e non sono valide le misure prese fino a quel momento.
Il voto parlamentare entro sessanta giorni permette quindi il controllo e il voto del parlamento sul decreto e limita allo stesso tempo entro un tempo preciso l’efficacia dei poteri straordinari del governo, senza così togliere al governo la possibilità di usare il decreto per ragioni di “necessità e urgenza”.
Quello emanato dal governo lo scorso 23 febbraio è appunto un decreto legge ed è stato approvato dal parlamento lo scorso 5 marzo.
Prima e dopo il 5 marzo, Conte ha emanato diversi dpcm che fanno riferimento a questo decreto.
Cosa sono i dpcm?
I dpcm sono decreti della presidenza del consiglio. Si tratta di atti amministrativi, che non hanno forza di legge come i decreti legge.
Possono essere emanati da un ministero specifico per indicare le modalità di attuazione di una legge e possono essere emanati appunto dal presidente del consiglio.
Il dpcm, quindi, deve essere sempre prescitto dalla legge ed alla legge a cui fanno riferimento devono attenersi.
Un’altra importante dei dpcm, infatti, è che, non essendo leggi, non devono essere discusse e votate dal parlamento.
Quindi, il governo ha dovuto presentare al parlamento il decreto legge del 23 febbraio, ma non ha invece dovuto discutere e decidere insieme al parlamento tutte le “ulteriori misure successive” previste ma non chiarite dall’articolo 3 del decreto.
Ha deciso queste misure in maniera oggettivamente antidemocratica, a prescindere dal giudizio di costituzionalità o meno del suo operato.
Queste misure successive, infatti, sono state approvate a scatola chiusa con l’approvazione del decreto e proprio su questo molti sollevano dubbi di costituzionalità: può un dpcm, anziché limitarsi all’attuazione di una legge, intervenire direttamente sui diritti garantiti dalla Costituzione, senza che queste limitazioni siano esplicitamente chiarite quanto meno nel decreto legge a cui fa riferimento?
In secondo luogo, l’eventuale ampiezza interpretativa con la quale questi dpcm hanno permesso al governo di intervenire, non aggirerebbe così anche la caratteristica della temporaneità dei decreti legge, lasciando al governo una delega in bianco sulla gestione dell’emergenza e impedendo al parlamento di esprimersi?
Se tutto questo sia costituzionale o meno lo deciderà, eventualmente, se chiamata in causa, l’interpretazione della Corte costituzionale.