CALL CENTER: QUI GIACE IL DIRITTO – Nuovo caso in provincia di Catanzaro

call-centerLo scandalo è che in termini di legge lo scandalo non c’è, poiché si scrive “contratto di collaborazione a progetto”, ma si legge “carta straccia”.

A darne l’ennesimo esempio una società di Catanzaro lido nell’ambito dei call center che, nella primavera scorsa, conclude le selezioni per un piccolo centro a Marcellinara. Gli operatori sono pochi, il numero esiguo, del resto, protegge dallo scalpore. La gravità dei fatti, però, non è una questione di cifre. Poiché i cinque operatori contrattualizzati per un anno e dieci giorni a partire dal 21 maggio 2014 per i servizi di vendita telefonica dopo circa venti giorni di lavoro, vengono mandati ufficiosamente a casa. Temporaneamente, riferiscono dall’azienda ai lavoratori, senza fornire motivazioni ufficiali. Temporaneamente ma senza alcuna notizia ormai da circa tre mesi, con il sospetto più che fondato che la pausa possa diventare definitiva e la consapevolezza che consultare un sindacalista sia una prassi ormai inutile, considerato il tipo di contratto.

Una situazione, insomma, che segna l’inesorabile fallimento del modello di flessibilità che i vari Marchionne ci propinano come nuovo mito del progresso: lavoratori che, sulla carta, per contratto, sono definiti alla stregua di liberi professionisti, che prestano la propria collaborazione “in piena autonomia e senza alcun vincolo di subordinazione”, senza far “parte dell’organico della società” che, per parte sua, non può “esercitare alcun potere disciplinare o direttivo” nei confronti del lavoratore, il quale “non dovrà in alcun modo ricevere disposizioni dal personale della Società”, con una “autonoma gestione delle fasi del programma a lui affidate”, nessun “assoggettamento ad un orario di lavoro” ed il libero utilizzo, negli orari di apertura, delle strutture della società dedicate a Marcellinara. E che, ovviamente, in caso di malattia o infortunio, restano sospesi “senza alcun obbligo di compenso”.

Senonché la realtà, per chiunque conosca direttamente o indirettamente il mondo dei call center, è ben diversa e, a fonte di contratti simili, gli obblighi reali sono tutti per l’operatore ed i vantaggi soltanto per la società, che dispone di un potere ‘contrattuale’ sproporzionatamente maggiore rispetto al lavoratore, il quale nella realtà dei suoi doveri è un dipendente a tutti gli effetti, con tutte le conseguenze del caso, salvo non avere i mezzi per pretendere uguali garanzie.

È questa, dunque, l’ipocrisia di un diritto che, diventato mera burocrazia, ha perso di vista la sostanza, pure ugualmente importante nella sua teoria. Perciò è senz’ altro vero che, se la vittima di questo assurdo gioco è proprio la certezza del diritto (ancor più del concetto di lavoro fisso che, in prospettiva, conta anche meno), imputabile politicamente non è certo chi di questi strumenti legislativi si serve, chi sfrutta a proprio vantaggio le possibilità offerte dalle norme.

Sul banco degli imputati è, invece, il legislatore, i nostri parlamentari, la nostra casta che queste norme e forme contrattuali criminali le crea. E, forse, anche la casta più forte dei magistrati, che evidentemente non preme troppo sull’ uso improprio di contratti simili, che definiscono rapporti di lavoro e di forza del tutto differenti da quelli reali e da quelli normalmente esistenti in alcuni tipi di lavoro. Lavoratori autonomi a cui la società ha, tra i pochi obblighi, pur sempre il dovere di fornire “dati tecnici e commerciali, notizie, informazioni o quanto altro necessario all’ ottimale svolgimento dell’attività”, salvo disporre dello strumento di ricatto più forte, quale la possibilità di concludere unilateralmente il rapporto di lavoro senza dover fornire alcuna causa, “anche qualora il programma non sia stato completato, fornendo apposita disdetta da comunicarsi al collaboratore a mezzo di raccomandata”, con un preavviso di 7 giorni.

E’ qui che giacciono il diritto, il lavoro e la giustizia dei tribunali.

Emmanuel Raffaele, “Il Garantista”, 12 set 2014

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