Precariato? La soluzione non è certo stabilizzare i ciclofattorini

Risultati immagini per deliverooFirmata da M.R., ecco un’altra testimonianza per la rubrica #generazioneprecaria.

Sono un rider di Deliveroo e sono stanco della demagogia spicciola su questo lavoro, con tanto di osservazioni compassionevoli su “quei poveri ragazzi che sfrecciano in bici con il vento e con la pioggia“, come se poi fossimo gli unici (poveri postini!), come se fossimo obbligati a lavorare anche con la pioggia o a “sfrecciare” e, peraltro, come se andare in bici fosse quasi una sorta di tortura. Ma, naturalmente, non è questo il punto e non vorrei essere frainteso.

Si, anche io sono convinto che la questione “lavoro” debba essere affrontata in maniera strutturale, che i rapporti vadano invertiti dando la priorità ai lavoratori piuttosto che ai “padroni”, che la precarietà è una piaga sociale e non escludo il fatto che persino la concezione di proprietà possa essere intaccata da questa “sovversione” dei rapporti. Ma, proprio il rispetto che ho per chi si sporca le mani, mi costringe a dire due parole contro la facile demagogia.

Sono ciclo-fattorino per Deliveroo dal settembre 2017. Nell’attesa di trovare di meglio, questo lavoro mi ha dato la tranquillità e flessibilità necessaria alla ricerca e, oggi che un lavoro ce l’ho, mi permette di arrotondare comodamente. Se avessi potuto farlo durante gli anni dell’università avrei pesato meno sulle tasche dei miei genitori, senza togliere tempo allo studio.

Nei primi mesi, con circa cento ore al mese di lavoro ho portato a casa intorno agli 800 euro. Cento ore, praticamente un part-time, poche ore al giorno, solitamente di sera e con il vantaggio di scegliere quanto e quando lavorare, con il vantaggio di poter rinviare o annullare l’impegno praticamente in ogni momento, libero di seguire il mio ritmo, senza nessun capo nervoso addosso, senza nessuno lì a dirmi “ora niente pausa”.
Dopo di che, ho continuato ad approfittare dell’estrema flessibilità dei “rider” a mio vantaggio e vi garantisco che non è poi così male andare qualche ora a settimana in bici, in cambio di una paga che non è da buttare: 270 euro nette per venti ore di lavoro in un mese (raggiunti a marzo grazie ai diversi bonus che l’azienda propone) non mi sembrano niente male e non mi sembra proprio si possano definire sfruttamento.

Fin dall’inizio, nessuno mi ha illuso circa la possibilità di un impiego vero e proprio, la flessibilità della richiesta è stata chiarita più volte, così come l’estrema libertà di scelta da parte mia e la natura della collaborazione, con un ruolo evidentemente da esterno. Il contratto che ho firmato, infatti, è un contratto da lavoratore autonomo occasionale, una fattispecie ben diversa dal lavoro subordinato ma anche dal lavoro autonomo, assimilabile al lavoro accessorio. A differenza del lavoro dipendente, questa fattispecie non prevede alcun vincolo di subordinazione e, a differenza del lavoro autonomo vero e proprio, è priva del requisito dell’organizzazione e della professionalità. Tutte condizioni che rispecchiano ampiamente la realtà.

Insomma, non è vero che siamo equiparati ai professionisti e no, non siamo assolutamente assimilabili ai lavoratori dipendenti. C’è chi lavora molto, anche tutto il giorno, per sua scelta o esigenza, ma le condizioni non cambiano. Del resto, avendo lavorato per sei mesi in un call center con un contratto simile, come migliaia di miei coetanei senza nessuna garanzia contrattuale e senza diritti, posso dirvi che, in quel caso, era molto evidente che avessimo degli obblighi, dei vincoli gerarchici e che fossimo in realtà trattati da lavoratori subordinati.

Un contesto del tutto diverso quello che, invece, ho sperimentato a Deliveroo, dove – come ogni autonomo – ho maggiori possibilità di lavorare anche sulla base della mia affidabilità statistica, ma non ho dovuto mai far fronte a imposizioni, richiami e obblighi assimilabili al lavoro dipendente. Andate a chiedere ai ragazzi che hanno fatto l’esperienza dei call center se possono dirvi altrettanto, soprattutto per quanto riguarda richiami e pressioni da parte dei “team leader”, andate a chiedergli se potevano rifiutare le chiamate che ricevevano, se potevano prendersi una pausa a loro piacimento, se erano organizzati come autonomi o come dipendenti, se i loro orari potevano sceglierseli tanto liberamente come facciamo noi riders.

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La protesta di alcuni rider presso la sede di Milano

La paga oraria? Fino a un paio di mesi fa, ricevevo 7,00 euro lordi all’ora più 1,50 euro per ogni consegna fatta. Al netto delle tasse versate (pari al 20%), si tratta di 5 euro l’ora e 1,20 a consegna. Con due o tre consegne l’ora (quando sei fortunato con le distanze e sai le strade, ne fai anche 4 magari o addirittura 5), arrivi come minimo a 8 euro l’ora netti. Senza contare i bonus-premio legati al numero di consegne almeno un paio di volte al mese. Finora, tutto senza mai un ritardo. Tutto puntuale, semplice, regolare, efficace.
Col nuovo anno, i nuovi entrati sono pagati a consegna, mentre ai “vecchi” è stata data la possibilità di scegliere fino a giugno se mantenere il vecchio contratto o provare il nuovo, anche solo temporaneamente. Chiaramente, l’adozione del nuovo metodo di pagamento – più conveniente per l’azienda – è stata incentivata anche economicamente, ma non imposta, anche se è facile credere che la compagnia tenda a sfavorire le collaborazioni con il vecchio metodo.
E così ora il pagamento è pari a 5 euro lorde a consegna ma, nella sostanza, poco è cambiato per chi effettua un numero di consegne medio-basse, salvo la possibilità di guadagnare di più con un alto numero di consegne.
Perché la variazione? Chiaramente per adeguarsi ancora di più alla flessibilità della richiesta del servizio da parte della clientela, ma anche perché molti rider pagati all’ora, proprio per questo motivo rifiutare molto più facilmente gli ordini assegnati – pagati dunque per far nulla – o non svolgevano del tutto correttamente la propria mansione (prolungando ad esempio in maniera fittizia il tempo dell’ultima consegna per prolungare il tempo retribuito).
Quanto alla “subordinazione”, anche il nuovo metodo di prenotazione delle sessioni va nella direzione di una maggiore libertà e minore coordinamento.

Dunque, le principali obiezioni mosse – lo sfruttamento del lavoro e il lavoro subordinato camuffato da lavoro autonomo – sono in gran parte delle bufale. 

Anche la lotta alla precarizzazione del lavoro, del resto, va compresa nella sua funzione, per non confonderla con una concezione asfissiante dell’economia e del mondo. Il problema della flessibilità è nella ricattabilità esistenziale e sistematica del lavoratore, nelle prospettive incerte, oltre che nel mancato rispetto delle condizioni contrattuali. Ciò non vuol dire che si possa pensare un mondo del lavoro privo di ogni forma di lavoro accessorio e non fisso (ciò che d’altronde la legge non fa). Che la flessibilità non debba essere strutturale ma marginale, appunto per non creare una generazione precaria, non significa che non debba esistere completamente. Anzi, è vitale che esista e che svolga la sua funzione in maniera riconoscibile, limitata, regolamentata e controllata.

Ha poco senso pensare che il problema della precarietà oggi sia costituito dai ciclo-fattorini di Deliveroo, di Foodora, di Glovo o di Uber, fatto salvo la possibilità di intervenire legalmente – invece di fare chiacchiere – sulle retribuzioni orarie o delle prestazione minime. Il vero dramma sociale è, infatti, la precarizzazione strutturale di quelle mansioni che dovrebbero per loro natura garantire stabilità e che possono legittimamente creare l’aspettativa di una carriera o, perlomeno, di un lavoro vero. Che molti facciano i rider come primo lavoro per mancanza di alternative è un problema, ma la soluzione non è certo inventarsi la stabilità dove non può esistere, non è certo imporre una burocratizzazione impossibile che porterebbe tutti a chiudere i battenti (altro che monte ore garantito e diritti sociali). Siamo davvero messi male se pensiamo di pagare le pensioni ai giovani mettendoli in sella ad una bicicletta con uno zaino per portare le pizze. Quello che dovrebbe preoccuparci sono i lavoratori che vengono presi in giro o ricattati, sfruttati col miraggio di un contratto indeterminato o di un prolungamento, anziché pensare di creare posti di lavoro trasformando un “lavoretto” per ragazzi in una occupazione vera e propria. Quello si sarebbe un disastro sociale.

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