«La disassuefazione dallo sviluppo sarà dolorosa. Lo sarà per la generazione di passaggio, e soprattutto per i più intossicati dei suoi membri. Possa il ricordo di tali sofferenze preservare dai nostri errori le generazioni future».
Così, apocalitticamente, Ivan Illich. Corrono gli anni settanta quando scrive ‘La Convivialità’, testo non conforme, critico ed un po’ estremista, nel senso più positivo possibile del termine.
Conviviale è una società libera – per andare dritto al cuore del suo discorso – dal monopolio radicale.
«Il mondo moderno è talmente artificiale, alienato, arcano, che trascende le capacità dell’uomo comune […]. Sostituire la sveglia meccanica dell’educazione al risveglio del sapere significa soffocare nell’uomo il poeta, gelare il suo potere di dare senso al mondo. Non appena separato dalla natura, privato di lavoro creativo, mutilato nella curiosità, l’uomo perde le sue radici, è paralizzato, appassisce. Sovradeterminare l’ambiente fisico significa renderlo fisiologicamente ostile. Annegare l’uomo nel benessere significa incatenarlo al monopolio radicale […]. Invischiato nella sua felicità climatizzata, l’uomo è castrato: gli resta solo la rabbia, che lo porta ad uccidere oppure a uccidersi».
Animo anarchico, tra i primi assertori dell’ecologismo, idealmente non senza macchia (egualitarista e, contro il boom demografico, per il controllo delle nascite), Illich porta avanti un ragionamento economico – contestando alla radice il modo di produzione industriale – ma con approccio multidimensionale, poiché multidimensionale è l’equilibrio che è obiettivo della sua ricerca.
Catene. Nessuna parola rende meglio l’idea del monopolio radicale su cui si concentra l’analisi dello scrittore austriaco: «la società, una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa, produce la propria distruzione». Non si tratta soltanto di ragioni ecologiche: «l’uomo che trova la propria gioia nell’impiego dello strumento conviviale lo chiamo austero […]. Per Aristotele come per Tommaso d’Aquino, è il fondamento dell’amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l’austerità come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali». Ecco disegnato l’uomo post-industriale nel discorso per nulla deterministico di Illich.
Ma torniamo al cuore del discorso: «la produzione sovrefficiente dà luogo a monopolio radicale […]. Con questo termine io intendo non il dominio di una marca ma la necessità industrialmente creata di servirsi di un tipo di prodotto. Si ha monopolio radicale quando un processo di produzione industriale esercita un controllo esclusivo sul soddisfacimento di un bisogno pressante, escludendo ogni possibilità di ricorrere, a tal fine, ad attività non industriali». Un discorso che trova la sua declinazione in tutte le branche dell’industrializzazione, e principalmente in quella dei servizi: il consumo non è una scelta ma un’imposizione.
Si può rinunciare al Mc Donald, non si può rinunciare al cibo industriale, che ha messo fuori mercato l’autoproduzione; si può rinunciare all’auto costosa, non si può rinunciare ad un veicolo a motore; si può rinunciare all’iPhone, non si può rinunciare ad essere reperibili. Tutto ciò, a patto di voler vivere in società. Del resto, «quando il monopolio radicale viene scoperto, in genere è troppo tardi per liberarsene in modo economico».
La sensazione di benessere muta, perché si ampia il divario tra ciò che si potrebbe avere e ciò che invece ha la maggioranza. «La povertà si modernizza: la sua soglia monetaria si eleva perché nuovi prodotti industriale si presentano come beni di prima necessità, restando tuttavia inaccessibili ai più. Nel terzo mondo, grazie alla ‘rivoluzione verde’, il contadino povero è espulso dalla sua terra. Come salariato agricolo guadagna di più, ma i suoi bambini non mangiano più come una volta. Il cittadino americano che guadagna dieci volte di più del salariato agricolo è anche lui disperatamente povero. Entrambi pagano sempre più caro un crescente ‘essermeno’».
Un crescendo di illusioni, che creano bisogni crescenti ed alimentano un consumo forzoso, che annienta la dignità dell’uomo rendendolo dipendente perfino dal consumo di servizi: «la popolazione dell’occidente ha imparato a sentirsi malata e a farsi curare conformemente alle categorie di moda nell’ambiente medico [..]. La salute è divenuta così una merce in un’economia di sviluppo». E con ragioni forse non troppo fondate: «la riduzione a volte spettacolare della morbilità e della mortalità all’inizio del processo di industrializzazione di un paese è dovuta soprattutto alle modificazioni dell’habitat e del regime alimentare e all’adozione di elementari misure d’igiene» in maniera «assai maggiore dei complessi ‘metodi’ di cure specialistiche». Tant’è che, spiega Illich: «nel 1972 il sottosegretario alla Sanità degli Stati Uniti d’America poteva affermare che quattro quinti della spesa federale servivano o ad accrescere la sofferenza o a curare malattie che non sarebbero insorte senza un precedente intervento medico […]. Giunti a questa seconda soglia, è la vita che appare malata, in un ambiente deleterio».
Per non parlare dei trasporti. «L’americano tipo dedica più di 1500 ore l’anno alla sua automobile […]. A questo americano occorrono dunque 1500 ore per percorrere 10000 chilometri di strada: 6 chilometri gli prendono più di un’ora». «L’industria dei trasporti genera scarsità di tempo». Eppure non se ne può fare a meno. «Che la gente sia obbligata a farsi trasportare e divenga incapace di circolare senza motore, questo è monopolio radicale».
Ed infine il caso principe: la formazione ed il sapere, monopolizzati da un insegnamento centralistico che comporta «segregazione dei non scolarizzati, accentramento degli strumenti del sapere sotto il controllo degli insegnanti». Marca le differenze Illich: «lo strumento conviviale favorisce la scoperta personale, quello industriale alimenta l’insegnamento». E poi evidenzia: «ovunque il tasso di aumento del costo della formazione è superiore a quello del prodotto globale».
Per sottolineare infine l’impatto reazionario ed omologante della scuola moderna: «che cosa si impara a scuola? Si impara che più ore vi si passano, più aumenta il proprio prezzo sul mercato. Si impara a valorizzare il consumo scaglionato di programmi. Si impara che tutto ciò che è prodotto da un’istituzione dominante vale e costa caro […]. Si impara a valorizzare l’avanzamento gerarchico, la sottomissione e la passività, e persino la devianza tipo che il maestro ama interpretare come sintomo di creatività. Si impara a brigare senza indisciplina i favori del burocrate che presiede alle sedute quotidiane, il professore a scuola, il capo in fabbrica […]. Si impara ad accettare senza mugugni il proprio posto nella società».
Si impara, insomma, ad abbassare la testa, ammettendo la propria ineluttabile condizione di schiavitù verso il sistema.
Emmanuel Raffaele, “Il Borghese”, dicembre 2011