
Cui prodest? Forse non sarà la risposta alla domanda sui mandanti (se ci sono) della strage di Bruxelles e del terrorismo islamico. Ma vale la pena notare come il terrorismo produca, come sempre, l’estremizzazione delle posizioni e, dunque, la manifestazione di posizioni del tutto assurde, da una parte e dall’altra. Difficile sapere il perché di quell’indirizzo dimenticato e non trasmesso dalla polizia all’antiterrorismo, difficile sapere se dietro gli attentati terroristici degli ultimi anni e dietro tutte le stranezze ci sia la mano di qualcuno che, come già avvenne in Italia, intende portare avanti una strategia della tensione su scala internazionale per tenere ancorato il fronte occidentale su posizioni filo-israeliane. Gli indizi ci sono tutti, a cominciare dalla questione siriana, dalla complicità della Turchia nei traffici dell’Isis. Dopo tutto qualcuno deve pur rifornire di soldi e armi personaggi di origine allogena che, però, generalmente, nascono e si trovano già in Europa. Ma la realtà è più complessa persino di quel che pensano i complottisti, è multipolare, per cui meglio valutare i fatti in base a ciò che è appurato. Pur sovvenzionato e/o favorito dall’esterno, il terrorismo islamico è una realtà, un pericolo concreto ed in quanto tale non si può ignorarne la vicinanza agli ambienti del fondamentalismo islamico.
Altra certezza è, come dicevamo, che il terrorismo ha centrato il bersaglio. Da una parte i gessetti colorati, i vari Saviano, Mannoia, Boldrini e simili con le loro dichiarazioni fotocopia sull’accoglienza e l’integrazione come panacea a tutti i mali; dall’altra, i vari Belpietro, Ferrara, Magdi ‘Cristiano’ Allam, Salvini a dire che l’Islam in sé è il male, contro la libertà e contro l’Occidente che si deve schierare unito contro di loro (come volevasi dimostrare). Sulle alleanze ‘sciolte’ con l’Arabia Saudita, in genere, sorvolano. Così come la prima categoria, in genere, sorvola su un fatto: in tutta Europa l’integrazione è già un fatto, l’accoglienza di centinaia di migliaia di immigrati anche, eppure il clima sembra soltanto peggiorato.
Come sempre, quindi, realismo, concretezza e principi saldi, servono molto più di ideologie e schieramenti aprioristici.
Il nome del profeta dell’Islam è tra i nomi più diffusi tra i nuovi nati in Gran Bretagna, tra i più diffusi in Belgio, Al Jazeera, rete televisiva che ha come telespettatori una percentuale di mussulmani pari a circa il 98% ha le sue sedi a Washington e Londra, in Spagna e altre città europee e tantissime altre ancora negli Stati Uniti. L’Islam è già parte dell’Occidente. Donald Trump dice di voler espellere i mussulmani dal paese ma sa benissimo che è una sciocchezza propagandistica. E ‘confidiamo nella cattiva fede’ dei giornalisti e dei politici nostrani quando affermano che il nemico è l’Islam, salvo poi inchinarsi al politicamente corretto in maniera bipartisan quando c’è da puntare il dito sul ‘razzismo dell’estrema destra’, solitamente accusata per il suo antisemitismo. Il presunto antisemitismo non va bene ma, a quanto pare, discriminare milioni di persone per la propria fede (e limitatamente anche per la razza, dal momento che, però, mussulmani si può anche diventarlo da italiani, ad esempio), invece, si.
Il loro liberalismo si ferma lì. Il loro antirazzismo è solo servilismo ad Israele. Non a caso lo scrittore Roberto Saviano, divenuto noto al grande pubblico con la pubblicazione del libro “Gomorra” sulla malavita campana, oggi ‘twitta’: “Il terrorismo si combatte solo con l’integrazione”. Evidentemente, vivendo sotto scorta dal 2006, Saviano è un po’ fuori dal mondo. E peraltro un po’ confuso, dal momento che nel 2010 (e poi anche in altre occasioni) dichiarò il suo sostegno allo stato di Israele, di certo non un campione d’accoglienza e integrazione, con l’occupazione dei territori palestinesi, i muri e pochi giorni fa l’ultima dimostrazione della sua democraticità: un soldato israeliano che spara a freddo e uccide un palestinese disteso per terra, già immobilizzato e tratto in arresto dopo un accoltellamento. Con lui, considerato eroe nazionale, è accorso subito a complimentarsi un esponente dell’estrema destra anti-araba israeliana. In quella occasione lo scrittore icona del politicamente corretto definì Israele “una democrazia sotto assedio”. In quell’occasione, evidentemente, si dimenticò di suggerire l’integrazione come soluzione. L’isolamento di Gaza, senza accesso ad acqua ed elettricità, prigione a cielo aperto, deve essergli sembrata un’ottima idea.
Due giorni fa, a Londra, sono stati fermati due giovani mussulmani di 21 e 22 anni, che avevano già effettuato ricognizioni presso alcune stazioni di polizia per effettuare attentati. Entrambi con cittadinanza inglese, sono cresciuti nello stesso quartiere del tristemente famoso ‘Jihadi John’, l’altro inglese appartenente all’Isis ucciso in un raid.
Uno di loro era stato presidente della “Islamic Society”, club interno al prestigioso King’s College di Londra, che ha la sua sede principale sullo Strand, in centro. Lo stesso ateneo in cui, qualche settimana fa, la Boldrini teneva il discorso annuale del Jean Monnet Centre of Excellence e straparlava di europeismo, antifascismo e accoglienza. Lo stesso club finito sui giornali nei giorni scorsi per avere organizzato un banchetto in cui donne e uomini erano separati nel corso della serata da un paravento posto in mezzo alla sala. Un evento a pagamento ‘privato’ per cui l’ateneo ha declinato ogni responsabilità ed il cui acquisto ticket prevedeva due differenti contatti per uomini e donne.
Non più di una settimana fa, sui quotidiani inglesi era possibile leggere di una prestigiosa boutique in Oxford Circus (siamo sempre a Londra, città in cui i bianchi sono ufficialmente una minoranza) che esporrà i cosiddetti ‘burkini’ (costume da bagno completamente coprente utilizzato dalle donne mussulmane) nel proprio store. Alla London Fashion Week, il mese scorso, hanno sfilato modelle col velo. In giro per la città, in strada e sul posto di lavoro, non si contano i centri islamici, le donne col velo o con il burqa.
A Parigi, nel quartiere di Saint Denis, e soprattutto nella ‘belga’ Molenbeek, dove i terroristi delle stragi sono stati protetti dalla comunità che ci viveva, abbiamo visto che l’integrazione non solo c’è, ma appartiene ormai al passato: in futuro ad integrarci dovremo essere noi. Ed effettivamente, con la politica delle frontiere aperte e la bassissima natalità europea, presto neanche questo sarà più un problema. L’Europa com’era, semplicemente, non esisterà più. L’Europa di etnia caucasica, di religione cristiana, di origini greco-romane, sarà soltanto storia, con la benedizione di Boldrini & Co.
Ne saranno contenti anche gli antifascisti di tutta Europa, che lanciano agli immigrati il rassicurante slogan “Refugee Welcome” e si sono detti disposti ad accettare gli stupri in cambio delle frontiere aperte. Gli stupri si possono accettare, il ‘razzismo’ no.
Papa Francesco, in occasione del rito della lavanda dei piedi che precede la Pasqua, si è inchinato e ha baciato simbolicamente i piedi a dodici immigrati di fede islamica. Alcuni sacerdoti hanno messo le loro chiese a disposizione degli islamici per la loro preghiera.
La cantante Fiorella Mannoia ha dichiarato: “i nostri morti per i loro”, avallando così il terrorismo, il ‘nostro’ ed il loro.
“In Siria”, ha dichiarato, “ci sono migliaia di cittadini morti uccisi da bombardamenti, perché loro non sono essere umani innocenti come noi? Bisogna avere la stessa pietà per i nostri morti come per i loro. La comunicazione non li mette sullo stesso piano: quando accadono cose in occidente ci spaventiamo, ma anche quelle sono famiglie”. Giusto, per carità: peccato che non abbia detto una parola sulla destituzione del presidente Assad, unico a combattere sul campo l’Isis insieme alla Russia di Putin. Peccato abbia condannato il terrorismo occidentale, ma non quello islamico, che non è esattamente un modo leale di “fare la guerra”.
D’altronde, non è stata l’unica a dire: perché gli attentati ad Ankara, in Africa e nel resto del mondo non ci colpiscono come quelli di Parigi o di Bruxelles?
Un po’ come dire ad una madre a cui è morto il figlio o ad un ragazzo a cui è morto il fratello: perché soffri così tanto quando ogni giorno, nel mondo, muoiono tantissime persone e tu non sei altrettanto dispiaciuto?
Sfugge completamente il concetto di comunità, che precede e dà le basi ideali al concetto di identità, di fratellanza, di vicinanza umana rispetto a chi condivide con te qualcosa, rispetto a chi conosci più da vicino, con il quale sei unito concretamente e non astrattamente.
Annalisa Gadaleta, assessore proprio a Molenbeek, ha dichiarato all’Ansa: “Ma gli italiani a chi vogliono fare la lezione? I primi a essere venuti qui a migliaia siamo stati noi perché avevamo fame e volevamo una vita migliore”. E poi ancora: “Oggi arrivano persone che fuggono dalla guerra e non puoi dire loro rimanete a farvi ammazzare nei vostri Paesi”. “L’errore”, ha aggiunto, “è pensare che chi viene da Paesi connotati da dittature o comunque regimi non democratici, possano venire e adeguarsi automaticamente alla democrazia”.
L’essere europei, avere una cultura comune, una fratellanza spirituale, le medesime origini etniche non sembrano avere alcuna importanza per l’assessore in questione come per tanti altri. L’italiano che va in Belgio è la stessa cosa dell’africano che arriva in Europa. Peraltro, non che l’emigrazione in sé sia un fenomeno positivo, ma c’è differenza sostanziale anche tra le migrazioni di massa, gli arrivi sui barconi, le invasioni alle frontiere e gli spostamenti, molto più contenuti e sostanzialmente diversi nel metodo, degli italiani nel tempo. Non che l’emigrazione, con lo sradicamento che porta con sé, possa essere considerato di suo un fenomeno positivo. Ma non si possono neanche ignorare le differenze. In un ritratto in bianco e nero, le sfumature sono tutto nella buona riuscita del disegno, non puoi ridurre il tutto al si o no alle sfumature.
E non sono semplicemente accettabili parole tese a giustificare i comportamenti anti-sociali dei migranti, né politicamente sensate le conclusioni: “i fenomeno migratori non si possono fermare”.
Non solo si possono fermare, ma se così fosse, faremmo prima a dichiarare il fallimento degli Stati, con l’unico risultato positivo che, almeno, personaggi come la Gadaleta non avrebbero più un posto sicuro su cui poggiare il culo.
Certo, forse dall’Italia è ancora possibile pensare che la situazione sia connessa all’integrazione. Ma neanche più di tanto. In una prospettiva europea, però, con l’integrazione ed in alcuni casi la predominanza islamica, invocare l’integrazione è semplicemente fuori luogo e fuori tempo. L’integrazione c’è già. E non è evidentemente la soluzione.
Ma, tra parentesi, cosa si intende per integrazione? Cosa vuol dire concretamente questo concetto un po’ astratto che può rappresentare tutto e niente? Vuol dire tolleranza? Libertà religiosa? Vuol dire che gli islamici devono diventare come noi? Vuol dire che noi dobbiamo diventare come loro? A meno con il termine non si intenda, quindi, l’ipotesi di annullare la nostra o la loro identità, integrazione non può voler dire altro che coesistenza pacifica e rispetto.
E tutto ciò che abbiamo detto, il comportamento delle istituzioni, della società, non dimostra minimamente il contrario. O si vuole contestare l’opinione dei singoli e imporre il pensiero unico filo-islamico? Neanche questa, peraltro, sarebbe integrazione. Sarebbe censura. La legge già prevede reati di pensiero fin troppo restrittivi, dubitiamo ci sia bisogno di introdurne altri. O forse impedire le minigonne, chiudere in casa le donne europee è integrazione?
Quanto alle soluzioni, c’è chi dice che siamo in guerra e bisogna bombardare. Ma finora, chissà perché, gli unici a respingere sul campo i jihadisti sono stati il presidente siriano e quello russo, mentre gli americani hanno storto il naso quando Putin ha colpito i cosiddetti “ribelli moderati”. La loro soluzione, come sempre, è quella di violare la sovranità di altri stati sovrani, in genere stati laici, come la Siria appunto ed in passato la Libia, l’Iraq, per poi lamentarsi della destabilizzazione e dell’avanzare di milizia fondamentaliste, in genere finanziate dagli alleati arabi o turchi ed armati e a volte addestrati dagli stessi Stati Uniti per abbattere i regimi in questione. Chiaramente prima di “scoprire” che si tratta di terroristi.
Bombardare la Siria, però, è una chiara violazione di sovranità. Quanto alla Libia, è chiaro, invece, che l’intervento diventa inevitabile per il nostro paese nel momento in cui diventa un pericolo diretto e, tranne quello fantoccio portato su un barcone dall’Occidente, non esiste praticamente un governo.
Infine, c’è la questione immigrazione. È chiaro a tutti, tranne che a chi “amministra” il nostro paese, che – questioni sociali e politiche di fondo a parte – è impensabile conciliare la lotta al terrorismo con l’arrivo di masse di immigrati difficilmente identificabili. Ed è impensabile parlare di integrazione laddove i fenomeni diventano di massa: è come ingoiare un’intera scatola di medicine in una volta sola e pensare di averne benefici o rimanere sott’acqua a bocca aperta con l’intento di reidratarsi. Il popolo ebraico si è insediato in massa in Palestina ed ha dato vita allo stato di Israele: l’esperimento integrazione non sembra sia andato a buon fine. Persino la coesistenza è divenuta impossibile. Naturalmente. Tanto per ricordare a Saviano il concetto di integrazione dei suoi beniamini.
Lo stop all’invasione delle frontiere europee, dunque, è una misura necessaria, seppur non completamente risolutiva. I terroristi, lo sappiamo, sono già nel nostro continente, molto spesso ci sono nati, sono cittadini europei, super integrati appunto. E’ chiaro che non ci si può limitare ad attendere gli attentati e ricercare poi i responsabili. Un lavoro di intelligence che finora ha rivelato molte falle. A volte anche troppe per non essere sospette.
Ma il problema che sta alla radice del fenomeno dei foreign fighters e dei terroristi cresciuti nelle nostre città e nelle nostre scuole non può che suggerire soluzioni del tutto opposte a quelle suggerite dai maestri del politicamente corretto. È chiaro che nel quartiere arabo di Bruxelles o in quello di Parigi, l’Europa è soltanto un nome su una mappa. L’Europa è un’identità che in quei posti smette di esistere, rappresenta lo straniero (nemico o meno) e non la propria comunità di appartenenza. La possibilità di coesistere pacificamente l’Europa ha imparato a concederla finalmente. Ma l’interrogativo è: la coesistenza pacifica a cui ci siamo resi disponibili ha prodotto ‘integrazione’ ? Ha permesso, insomma, la nascita di un sentimento comunitario comune? Non lo ha fatto. Fondamentalismo a parte, il punto è proprio quello: il sentimento comunitario fondato sulla condivisione linguistica, culturale, religiosa, etnica resiste, da sempre peraltro, alla coesistenza.
Dunque? Tornare indietro a qualche, a volte troppi decenni fa o anche più non è possibile. Ma fermare l’avanzata di un esperimento che si è rivelato fallimentare, invece, lo è. Affermare l’identità europea, invertire la rotta, ridare vitalità ad un corpo morente, rimettere al centro la natalità, pretendere che si possa tornare a parlare e considerare le minoranze come tali nella vita pubblica, senza tabù. E, quanto alle azioni specifiche, non si può pretendere di affrontare il terrorismo come il crimine comune e non per quello che è socialmente. Dunque, espulsioni vere e, per chi l’ha acquisita, revoca della cittadinanza se chi viene condannato in via definitiva per fatti legati al terrorismo islamico ad esempio. Intervenire sulle connivenze, i legami comunitari dei terroristi, utilizzando le stesse misure nei confronti della rete di protezione che li circonda. Familiari, conoscenti. Destrutturare le loro ‘posizioni’ e, nel frattempo, ristrutturare le nostre.
Tutte cose che, se venissero fatte, si griderebbe subito al nazismo. Ecco perché non si farà nulla. Ed ecco perché l’Europa morirà senza combattere. Mentre pochi tenteranno di resistere, abbandonati a se stessi e trattati come i veri nemici.