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Ho continuato a collaborare con altri quotidiani locali e periodici, con retribuzioni occasionali e minime o, in molti casi, gratuitamente. La storia era sempre la stessa: “in cambio ti aiuteremo ad avere le carte in regola per ottenere il tesserino”. Tradotto: “emetteremo fatture false e, in cambio della tua collaborazione gratuita, sarai giornalista” (se manterranno la promessa – quindi, non nel mio caso – o non spunterà qualche altro ostacolo burocratico).
Mi sono guardato intorno: la situazione era simile per tutti: è così che ho iniziato a capire che qualcosa nel giornalismo non funzionava e ho fatto per conto mio.
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Perché lo racconto?
Perché è un problema sistemico e porta dritto, non solo alla scomparsa di una professione essenziale, ma al disastro attuale dell’informazione e, quindi, ad una forte distorsione della democrazia.
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IL GIORNALISMO MUORE DI PRECARIATO

Nel ’75 gli iscritti all’ordine erano il 304% in meno (13.237 professionisti e 6.694 pubblicisti) e i pubblicisti erano molti meno (il 48% contro il 67% di oggi).
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Cosa vuol dire? Che il settore si sta precarizzando sempre di più.
Anche perché la tendenza rilevata è solo la punta dell’iceberg.
Oltre ai tantissimi collaboratori non iscritti o non risultanti dall’albo, questo conteggio esclude infatti anche le ormai numerosissime fonti di informazione non giornalistiche (come la nostra) che, grazie al web, non incontrano limiti geografici di distribuzione ed entrano tutte nel mercato unico del web, con un limite tutt’al più linguistico e condizioni ancora più precarie.
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Altri dati interessanti emergono dall’inchiesta: degli oltre centomila iscritti, soltanto 35.619 giornalisti (dipendenti, collaboratori o freelance) risultavano effettivamente attivi, da una stima effettuata sugli appena 59.017 iscritti alla previdenza sociale dei giornalisti (poco più del 50% del totale). Un dato che, se consideriamo la valanga di informazioni che riceviamo quotidianamente, rivela appunto l’enorme tasso di precarizzazione e amatorialità a cui gli sviluppi del mercato hanno costretto questo settore. Del resto, a conferma di questa tendenza, possiamo osservare che, tra i giornalisti attivi, 7.565 erano i pensionati e ben 23.547 coloro che non avevano percepito redditi riconducibili allo svolgimento dell’attività giornalistica; molti altri (7.008) percepivano ammortizzatori sociali di vario genere.
Dei circa 35mila attivi citati, solo 9.572 risultavano infatti iscritti alla Gestione principale Inpgi e ben 13.112 alla Gestione separata, dedicata a quanti non svolgono la professione con “abitualità” e non sono quindi dipendenti.
Solo il 27% di questo sottoinsieme di un sottoinsieme degli iscritti totali all’ordine – che ribadiamo non rappresenta peraltro tutti coloro che producono informazione – è composto da giornalisti dipendenti. Tutti gli altri sono “autonomi” o collaboratori non dipendenti.
Tra i giornalisti attivi, appena il 34% aveva meno di 40 anni (percentuale in calo), mentre era in crescita la percentuale di ultra-cinquantenni.
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Chi svolge regolarmente la professione va diminuendo.
Perciò, anche tra i giornalisti attivi, oltre il 40% percepiva meno di 5.000 euro: si trattava del 47% di chi aveva tra i 31 e i 40 anni e del 59% di chi aveva meno di 30 anni, ma è comunque singolare notare che rappresentava la percentuale più alta per qualunque fascia d’età.
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POCHI “PRIVILEGIATI” E UNA PLETORA DI SCRIVANI A BASSO COSTO

A guadagnare più di 20mila euro l’anno, infatti, sono per l’80% i pochi giornalisti dipendenti rimasti ed appena il 23% degli autonomi (17% dei parasubordinati).
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Ed è subito spiegato perché: il 13% dei dipendenti occupava posizioni di vertice ed il 45% posizioni medio-alte, tutti gli altri sono redattori “meno esperti” e qualche collaboratore fisso.
Insomma, una casta di pochi eletti ben pagati dirige l’informazione italiana, circondata da pochissimi “fortunati” e, soprattutto, da pletora di scrivani precari che hanno progressivamente sostituito i dipendenti a basso costo o a costo zero.
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COME SI E’ ARRIVATI A QUESTO?
Esiste un eccesso oggettivo di offerta, ovvero un eccesso di “manodopera”, per cui tanta gente è disposta a lavorare gratuitamente o quasi per rincorrere il sogno di svolgere un giorno questa professione e – come nel mio caso -, se non può è costretto a far da sé o abbandonare.
Ma questa non è ancora la causa della precarizzazione, semmai la conseguenza.
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Lo Stato avrebbe dovuto legiferare e regolamentare (contratti e pagamenti) e non lo ha fatto, l’Ordine avrebbe dovuto controllare con serietà e non lo ha fatto. Ma non è tutto qui: a questo si sono aggiunti un insieme di fattori, favoriti dallo sviluppo del settore telecomunicazioni.
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Prima c’è stato l’ampliamento del mercato dell’informazione cartacea, dovuto all’abbassamento dei costi e alle sovvenzioni e quindi l’aumento della competizione sul mercato che, nel tempo, ha costretto gli editori più interessati al profitto (oppure obbligati a sopravvivere) a commercializzare sempre di più il prodotto: il risultato è stato un abbassamento della selezione all’ingresso e, quindi, della qualità dell’informazione. Altro esempio: quando la Rai era la Rai ed era monopolista delle trasmissioni televisive, poteva anche permettersi ipoteticamente di mandare in onda programmi di formazione raggiungendo un pubblico relativamente ampio, non avendo concorrenza. Oggi la competizione è alta e i programmi commerciali fanno certamente più ascolto rispetto a programmi d’approfondimento, per i quali esistono quindi canali o fasce orarie specifiche.
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L’aumento di volume della produzione televisiva ha così abbassato il livello della tv commerciale e alzato il livello della tv documentaristica, ma ha nello stesso tempo impedito che quest’ultima raggiungesse tutto il pubblico che, potenzialmente, oggi sarebbe possibile raggiungere con il mezzo televisivo.
Nell’informazione cartacea è avvenuta la stessa cosa. La cosiddetta informazione main stream è appunto l’informazione generalista: di tutto un po’.
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UN CITTADINO MAL INFORMATO NON VOTA CONSAPEVOLMENTE

In una democrazia rappresentativa, solo un voto consapevole permette di esercitare la sovranità consapevolmente, senza cioè votare sulla base di informazioni errate o fuorvianti; in altre parole, senza che l’informazione sia distorta (per ragioni legate alle influenze politiche o ideologiche degli editori) o incompleta (per ragioni legate alla qualità e alla commercializzazione dell’informazione stessa).
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Non a caso, una delle battaglie del Movimento 5 Stelle – forse ora un po’ abbandonata – era la trasparenza nell’amministrazione dello Stato che, in poche parole, significa fare leggi che risultino “comprensibili” al grande pubblico e una comunicazione vera sulle questioni sul tavolo, il ventaglio di strumenti a disposizione e quelli adottati. In parole povere: spiegare alla gente non solo di cosa si discute, ma anche, dettagliatamente, di cosa si tratta e quali sono le opzioni.
Come l’alfabetizzazione di base è stata fondamentale per la democrazia ed il suo tetto minimo si è progressivamente innalzato, così, in un’epoca in cui le decisioni si fanno sempre più tecniche, una diffusione capillare e non superficiale dell’informazione relativa alle questioni pubbliche è l’unico strumento perché la democrazia sia reale e non rappresentazione elettorale.
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Ora, se lo Stato in questo senso continua ad essere carente, le questioni pubbliche, nel frattempo allontanatesi anche dalla dimensione statale, sono ancor più di prima riservate agli addetti ai lavori e, per forza di cose, sono oggetto del filtro della propaganda (come avvunto sulla questione Mes), del giornalismo e del sempre più variegato mondo dell’informazione.
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L’INFORMAZIONE ONLINE HA DATO IL COLPO DI GRAZIA ALLA QUALITA’
L’entrata in campo dell’informazione online, infatti, ha in questo senso peggiorato la situazione. Nonostante il cartaceo sia conseguentemente entrato in crisi, più di prima il volume di notizie è cresciuto vertiginosamente, aggravando tantissimo la situazione di precarietà di cui sopra.
Perché? Ovviamente perché l’online praticamente non conosce limiti fisici di contenuto ed ha costi di produzione molto bassi: non c’è il costo della carta, della stampa, della distribuzione, etc., i costi fissi sono minimi ed il costo del lavoro, nonostante l’aumento dell’offerta di manodopera ed un ulteriore aumento del mercato, è spinto al ribasso da una competizione allargata e di bassa qualità, con una manodopera da pescare ormai anche nell’ambito degli amatori e che si è, quindi, ampliata parallelamente, potenzialmente all’infinito.
Pochi costi, pochi ricavi, basse retribuzioni.
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E’ l’informazione partecipata, nella quale chiunque diventa protagonista dell’informazione e fautore di informazione.
Anche perché l’informazione digitale ha introdotto un’altra novità: l’informazione in tempo reale, un tempo prerogativa soltanto della tv e comunque limitata da mezzi e da costi più alti.
Moltiplicatasi nelle sue potenzialità, con lo sviluppo di internet e social network, l’informazione digitale ha imposto una informazione lampo, sempre più cronaca e sempre meno approfondimento, a danno della qualità media dell’informazione.
Per questo tipo di informazione, caratterizzata dalle basse pretese e dalle basse aspettative del pubblico, non c’è bisogno di grandi doti professionali.
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La notizia di internet è rigorosamente breve e quanto più anticipa la concorrenza, tanto più funziona. Il pubblico è un pubblico più ampio di quello che era precedentemente il pubblico dell’informazione ed ora mira a tanta gente che magari, in assenza di internet, non avrebbe comprato il giornale per informarsi, ma è fruitore di una informazione gratuita, che per di più si adatta ai suoi gusti: più click fai meglio è, quindi più roba metti dentro e meglio è, così l’informazione diventa quasi on-demand e per fare numeri (e sponsor) deve raggiungere più persone possibili. I contenuti passano così in secondo piano. Il fatto che il pubblico sia per la maggiore un pubblico non specifico di lettori ha spinto quindi l’informazione verso un abbassamento medio del livello di approfondimento, delegato invece alle nicchie di interesse, che interessano sponsor di nicchia e quindi attirano meno investimenti.
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Il risultato è stato quindi una sovrainformazione svuotata di contenuti, fatta di infinite ribattute di agenzia, articoli su altri articoli, cronaca (anche politica) spicciola, opinioni, dichiarazioni e poca sostanza, senza parlare dei tantissimi veri e propri articoli spazzatura.
I fatti realmente importanti e il loro approfondimento, teoricamente l’oggetto dell’informazione, sono quindi passati in secondo piano, sommersi dal rumorio di fondo dell’inutilità.
L’informazione destrutturata e flash non ha apportato alcun vantaggio al dibattito politico e, quindi, al pluralismo, anzi, si è trasformato in un circolo vizioso capace di peggiorare anche la scena politica e la sua rappresentazione, con messinscene, rincorse al click, dirette dalla spiaggia e polemiche social che sanno di chiacchiericcio sterile.
Del compito nobile di informare per nutrire la consapevolezza popolare e, quindi, la democrazia, è rimasto poco nulla.
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LASCIAR FARE AL MERCATO, ANCHE IN QUESTO CASO, NON HA FUNZIONATO

E nel mondo dell’informazione, sobrietà e qualità vanno a braccetto: parlare quando hai davvero qualcosa da dire o da raccontare, invece che parlare a tutti i costi.
Il problema dell’informazione online è che (al momento) non è relativamente poco colpito del principio dell’economia classica delle risorse scarse: non avendo quasi costi fissi, il costo marginale di produrre una unità in più di prodotto è bassissimo e, quindi, produce senza sosta.
E alla concorrenza non resta che fare lo stesso.
Il capitalismo tende a dare un risultato opposto della sobrietà, non tanto per una sua malvagità intrinseca, quanto per un rifiuto delle istituzioni preposte a dettare regole adatte a limitare gli effetti devastanti di questa tendenza sul sistema economico e, nel nostro caso, sull’informazione.
Fino a trasformare un modello di crescita, fondato sul sacro principio della libertà di iniziativa, in una giungla senza regole.
Regole che andrebbero però poste prima e non dopo, con l’effetto devastante di creare un deserto laddove prima era “vita”.
Seppur questa vita è un mercato delle vacche, in cui anche chi ha passione e competenza, non può svolgere la sua professione con le dovute garanzie di stabilità, crescita, formazione e indipendenza e, al tempo stesso, anche chi vuole lavorare per conto proprio, grazie ai vantaggi di internet, non è tutelato dalla concorrenza amatoriale.
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QUALI SOLUZIONI?
Ora, non si può pensare di risolvere problemi nuovi con soluzioni vecchie.
L’informazione digitale ha dato enormi vantaggi in termini di libertà d’espressione e, d’altra parte, ancor di più oggi, riservare la diffusione dell’informazione soltanto alle testate giornalistiche registrate sarebbe l’ecatombe della rete libera ed un inaccettabile atto di censura di massa.
D’altra parte, oggi chiunque, con un profilo social, può fare informazione: vietarlo sarebbe ridicolo.
Cosa fare dunque? E’ inevitabile che regolamentare voglia dire censurare?
E soprattutto: è possibile salvare la professione del giornalista?
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Non si può mai salvare qualcosa ritornando al passato: le regole devono essere superate e non restaurate, perché nel frattempo il mondo è cambiato.
Internet è un fatto e con esso la rivoluzione della comunicazione.
Al contrario delle altre professioni, la professione di giornalista è tutt’uno con la libertà d’espressione e con la democrazia, ecco perché non si può che essere contro una limitazione all’esercizio del diritto all’informazione ai non “professionisti”.
A maggior ragione oggi, laddove il giornalismo professionista è diventato impraticabile e precario ed ha sbarrato la strada a tanti.
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Ecco perché, ad oggi, la soluzione più sensata sarebbe l’abolizione dell’ordine dei giornalisti in quanto tale o, quanto meno, un suo profondo ripensamento a partire dal nome.
Al suo posto, un ente (tipo Camera di Commercio) a cui sarebbe obbligatorio iscriversi, che potrebbe eventualmente rilasciare semplicemente una sorta di attestato per lo svolgimento della professione (quindi con costi diversi se sei autonomo, dipendente o titolare di una società). E ovviamente sarebbe necessario la ridefinizione in sede normativa della professione, peraltro essenziale per evitare il rischio censura e distinguere ciò che è professionismo da ciò che è opinione personale: da ciò la regolarizzazione della posizione di tanti professionisti dell’informazione precari o non riconosciuti, con la parificazione automatica dei giornalisti rispetto a tutti gli altri operatori della comunicazione, la cui distinzione è ormai labile.
Senza voler irrigidere di colpo il mercato, pretendendo posti fissi laddove il mercato allo stato attuale non lo permette, iniziare dallo stop ai contratti dalla retribuzione poco chiara e flessibile, dallo stop ad ogni situazione di ambiguità fiscale e contrattuale e dalle retribuzioni minime.
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Io devo essere libero di aprire un sito web e fare informazione ma lo Stato ha il dovere di garantire che sia tutto in regola, che se qualcuno lavora per me sia regolarmente ed equamente pagato e che, se lo faccio in autonomia, me ne assumo i costi.
Allo stesso tempo, a questa “barriera” all’ingresso, si potrebbe pensare di sommare una “barriera” – tariffaria o pre-stabilita in base agli strumenti utilizzati – mirata a limitare la produzione illimitata, in assenza di costi reali.
Una volta ristabilita una parziale normalità, si potrà pensare, sulla base di un mercato nuovo, a porsi di nuovo l’eventuale obiettivo dell’incremento dei rapporti di lavoro stabili.
Solo così è possibile restituire qualità ad un settore e, con esso, alla sovranità popolare.
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Emmanuel Raffaele Maraziti