Questa domenica, 22 ottobre 2017, dalle ore 7 alle 23, tutti gli aventi diritti al voto con residenza nella regione Lombardia potranno partecipare al referendum consultivo sull’autonomia.
DI CHE COSA SI TRATTA?
Tutto nasce dall’articolo 116 della Costituzione che, dopo aver elencato le regioni italiane a statuto speciale, chiarisce che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia […] possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119″. In altre parole, le Regioni possono chiedere allo Stato maggiori competenze e di conseguenza maggiori risorse economiche per farvi fronte. Come è evidente anche dal testo costituzionale, non sarebbe stato necessario un referendum per avviare la trattativa tra Stato e Regione e fare approvare una legge che redistribuisca le competenze non esclusive dello Stato. Il governatore lombardo, però, lamentando la scarsa attenzione da parte del governo centrale sulla questione, ha deciso di far sentire comunque la voce dei lombardi, un passaggio secondo molti inutilmente costoso (si parla di oltre 50 milioni di euro).
ESITO NON VINCOLANTE E NON SERVE IL QUORUM
Dunque, il referendum, che si terrà nello stesso giorno anche in Veneto, ha una funzione meramente consultiva, l’esito non sarà vincolante e non produrrà conseguenze effettive. Perché il voto sia valido non sarà inoltre necessario raggiungere il quorum (dato che però peserà, naturalmente, da un punto di vista politico), come invece prevede lo statuto regionale della Regione Veneto.
DI QUALI COMPETENZE SI PARLA?
Le materie che le regioni possono chiedere di gestire in autonomia sono, come spiega ancora l’art. 116, quelle non esclusive dello Stato contenute nell’art. 117 (soprattutto al terzo comma) in cui la legislazione è concorrente tra Stato e Regioni. Per capirsi, si tratta principalmente di istruzione, tutela e sicurezza del lavoro, previdenza complementare e integrativa, ricerca scientifica e tecnologica, tutela della salute, tutela dell’ambiente e dei beni culturali, protezione civile, porti e aeroporti civili, rapporti internazionali e con l’Ue, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, casse di risparmio, ordinamento della comunicazione. Nel documento prodotto dalla Regione Lombardia per spiegare le ragioni e i propositi del referendum, però, si afferma anche l’intenzione (poco chiara in termini di legge) di “esercitare un’energica azione politica al fine di ottenere un’ancora più ampia competenza da declinare sul proprio territorio in materia di sicurezza, immigrazione ed ordine pubblico”.
LA LEGA ACCUSATA DI PROPAGANDA STRUMENTALE
Il decreto con il quale è stato indetto il discusso referendum è stato firmato da Maroni il 29 maggio scorso, a Cremona, nella sede della Provincia, in occasione della festa della Lombardia che (dal 2013) si tiene nell’anniversario della battaglia di Legnano (1176). In quella occasione l’esponente leghista, a conferma dell’impronta marcatamente politica data alla consultazione, dichiarò: “Sono contento ed emozionato. È il coronamento di tante battaglie, si realizza un sogno. Ora la parola passa al popolo”. In poche parole il referendum, che in ogni caso si distingue nettamente ed esplicitamente da quello della Catalogna per l’indipendenza, nasce con una caratterizzazione politica che sconfina rispetto al senso strettamente costituzionale che possiede e, al tempo stesso, giunge come coronamento della fase post-secessionista ma non rinunciataria della Lega (che non a caso vede un Salvini defilato sul tema ma, al tempo stesso, molto esposto sulla questione catalana).
A dimostrarlo, non solo il tema della questione immigrazione e sicurezza, ma anche l’obiettivo politico reale, più volte chiarito da Maroni: “A me non interessa avere maggiori competenze, quanto maggiori risorse, voglio tenere il 50 per cento del residuo fiscale, con le competenze che ho“. Insomma, la questione costituzionale in realtà pesa molto meno, nella testa dei leghisti, rispetto alla questione del “danè”, dei soldi lombardi che finirebbero nelle casse della solita “Roma ladrona” e delle regioni che contribuiscono di meno. Ecco perché la Lega ha fatto propaganda su questi fantomatici 27 miliardi di residuo fiscale che la regione potrebbe trattenere in caso di vittoria del si. Una promessa naturalmente del tutto propagandistica.
Questo, infatti, il testo del quesito referendario: «Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma della Costituzione?». La questione del residuo fiscale, ovvero la differenza tra le risorse economiche che la Lombardia gira allo Stato e quelle che invece riceve (stimato appunto in circa 54 miliardi), sarebbe eventualmente oggetto di trattative dall’esito per nulla scontato e comunque connesse alle competenze richieste. La Lega, insomma, sembra intenda utilizzare lo strumento costituzionale della redistribuzione delle competenze in modo puramente strumentale, col fine unico di avere più soldi e senza troppo interesse rispetto alle competenze. Ecco il perché delle ulteriori accuse di propaganda a spese dei contribuenti. Del resto, l’Emilia Romagna – governata dal centrosinistra – ha già chiesto allo Stato maggiori competenze in relazione all’art. 116 e l’ha fatto senza indire alcun referendum.
Sempre sul sito della Regione, in effetti, è anche possibile trovare un documento dal titolo: “Scopri perché la Lombardia è speciale“. “Questa ‘specialità’ – si legge già nell’introduzione contenuta nel documento precedentemente citato – si fonda su numerosi elementi oggettivi strutturali, sociali, economici, culturali nonché sulle potenzialità che ne esaltano il carattere particolare: imponente RESIDUO FISCALE, PIL procapite superiore alla media UE, un sistema sanitario eccellente a livello internazionale, un terzo dell’export nazionale, pagamento dei fornitori della Pubblica Amministrazione con anticipi record, debito pro-capite più basso d’Italia, efficienza e solidità finanziaria dell’Amministrazione Pubblica a tutti i livelli – Regione, Province, Comuni – testimoniata tra l’altro dal più basso rapporto tra numero dei dipendenti/costo e popolazione, nonché da un rating addirittura superiore a quello dello Stato”. Fattori, dunque, principalmente economici che riecheggiano vecchi temi leghisti: “La Lombardia”, è evidenziato subito nel documento, “è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica”.
OLTRE 50 MILIONI DI EURO SPESI PER IL PRIMO VOTO ELETTRONICO IN ITALIA
Sarà forse per recuperare che è stato dunque indetto un referendum costato, come detto, oltre 50 milioni di euro, 23 dei quali soltanto per l’appalto alla SmartMatic per la fornitura dei 24mila tablet che saranno distribuiti tra gli 8mila seggi per quello che sarà il primo voto elettronico in Italia (con grande gioia dei grillini). Per l’occasione, a parte i tradizionali presidenti e scrutatori, sono stati così reclutati da Diebold Nixdorf anche 7mila Referendum Digital assistant che, formati da ManPower, garantiranno l’assistenza tecnica necessaria. Lo scrutinio del voto, ovviamente, comporterà il semplice confronto tra il numero dei votanti ed il numero dei voti memorizzati. Verrà stampato un report riepilogativo mentre in un numero di seggi campione il voto sarà “misto”, nel senso che il tablet produrrà anche una sorta di stampa ad ogni voto che cadrà direttamente in un’apposita urna collegata alla stampante.
OMBRE SUL VOTO ELETTRONICO
Naturalmente, anche la questione del voto elettronico ha creato polemiche, dal momento che pone la questione della segretezza e sicurezza del voto. Il software è stato ovviamente certificato da una società esterna (Emaze) ma non sono comunque mancate le polemiche nei mesi scorsi. Giuseppe Civati, leader del movimento “Possibile”, ad esempio, ha puntato sull’opacità della SmartMatic: “Stiamo parlando della stessa azienda che nel 2006 è finita nella lista nera degli USA per il fiasco elettorale di Chicago (quando votarono addirittura i morti, come nella migliore tradizione cartacea) e il suo fondatore, Antonio Mugica, è accusato da tempo di essere stato vicino a Chavez e ai suoi eredi e di avere intenzionalmente manipolato le regole elettorali in Venezuela. Forse vale la pena ricordare anche che l’unica volta che Mugica ha concesso un controllo terzo dell’affidabilità dei suoi sistemi di voto (era il 23 novembre del 2005, in Venezuela, in presenza degli osservatori elettorali dell’Unione Europea e dell’OAS) è stato dimostrato come la segretezza del voto fosse gravemente compromessa”. Inoltre, l’inglese Mark Malloch-Brown, presidente dell’azienda, sarebbe anche membro della Open Society di George Soros (che sarebbe peraltro coinvolta anche nella questione catalana). Collegamenti che, in ogni caso, restano materia per complottisti fino a prova contraria.
Emmanuel Raffaele
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