Poste, al via (a rilento) le assunzioni ma il precariato resta la regola

In Poste Italiane, dagli inizio Novanta, sono andati in pensione circa 90mila lavoratori. Ma, a fine anni Novanta, la politica aziendale di quello che era ancora l’ennesimo ente pubblico inefficiente utilizzato dalla politica per smistare favori vide, insieme alla privatizzazione, una obbligatoria svolta e, così, anche il taglio di circa 20mila posti in quattro anni. Per rimpiazzare almeno parzialmente il personale carente si cominciò così ad assumere decine di migliaia di giovani precari con contratti a tempo determinato. A parte la cosiddetta sanatoria del 2006, a cui si arrivò per siglare la pace con i numerosissimi “ricorsisti” e che portò ad un accordo per l’assunzione di 13mila persone e la creazione di una graduatoria per altre 17mila persone nel settore del recapito, le assunzioni divennero un miraggio.

Di recente, però, l’azienda, a seguito del pressing governativo, ha finalmente annunciato migliaia di assunzioni tra 2018 e 2020. Una buona notizia se non fosse che Poste Italiane non ha mai smesso di utilizzare il precariato come porta d’ingresso principale, assumendo e continuando ancora ad assumere senza sosta portalettere con contratti a scadenza sempre più breve. Un mese, due mesi, tre mesi fino ad arrivare ad un massimo di tre anni e, ora, con l’introduzione del “decreto Dignità” da parte del governo Conte, di due anni. Poi tutti a casa. Va da sé, quindi, che le stabilizzazioni rappresentano una porzione di gran lunga minoritaria di tutte le persone lasciate a casa, alcuni nella vana attesa di una graduatoria, alcuni arrivati troppo tardi. Il tutto mentre altri 5mila lavoratori circa sarebbero in attesa di trasferimento, continuando a lavorare a migliaia di chilometri da casa, nonostante per coprire i posti richiesti siano magari necessari altri precari.

 La stabilità, insomma, non sembra sia mai diventata la strada maestra, nonostante la nuova gestione aziendale abbia fatto registrare profitti crescenti, l’introduzione di nuovi servizi e un parziale ammodernamento dell’azienda ancora in corso. Nel report relativo ai primi nove mesi del 2018, ad esempio, l’utile  netto del gruppo è stato pari a € 1.056mln per i primi 9 mesi del 2018, facendo registrare un + 45.9% rispetto ai primi 9 mesi del 2017.

CHE VUOL DIRE TUTTO QUESTO?

Vuol dire, in una visione complessiva, che la cattiva gestione di Poste da parte di un sistema partitico parassitario ha giustificato politicamente la “privatizzazione” (i soldi sono sempre pubblici), come da manuale liberista.
Vuol dire che la privatizzazione ha fatto bene ai conti ma ha creato un sistema che, giusto o meno che sia dal punto di vista delle necessità aziendali, è intollerabile dal punto di vista del lavoro. E vuol dire, per essere ancora più chiari, che l’azienda (fortunatamente) si è salvata, che il capitale è stato messo al sicuro ma a farne le spese e ad essere spremuto fino all’ultima goccia è stato, come al solito, il lavoro. 
Innanzitutto, il precariato non ha favorito condizioni di lavoro ottimali dal punto di vista organizzativo e qualitativo. Come dimostrano i numeri, infatti, le conseguenze di questa situazione sono ricadute soltanto sui portalettere, che hanno dovuto affrontare carichi maggiori (a volte anche in termini orari), carenze di personale  a fronte di una riorganizzazione insufficiente, innovazioni a volte non perfettamente implementate, lentezze, scarsa sicurezza ed una pressione crescente. Se si considerano i disservizi persistenti nel recapito, è chiaro che dietro quei numeri si nasconde un costo altissimo pagato dai dipendenti in termini di benessere lavorativo.
In secondo luogo, si è creata una situazione interna in cui da una parte ci sono i “privilegiati” con contratto a tempo indeterminato e spesso le vecchie cattivi abitudini del “posto fisso”; mentre dall’altra ci sono migliaia di precari i cui diritti restano sulla carta.
Due categorie che, sia chiaro, sono diretta conseguenza delle policy aziendali.
Sta di fatto che, se i primi, sindacalizzati e “protetti”, vivono di una sorta di rendita di posizione e continuano ad essere intoccabili, i diritti di tutti gli altri si scontrano con la realtà di attese continue per un rinnovo che – in caso di richieste sgradite, proteste, lamentele, malattie o altro – potrebbe non arrivare.

Di certo, la questione precariato non è un problema soltanto di Poste Italiane, tutt’altro. Il caso specifico, però, lascia di stucco visto che si gioca con le vite dei lavoratori e lo si fa con soldi pubblici. Le assunzioni promesse sono di certo una buona notizia, ma la notizia che ancora aspettiamo è lo stop definitivo alla precarizzazione sistematica del lavoro.

 

Emmanuel Raffaele Maraziti

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