“In guerra per amore”, un Pif niente male: nel film americani collusi coi boss

E’ stato infine necessario attendere la seconda pellicola di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, per raccontare al grande pubblico che gli americani, con la sbarco in Sicilia del ’43, consegnarono il potere nelle mani della mafia, in cambio di una conquista facile ed indolore. E nonostante l’ironia che fa da sfondo, il messaggio è diretto e centrale più che mai, senza sconti. Di questo non si può che render merito al giovanissimo conduttore ed attore siciliano che, pur omaggiando il patriottismo e l’onestà del capitano Scotten, ucciso in Sicilia dopo aver scritto una lettera per denunciare il fenomeno, punta l’indice dritto contro la Casa Bianca e l’allora presidente Roosevelt, colpevole di aver fatto scarcerare moltissimi criminali facendoli passare per prigionieri politici, assegnando poi ai boss locali ruoli di responsabilità, quando non la sindacatura di molti comuni siculi a seguito dell’invasione.

In guerra per amore“, uscito nelle sale cinematografiche lo scorso 27 ottobre, secondo film di Pif dedicato alla criminalità organizzata dopo “La mafia uccide solo d’estate”, è fatto tecnicamente bene e si inserisce nel filone originale creato dallo stesso Diliberto senza deludere, se – ovviamente – uno non va al cinema aspettandosi qualcos’altro. Il giornalista Pietrangelo Buttafuoco ha affermato polemicamente: “Nel film gli americani sono i buoni“. Ma non è proprio così, anzi, proprio la retorica sulla liberazione ed i liberatori, seppur non del tutto sparita, è fortemente intaccata da Pif, che ha peraltro dichiarato: “La democrazia instaurata dai vincitori sulla nostra isola non è vera democrazia, ma il dominio della mafia“. E scusate se è poco.

Avrebbe potuto far passare il messaggio di un’America che arriva in Sicilia e magari prende male le misure, sbaglia in buona fede e, invece, l’unico ad essere in buona fede, nel film, è proprio il capitano Scotten, l’unico veramente “in guerra per amore”. Al contrario, il disinteresse degli Usa nei confronti del destino della Sicilia (e quindi del nostro paese) è manifesto. L’intenzione, da parte degli alti papaveri (che in cambio liberano il boss italo-americano Lucky Luciano), di appoggiare e farsi appoggiare dalla mafia pur di avere il controllo è deliberata. Ecco perché, almeno in questo, poco si può contestare al giovane regista, che però non sembra certo sottolineare che, se gli americani trovano i criminali in prigione, è per merito del fascismo, che la mafia l’aveva debellata e repressa.

E poi, certo, c’è l’impressione insopportabile che lascia la scena della statua di Mussolini “casualmente” incastrata a testa in giù, dopo che un vecchietto fino a quel momento “fascistissimo” la butta via, avendo ormai perso la fiducia nel capo del governo a causa delle difficoltà della guerra. Ma anche qui, pur nell’esplicito riferimento allo scempio di piazzale Loreto, l’intento “apologetico” non sembra essere accentuato. Potrebbe ma non sembra quella la ragion d’essere della scena, che sembra piuttosto rappresentare in maniera oggettiva i fatti ed il cambiamento d’umore repentino e brutale del popolo. Dopo tutto, oltre alla reazione del “fedelissimo” vecchietto, fa impressione anche assistere proprio al giubilo della popolazione in festa all’arrivo dell’esercito americano, entrato in paese dopo le trattative per la resa con il boss locale ma, soprattutto, dopo i violenti bombardamenti che ha subito dall’aviazione di quello stesso paese che ora si presenta con cibo in scatola e l’ipocrisia di chiamarsi liberatore. E’ il popolo boccalone, volubile e debole che non fa bella figura, sono i fascisti che hanno tradito che non fanno bella figura e, soprattutto, sono gli Usa che non fanno una bella figura, seppur ideologicamente vicini nella prospettiva indubbiamente antifascista e filo-democratica del regista. Ma, dopo tutto, ci si poteva aspettare di peggio.

Emmanuel Raffaele, 30 ott 2016

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