«TTIP»: OLTRE IL COMPLOTTISMO – Scure sulla piccola e media impresa

eu-usLA NOTIZIA è passata quasi inosservata su televisioni e giornali. Qualche flash ma nessun approfondimento, niente che crei consapevolezza su un trattato che darà vita alla più grande area di libero scambio al mondo: il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) che sta già scatenando i complottisti del web.

I complotti e i segreti, però, non sono poi così tanti.
«Portatori d’interesse» che «operano su base volontaria e gratuita», spiega il sito della Commissione Europea. Lobbisti, dunque che trattano per ridurre ulteriormente le barriere tariffarie ma, soprattutto, per ridurre le barriere non tariffarie. Normative e regolamenti statali che limitano o negano l’accesso al mercato di un prodotto proteggendo il mercato interno.

La discussione va avanti dallo scorso anno, col permesso del governo Letta. L’ultimo incontro a maggio, ad Arlington (Virginia, Usa), a ridosso delle elezioni europee. Usa e Ue, rappresentate da Dan Mullaney ed Ignacio Garzia Bercero, contano di concludere i lavori entro la fine del 2014, anche se molti parlano di fine 2015.
Al centro del dibattito: accesso al mercato per i prodotti agricoli e industriali, appalti pubblici, investimenti materiali, energia e materie prime, misure sanitarie e fitosanitarie, servizi, diritti di proprietà intellettuale, imprese di proprietà statale.

Liberismo oppure no: i pro e i contro stanno tutti qui.
Non in qualche oscura misura che affamerà d’un tratto popoli e imprese, ma nel suo liberismo estremo: qui sta l’imbroglio del Ttip, che non è un punto di non ritorno come Gatt e Wto, ma è senz’altro l’ennesimo stadio della globalizzazione. È per questo che considerare l’accordo una sorta di «Nato economica», magari in funzione anticinese, come hanno fatto in molti, tra cui il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero, vuol dire sminuirne il significato più ampio.

Usa ed Europa, spiega il dipartimento italiano dell’American Chamber of Commerce, «rappresentano circa il 50 per cento del PIL mondiale e il 30 per cento degli scambi commerciali» e con questo accordo «l’export europeo verso gli Stati Uniti dovrebbe aumentare del 28,03 per cento (circa 187 miliardi di euro) mentre quello americano verso la Ue del 36,57 per cento (159 miliardi di euro)». In sintesi: più prodotti americani in Europa, maggiore concorrenza per le stremate imprese europee, ulteriori vantaggi soltanto per chi è già forte nelle esportazioni come la Germania, spinta al ribasso per salari e diritti in nome della produttività.

«Un’opportunità per tutti», titola Limes che però ammette: «Non va fatto troppo affidamento su queste stime, in quanto è molto difficile calcolare ex ante l’impatto di tale accordo», riferendosi alle stime ottimistiche che rimbalzano sui giornali di settore come il Sole 24 Ore. Sottolinea in effetti Il Manifesto: secondo «l’analisi del più recente studio finora realizzato sul Ttip, a cura dell’Öfse, uno dei più autorevoli centri di ricerca austriaci […] gli aumenti in termini di Pil e di salari reali, secondo i quattro paper sopracitati, vanno dallo 0.3 all’1.3 per cento nel corso di un “periodo di transizione” di 10-20 anni. Anche prendendo come valide queste stime, stiamo parlando di una crescita annuale che va dallo 0.03 allo 0.13 per cento l’anno. Briciole».

Inoltre, «per quanto riguarda l’impatto del Ttip sul volume degli scambi commerciali, l’Öfse riconosce che è prevedibile un  aumento delle esportazioni dell’Ue nel suo complesso, ma sottolinea che a beneficiare di questo incremento saranno soprattutto i grandi gruppi industriali, a scapito delle Pmi». Infatti, «secondo i dati forniti dall’ Organizzazione mondiale del commercio le imprese italiane che esportano sono 210 mila, ma sono le prime dieci che detengono il 72 per cento delle esportazioni nazionali e che dunque beneficeranno maggiormente del Ttip. Gli autori, inoltre, prevedono che l’ingresso di prodotti statunitensi a basso costo sul mercato europeo ridurrà notevolmente il commercio intra-europeo (addirittura fino al 30 per cento)».

Come volevasi dimostrare.

La risposta alle interpellanze parlamentari dell’ex sottosegretario – oggi vice-ministro – per lo sviluppo economico, Claudio De Vincenti, è stata piena soltanto di slogan. A rivolgersi al governo, nel novembre scorso, sono Luis Alberto Orellana, senatore ex Movimento 5 Stelle, e la «cittadina» Tiziana Ciprini, che argomenta in maniera raffinata: «gli USA fanno già parte dell’American Free Trade Agreement (NAFTA) e del Central America Free Trade Agreement (CAFTA) e hanno già avviato i negoziati per due nuovi accordi: la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) con l’Unione europea e la Trans Pacific Partnership (TPP) con vari paesi dell’Asia; grazie a questi trattati gli USA si troveranno al centro di una vasta zona di libero scambio che renderà vantaggioso per le aziende estere spostare la produzione negli Stati Uniti, sia per alimentare l’enorme mercato interno, sia per riesportare in tutti quei Paesi che hanno accordi di libero scambio con gli USA».

Si tratta insomma di gettare il nostro tessuto produttivo, formato da piccole e medie imprese, in mano agli squali multinazionali. Lo chiede l’Europa.
Fra parentesi: cosa si farà per la questione Ogm, consentiti negli Usa ma non qui da noi?

«Alcuni dei guadagni», spiega Michael J. Boskin, della Stanford University e già collaboratore di G. Bush, «possono andare a scapito di altri partner commerciali. Anche all’ interno di ogni Paese, nonostante gli utili netti, ci sono alcuni perdenti».
Il sospetto è che i perdenti non saranno di certo gli Usa, che i conti in tasca, al contrario nostro, sanno farseli bene. Liberisti che salvano banche di fatto stampando moneta, ben avviati verso la ri-manifatturizzazione con buona pace dei vantaggi comparati: «Il rimpatrio degli investimenti americani dalle aree un tempo considerate ad alto vantaggio comparato è già in corso e raggiungerà presto percentuali che vanno dal 20 al 35 per cento», osserva Confindustria in uno studio sul Ttip.
Il mercato degli appalti pubblici statunitensi, evidenziano del resto gli industriali, «è aperto alle imprese europee soltanto per poco più del 30 per cento, con regole diverse a livello federale e statale, un’applicazione non uniforme dell’accordo WTO sugli appalti pubblici, clausole “Buy American” ed altre restrizioni». Non che gli Usa non abbiano sottoscritto l’accordo Wto sugli appalti pubblici, ma ben «13 Stati non sono coperti da queste disposizioni e gli altri 37 lo applicano in maniera disomogenea».

Senza contare la normativa federale che «impedisce a compagnie aeree straniere di acquistare compagnie aeree americane», il «Jones Act» che «impedisce alle imbarcazioni non costruite negli US di operare tra porti americani», i dazi antidumping del 15,45 per cento sulla pasta italiana, il contingentamento per i formaggi di latte vaccino, il divieto di importazione di mele e pere dall’ Ue e di prodotti a base di carne bovina, le licenze speciali necessarie ai prodotti ortofrutticoli freschi, i dazi del 35 per cento sul tonno in olio d’oliva, le norme stringenti sui prodotti a base di carne importati dall’ Italia, il divieto di importazione di bevande alcoliche per operatori non statunitensi, i 18 Stati su 50 che esercitano monopoli vari, i dazi superiori al 20 per cento (in un complesso di  linee» che all’ 85 per cento sono comprese nella fascia tra 0 e 10 per cento) per la frutta secca, l’abbigliamento per bambini, il settore calzaturiero, i veicoli per trasporto merci, parte del settore dell’abbigliamento.

«Froci» col culo degli altri.

Emmanuel Raffaele, “Il Borghese”, giugno 2014

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