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IL GIORNALISMO MUORE DI PRECARIATO

Chiariamolo subito: la lotta al precariato non può essere appiattita sulla noiosa e borghese rincorsa del posto fisso. Benché il dileggio nei confronti della rincorsa ai contratti a tempo indeterminato sia il punto forte della propaganda liberista, la lotta al precariato può e deve essere qualcosa che va oltre, sul quale va impostato un discorso sistemico che non può prescindere dal contesto e dalla discussione sul modello economico. Continua a leggere
Firmata da M.R., ecco un’altra testimonianza per la rubrica #generazioneprecaria.
Sono un rider di Deliveroo e sono stanco della demagogia spicciola su questo lavoro, con tanto di osservazioni compassionevoli su “quei poveri ragazzi che sfrecciano in bici con il vento e con la pioggia“, come se poi fossimo gli unici (poveri postini!), come se fossimo obbligati a lavorare anche con la pioggia o a “sfrecciare” e, peraltro, come se andare in bici fosse quasi una sorta di tortura. Ma, naturalmente, non è questo il punto e non vorrei essere frainteso. Continua a leggere
Ci hanno raccontato della flessibilità come una favola. Poi ci hanno detto che era necessaria. Poi ci hanno detto che si erano sbagliati, ma ormai era tardi. Ci hanno detto “flessibilità è bello”, “flessibilità è il futuro”, “flessibilità è moderno”. E ci hanno preso in giro perché volevamo un lavoro vero, stabile, soddisfacente e perché volevamo una vita a misura d’uomo – non appesa ai calcoli su un foglio che misura efficienza e produttività. Perché volevamo una casa, una famiglia. Ci hanno detto che quello è il passato. E poi non hanno capito perché in tanti si sono suicidati. Perché in tanti non ce l’hanno fatta. Li hanno chiamati deboli, vigliacchi, perdenti. Gli hanno costruito un mondo senza senso e poi li hanno rimproverati perché non hanno trovato un senso per andare avanti. Hanno tolto la dignità ad un padre di famiglia con la loro usura e non gli hanno chiesto scusa quando ha deciso di smettere di vivere per ripagare delinquenti in giacca e cravatta.
Ho trentun’anni. Sono calabrese. Sono il primo di quattro figli e, quando ero poco più che un bambino, mio padre mi portava con lui a lavorare o a guardarlo lavorare. Oggi è politicamente scorretto. Oggi non si fa. Ma è così che mi ha insegnato a sporcarmi le mani, a rispettare chi lavora, ad essere umile. E quella umiltà forse l’ho pagata, perché non ho mai preteso niente. Finché ho capito: ci stavano prendendo in giro. Mi offrivano flessibilità, zero sicurezze, zero prospettive.
L’ho vissuta fino in fondo la precarietà. Non ho ancora capito le scelte che ho fatto e quelle che, in fondo, mi ha imposto la realtà.
Hanno anche imparato a confonderti, a farti sentire in colpa.
So solo che, ad un certo punto, mi ci sono abituato. E ho iniziato a giocarci. A vedere fin dove si può arrivare.
E, come tanti, sono emigrato: a Roma, a Milano, in Inghilterra, in Spagna.
A un certo punto mi sono accorto che avrei potuto finire a lavorare ovunque.
Se nessun posto è casa, qualunque posto può andar bene.
Poi ho capito che era una bugia anche questa. E che sembrava tutto facile ma non mi stavo divertendo. Mi ero solo assuefatto. Continua a leggere
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