Ripeti una menzogna con costanza, qualcuno lo convincerai. E’ così che diventa semplice anche far passare l’idea, ad esempio, che l’Italia, paese ancorato allo jus sanguinis, sia dunque arretrato e non al passo coi tempi come gli altri paesi. E se Sartori osa bacchettare (più o meno giustamente) la Kyenge, ecco che il Corriere gli fa saltare l’editoriale ed il benpensante per antonomasia Gad Lerner si risente e lo invita a non «svillaneggiare».
Peccato che i dati dicano tutt’altro.
Infatti, da una classificazione [1] della legislazione in materia di cittadinanza in centosessantadue paesi [2], effettuata da Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi dell’Università di Modena, emerge che dal 1948 al 2001 i rapporti di forza tra jus soli e jus sanguinis su scala globale siano stati letteralmente inverti in favore di quest’ultimo: se nel 1948 soltanto 67 paesi adottavano lo jus sanguinis e ben 76 lo jus soli, nel 2001 soltanto 39 paesi che sceglievano lo jus soli, a fronte di ben 88 paesi che preferivano lo jus sanguinis.
In breve, in poco più di mezzo secolo lo jus sanguinis si è consolidato a scapito dello ius soli, al contrario di quello che si potrebbe credere (e che ci vogliono far credere).
Nel quadro, che pure linguisticamente risente dell’impronta favorevole allo jus soli degli autori della ricerca, si sottolinea dunque come la tendenza sia tutt’altro che rivolta verso la cittadinanza facile che invece ci vogliono propinare il ministro dell’Integrazione, il governo Letta e, pare (stando alle dichiarazioni di Zaia), ormai anche la Lega Nord.
Non siamo così poco al passo coi tempi, dopo tutto. Ed un motivo ci sarà.
Detto questo, è la stessa ricerca a minare le fondamenta ideologiche di questa equazione tra jus sanguinis ed arretratezza culturale: «Nell’Europa del diciottesimo secolo – è spiegato nello studio – predomina il criterio dello jus soli, residuo di una tradizione feudale che lega l’individuo alla terra in cui nasce e quindi al rispettivo feudatario. Il primo stacco nei confronti di questa tradizione avviene con la Rivoluzione Francese, che nel Codice Civile del 1804 reintroduce il criterio di derivazione romana dello jus sanguinis».
Sorpresa: lo jus sanguinis è frutto dei “Lumi”, della “modernità” e di quella rivoluzione tanto cara ai democratici. Ed è, soprattutto, la «matrice della legislazione adottata in tutta l’Europa Continentale nel corso del diciannovesimo secolo, con la creazione degli stati nazionali».
Ius soli, dunque, contro gli Stati (la progressiva erosione della sovranità vi dice nulla?). E contro i popoli.
In effetti, benché lo studio affermi che «la dimensione dello stato sociale non sembra costituire un ostacolo alla maggiore inclusione degli immigrati», esso chiarisce anche che «questo risultato in parte inaspettato può essere spiegato dal fatto che, per molti dei paesi dotati di costosi sistemi di sicurezza sociale, si sia contestualmente verificata una stagnazione demografica che ha dunque comportato una tendenza all’inclusione». Ed inoltre aggiunge: «una natura dello stato sociale relativamente leggera, unitamente al fatto che la cittadinanza, se paragonata alla residenza, non conferisce negli Stati Uniti benefici fiscali sostanzialmente più generosi, può inoltre avere facilitato la sostenibilità fiscale dello jus soli».
Dunque, una maggiore inclusività è si un potenziale pericolo reale per lo stato sociale («dato che la cittadinanza può influire sulla capacità di ottenere benefici») ma è “grazie” alla bassa natalità dei cittadini originari che l’immigrazione diventa sostenibile. In pratica, se vogliamo ancora uno stato sociale, o rinunciamo all’immigrazione o rinunciamo una volta per tutti a fare figli.
L’immigrazione per noi è sostenibile, certo, ma a costo di scomparire.
L’unico paese europeo per tradizione ancorato allo jus soli è il Regno Unito. Ebbene, «l’esperienza coloniale influisce profondamente sulla legislazione di questo paese», tanto che, «a seguito degli intensi flussi migratori di provenienza dalle ex-colonie, l’orientamento diventa invece più restrittivo, soprattutto a partire dagli anni ottanta».
Quanto alla Francia, «nel corso del diciannovesimo secolo, vengono recuperati elementi di jus soli a fini militari, onde assoggettare all’obbligo di leva i nati sul suolo francese».
Nel caso della Germania, invece, lo jus soli viene introdotto soltanto a seguito della caduta del Muro di Berlino e della riunificazione di un popolo che ha sempre fatto paura al mondo. Un tentativo di mantenerlo debole, così come era stato deciso sia sul piano militare che economico (con i primi accordi economici europei improntati esattamente al contenimento della potenza tedesca)? Chissà.
E l’Italia? La nostra “arretratezza” consisterebbe nel garantire ai figli di stranieri nati in Italia il diritto al mantenimento della propria cittadinanza fino alla maggiore età, per poi poterla richiedere a condizione di dimostrare di esser realmente cresciuti nel nostro paese (criterio che le ultime proposte legislative minano ad intaccare).
La discussione obiettiva non è tra le maggiori preoccupazioni dei media, altrimenti sarebbe chiaro che, senza il velo del pregiudizio, questa non sarebbe che una norma di buon senso e fondamentalmente rispettosa della cittadinanza straniera. D’altronde, in un esempio ultimamente in voga e che rende bene l’idea, il figlio di un cittadino italiano emigrato in Cina, difficilmente riusciamo a pensarlo come un cinese. Lasciamo almeno che, oltre a nascerci, cresca in Cina e, magari, scelga di essere cinese.
Nello stesso continente del ministro per l’Integrazione Kyenge, d’altronde, «lo jus sanguinis nel 2001 risulta il regime più diffuso, essendo applicato nel 69% dei paesi africani».
E, riprendendo un intervento di Graziella Bertocchi (una delle autrici dello studio) su “La Voce”, poi ripreso da “Il Fatto quotidiano” [3], «già nel 2001, in Europa per la maggioranza dei paesi l’acquisizione della cittadinanza alla nascita risulta regolata da regimi misti: dei 34 paesi rappresentati, solo uno (l’Irlanda) applica ancora lo ius soli incondizionato (abbandonato da tempo dal Regno Unito), mentre 14 applicano lo ius sanguinis e 19 hanno regimi misti. Nella maggioranza dei casi, si tratta però di regimi misti con elementi di ius soli molto tenui (come nel caso della legge italiana del 1992)».
Inoltre, dopo il 2001, «l’Irlanda, con un referendum del 2004, abbandona lo ius soli incondizionato, proprio a causa del crescente manifestarsi di un “turismo” della cittadinanza (aggravato dal fatto che il paese era ormai il solo caso di ius soli rimasto all’interno dell’Unione Europea)». E se nel frattempo (2006 e 2010) Portogallo e Grecia hanno introdotto «una combinazione di doppio ius soli e di ius soli per i residenti», «negli altri regimi misti viene applicato uno solo dei due principi: il doppio ius soli è adottato in Francia, Lussemburgo, Olanda e Spagna, mentre lo ius soli per residenti è previsto oltre che in Germania anche in Irlanda e Regno Unito. Per i restanti paesi europei, prevale ancora lo ius sanguinis».
Emblematico, in conclusione, l’origine dello jus soli negli Usa, «codificato nella stessa Costituzione tramite un emendamento del 1868, rivolto alla protezione dei diritti di nascita degli schiavi di provenienza africana».
Mentre oggi è tirato in ballo proprio per rispondere alle esigenze dell’immigrazione africana da sfruttare come manodopera.
Parafrasando un vecchio adagio, troppi indizi fanno una prova, per cui: jus soli? No, grazie, preferiamo lo Stato.
[2] «i 162 paesi del mondo per i quali sono anche disponibili dati sull’immigrazione»
3 risposte a "Ius sanguinis: altro che arretrato, dal 1948 è in crescita. Ed è alla base degli Stati nazionali. Ecco i dati"