Sovranità è “totalitarismo”: la bugia degli anti-sovranisti

Come accennato nel primo post introduttivo sulla “sovranità“, benché il contrario sia stato teorizzato e messo in pratica, un altro obiettivo di questo “lavoro” di approfondimento, è mostrare come il concetto di sovranità non sia di per sé in contrasto con il concetto di libertà individuale, ma che anzi la libertà possa trovare e abbia trovato proprio in quello Stato – che in nome dell’anti-sovranismo si vuole abbattere – le necessarie garanzie e tutele.

In questo caso, basterà osservare (evitando di cadere in un banale “progressismo” storico-filosofico) l’evoluzione e analisi del concetto anche – ma non solo – in relazione all’evoluzione dello Stato moderno. Continua a leggere

Sovranita’, nemica secolare dei progressisti: ecco perche’ farne una parola d’ordine

sede_bce_getty_010513-e1404208644530

C’erano un volta gli stati nazionali. Ora non ci sono più. Se la politica fosse una fiaba progressista è indubbio che questo sarebbe il suo incipit.

“Se concepiamo la storia moderna non come vittoria dello stato assoluto, ma come vittoria del costituzionalismo, allora ci accorgeremo che l’elemento di continuità di questa lotta è proprio nel suo avversario, la sovranità” (N. Matteucci, “Sovranità”). E ancora: “se il binomio sovranità-Stato appartiene propriamente alla modernità, anzi se quel binomio è la modernità […], la sovranità e lo Stato sembrano destinati ad una pari obsolescenza nella dimensione del potere che risulta propria del post-moderno (D. Quaglioni, “La sovranità”). Ferrajoli addirittura definisce la sovranità un “relitto premoderno”. Secondo la scienza politica, in breve, la sovranità è un po’ il nemico principale della democrazia, sia quella diretta, che (soprattutto) quella rappresentativa fondata sulla separazione dei poteri. E ne è allo stesso l’incubo dal momento che, nel suo significato metastorico, che pure alcuni rifiutano, la sovranità in quanto tale, nata con gli stati nazionali ed il Trattato di Westfalia nel 1648, non è altro che il “supremo potere di comando (summa potestas) connesso all’esercizio delle funzioni fondamentali di ogni sistema politico” (P.P. Portinaro, “Sovranità” in “Enciclopedia del pensiero politico”). Dunque, un elemento ineliminabile, connaturato ad ogni comunità umana ed alla sua organizzazione politica. Ma c’è di più. Innanzitutto essa è per definizione assoluta. Non c’è quindi sovranità nello stato che riconosce poteri superiori ad esso fuori o dentro i confini nazionali. Inoltre, essendo per definizione indivisibile, la sovranità in quanto tale confligge con il concetto d’esordio, ad esempio, della costituzione italiana: la sovranità che appartiene al popolo, che infatti, evidenziandone l’artificio retorico, “la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione” (art. 1 Cost) in quella che lo stesso Portinaro rileva essere una trasfigurazione del concetto in “sovranità del diritto”. Ciò semplicemente perché, come evidenzia Carl Shmitt, “sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, chi detiene il “monopolio della decisione ultima”, mentre“tutte le tendenze del moderno sviluppo dello stato di diritto concorrono ad escludere un sovrano in questo senso”.

Il punto è questo: il nemico giurato delle teorie liberali, democratiche, socialiste e anarchiche è esattamente il concetto di sovranità e ciò che ci troviamo oggi a fronteggiare è in realtà una sconfitta già avvenuta e datata 1945 quando, la nascita dell’Onu e con essa della comunità internazionale quale oggi è intesa ed, in seguito (1948), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sanciscono la fine della sovranità assoluta degli stati all’interno dei propri confini e fanno dei principi democratici parte dei diritti inalienabili dell’uomo, rivelando l’ideologizzazione propria all’organizzazione. Legittimo. Ovvio addirittura. Sta di fatto che dire oggi “Basta Europa” ha un senso soltanto se si comprende che la lotta contro la tecnocrazia europea non è quella decisiva e che la questione è duplice. Da una parte combattere chi mira a relegare al passato la sovranità nazionale e con essa gli stati nazionali, con il piano esplicito, ad esempio, di una parte dei federalisti europei del dopoguerra di giungere ad uno stato federale con graduali erosioni della sovranità per giungere ad una federazione di fatto senza troppi clamori ed opposizioni eccessive, dall’altra comprendere che la battaglia per la sovranità si conclude soltanto con una nuova forma di stato, non certo con il liberalismo o uno degli altri modelli che costituiscono soltanto il preludio della sconfitta. Il problema, dunque, è tanto esterno quanto interno, politico più che mai. Chi vuole la fine degli stati nazionali, non vuole spostare semplicemente la sovranità altrove ma, disperdendola in mille rivoli (è la rete, modello non piramidale ma orizzontale, segnalata con entusiasmo anche nelle recenti discipline che analizzano le politiche pubbliche quale modello democratico di partecipazione ai processi decisionali ), di fatto, distruggerla. Il che non vuol dire giungere sul serio all’utopistico autogoverno del popolo ma soltanto costruire un altro, enorme, artificio retorico, giuridico e politico, da sostituire all’affascinante ma vuoto concetto di sovranità del popolo, che condurrà, anzi, sta conducendo già soltanto ad un ulteriore allontanamento della decisione ultima dai cittadini. Se la nostra casta dove risiedeva il potere decisionale prima stava in parlamento o negli uffici ministeriali, oggi sta fuori dai nostri confini, tanto più che persino le istituzioni che dovrebbero salvarne l’apparenza sono con tutta evidenza carenti quanto a rappresentatività. In un “comune” manuale di “Diritto costituzionale comparato ed europeo”, il cui autore è l’ex preside della Facoltà di Scienze politiche di Cosenza, Silvio Gambino, con simpatie non certo di destra, scrive: “Non si può, infatti, fare a meno di rilevare che il sistema costituzionale europeo che si dipana dal XXI sec. sotto le insegne dell’effettività si definisce sempre più come un ‘costituzionalismo dei governanti’, ‘ottriato’, vale a dire un costituzionalismo dall’alto, molto diverso, quindi, da quel ‘costituzionalismo dei governati’ che è stato protagonista degli stati europeo nel primo e (soprattutto) nel secondo Novecento […] ben lungi dal rispondere ai canoni della democrazia rappresentativa. E ancora: “Le decisioni più importanti, infatti, tendono ad essere prevalente (se non esclusivo) appannaggio dei vertici degli esecutivi dei singoli stati o della tecnocrazia comunitaria”.

bce-vs-fed

Ma – e c’è una frase tra queste ultime che infatti non sarà sfuggita ai più attenti – se la fine dello stato nazionale venuto fuori da Westfalia è databile al secondo dopoguerra, anche qui la sovranità, irresistibile poiché ineliminabile come dicevamo, fa capolino e dà ragione a Shmitt, nel momento in cui spiega: “l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”. Sono proprio le potenze vincitrici di un conflitto, il secondo conflitto mondiale, infatti, che proprio alla luce della loro posizione di superiorità de facto “inaugurano” questo nuovo ordinamento internazionale, che pur nella sua necessaria ricerca di una legittimazione che non sia puramente coercitiva ma ideologica, così come da definizione del concetto di sovranità, pure disvela la sua origine tutt’altro che rappresentativa esplicitamente nel potere di veto che questi paesi hanno deciso di mantenere. Anche in Italia, del resto, la repubblica che in tanti proclamano “antifascista” nasce dalla guerra civile e non è certo attraverso strumenti democratici che giunge nelle mani dei vincitori (in questo caso, per meriti altrui). Lo stesso democraticissimo Rousseau – ed ora arriviamo al punto -, nemico persino della democrazia rappresentativa in quanto anti-democratica (“La sovranità non può venir rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è un’altra; una via di mezzo non esiste […]. Il popolo inglese si crede libero, ma è in grave errore; è libero solo durante l’elezione dei membri del parlamento, appena avvenuta l’elezione, è schiavo, è niente”), non solo non può far a meno di prevedere l’esistenza di un governo, preferibilmente – tra l’altro – di tipo non democratico, poiché esso necessiterebbe la mobilitazione costante del popolo; ma, addirittura, non può neanche lui fare a meno di ammettere che è necessaria una figura che detenga il potere nel caso si verifichi lo stato d’eccezione, esattamente come sostiene Shmitt: “L’ordine e la lentezza delle forme richiedono un lasso di tempo che a volte le circostanze rifiutano. Si possono determinare mille casi a cui il legislatore non ha provveduto […]. In questi rari casi e manifesti si provvede alla sicurezza pubblica con un atto speciale che ne affida l’incarico al più degno” (J.J. Rousseau, Contratto sociale). Tutto qua? No, non è tutto. “La grande anima del legislatore è il vero miracolo che deve far fede della sua missione”, sostiene infatti lo scrittore francese, fondando il suo stato di diritto su una figura semi-mitica che sta esattamente al di là del diritto. Riecco, definitivamente, Shmitt. E riecco, per tornare concreti ed “attuali”, la seconda guerra mondiale ed il nuovo ordinamento internazionale, che si fa sentire con le continue decisioni e/o limitazioni imposte dalle strutture sovranazionali (europee o mondiali) che decidono su questo o quel campo un tempo appannaggio esclusivo dello stato nazionale.

Insomma, se ci deve essere oggi una parola d’ordine, che valga contro l’Europa di banche e tecnocrati, ma anche contro i nemici interni, i nemici degli stati nazionali e di un modello politico in cui le decisioni non siano prese nell’oscurità dei passaggi burocratici, da assemblee non rappresentative e la responsabilità politica abbia ancora un senso e con esso anche il merito; se ci deve essere una parola che possa rappresentare l’opposizione all’arbitrio (la sovranità è altra cosa, poiché è all’origine del diritto) ma anche alla finzione democratica che nasconde interessi di natura economica, questa parola non può che essere una sola, inalienabile, imprescrittibile, indivisibile, assoluta ed esclusiva: SOVRANITA’.

Emmanuel Raffaele

“Razzisti per tradizione”: “The Guardian” accusa l’Italia

kyenge“Leggi discriminatorie”, “una serie sconvolgente di attacchi e minacce” contro il ministro Kyenge, assenza di “sanzioni severe”, “un’identità che ha avuto tra le sue componenti la pelle bianca”. E tutto a causa di una “Norimberga” che l’Italia non ha subìto dopo la seconda guerra mondiale e che ha impedito il crearsi di un “vocabolario del pentimento”.

Pentimento per cosa? Per l’esperienza fascista e per l’esperienza coloniale naturalmente, prova che gli “italiani brava gente “ non esistono, ma che hanno il razzismo – che poi è sinonimo di fascismo – nel Dna.

Questo in breve il contenuto di un pezzo pubblicato dal quotidiano inglese “The Guardian”, ripreso tradotto dal settimanale “Internazionale” (n. 1017) e firmato dalla scrittrice etiope-statunitense Maaza Mengiste.

Se il pezzo in questione possa esser ritenuto a sua volta “discriminatorio” non è dato chiederselo. Non è politicamente corretto.

Ma il fatto che racconti bugie con superficialità è una verità incontestabile.

A partire dal clima di terrore descritto nel riferimento all’accoglienza avuta dal ministro per l’Integrazione (molto “abbronzata” direbbe Silvio), minacciata a suo dire in quanto contestata nella sua logica dell’immigrazione come panacea per tutti i mali.

La minaccia citata nello specifico è una richiesta di dimissioni, condita dallo slogan “L’immigrazione è il genocidio dei popoli”. Slogan evidentemente agghiacciante. Si, sa, l’immigrazione è gioia, è la pubblicità dei Ringo, è Balotelli in Nazionale, è Miss Italia di colore. L’Italia, del resto, è meticcia, parola della Kyenge. Con buona pace dei barconi di sfruttati che giungono sulle nostre coste ed affollano Cpt malfunzionanti, città e metropoli le cui strutture sociali esplodono creando conflitti anche interetnici, criminalità, violenza ed alimentando un discontrollo del fenomeno che, questo si, causa razzismo.

E invece non si può dire. La parola d’ordine è una sola: immigrazione è bello.

Senza tener conto che porta chiaramente con sé sradicamento, abbandono della propria terra al suo destino e, spesso, della propria famiglia, difficoltà economiche ed il naturale allentamento fino alla distruzione del vincolo comunitario, che è l’unico vero baluardo contro il caos sociale e l’individualismo.

Tutto ciò non si può dire, è razzista.

E poi si sa, fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare. Sicuri? O semplicemente li fanno al costo di minori diritti e di salari più bassi? O semplicemente li fanno e basta, mentre i disoccupati italiani, quasi tutti giovani, aumentano? E magari non hanno diritto ad una casa popolare, sopravanzati dai neocittadini stranieri. E poi a quanto pare fanno anche i ministri, i parlamentari, i giornalisti, i professori: forse è il caso di inventarne un’altra.

Però si sa, gli italiani non fanno più figli: noi cresciamo grazie a loro. Noi? Noi chi? Se non esiste più l’italiano, se esserlo è un semplice attestato di residenza, chi è questo “noi” che cresce grazie a loro? E cosa vuol dire Italia se nulla vale il concetto di cittadinanza e tradizioni e costumi? È un nulla, è un non-senso statistico. È il concetto di nazione, di Stato che è sotto attacco. È, semmai, un “loro” crescono, mentre “noi” ci rassegniamo. Anche alla svendita del nostro patrimonio imprenditoriale, stando agli ultimi eventi.

E, beh, è chiaro che questo articolo è del tutto carente di termini attinti direttamente dal “vocabolario del pentimento” della Mengiste. Anche per queste frasi, molto probabilmente, sarebbe necessaria una “Norimberga”, che la cara scrittrice scambia ingenuamente per una “riconciliazione”. E senza per la verità auspicare la stessa “pacificazione” per chi ha usato armi di sterminio di massa come la bomba atomica.

Termini quasi certamente tratti dal vocabolario di cui sopra, dal sapore vagamente sovietico, laddove pacificazione significa una sola cosa: repressione. E infatti eccola  a lamentarsi dell’assenza di sanzioni severe, dimenticando forse la liberticida legge Mancino e gli innumerevoli processi del pensiero portati avanti dal regime giudiziario, dimenticando che parla di un paese in cui liberamente uno  va in Europa e, a torto o ragione, parla di “troie” in Parlamento e poi si pretende la Kyenge intoccabile per una sorta di razzismo inverso.

Senza comprendere, o fingere di non comprendere, che non è il colore della sua pelle a suscitare clamore ma la vacuità del suo progetto di distruzione dell’identità nazionale che, ebbene si, ”ha avuto tra le sue componenti la pelle bianca” per ovvie ragioni ma di cui oggi si pretende quanto la sopravvivenza se pur parziale trasformazione dovrà essere.