Referendum, “autonomia” legittima se non avesse obiettivi anti-nazionali: Zaia e Maroni ben oltre la Costituzione

In Veneto, dove era previsto il vincolo del quorum per la validità del referendum, il 57,2% degli elettori ha votato e ben il 98% di loro ha chiesto al governo regionale di trattare con Roma maggiori spazi di autonomia e maggiori competenze. In Lombardia (dove il quorum non era necessario), anche se il dato è ancora non ufficiale per problemi tecnici che hanno rallentato lo scrutinio elettronico, a votare è stato circa il 40% ed il 95% ha chiesto la stessa cosa. Un buon risultato in Lombardia per il presidente Roberto Maroni, un vero e proprio successo per Luca Zaia in Veneto. “Nessuna gara con Zaia, ora uniamo le forze per la battaglia del secolo“, ha dichiarato il presidente leghista della lombardia in riferimento al risultato fatto registrare nella regione governata dall’altro esponente leghista che, a sua volta, ha affermato: “Vogliamo che i nove decimi delle tasse restino nella nostra regione: questo è il big bang delle riforme“.

Dichiarazioni che, al di là del reale successo politico, vanno evidentemente al di là del dettato costituzionale. Come avevamo già spiegato, infatti, il rischio preannunciato era proprio quello che la Lega utilizzasse strumentalmente l’art. 116 della Costituzione per fare propaganda e provare – più o meno seriamente – ad ottenere molto di più e molto altro rispetto a quanto la Costituzione prevede. Trattenere i nove decimi delle tasse o, come aveva già dichiarato Maroni, poter semplicemente tenersi più soldi rispetto a quelli versati a Roma, a parità di competenze, è infatti ben altra cosa rispetto alle autonomie (non l’Autonomia, appunto) che l’articolo in questione prevede come possibilità.

La Costituzione dà la possibilità alle regioni di condividere responsabilità, competenze e, soltanto di conseguenza, anche più risorse, le risorse corrispondenti a quelle necessità, senza riferimento ad un’autonomia fiscale di questa portata. Non si tratta di autogovernarsi e farsi gli affari propri, in prospettiva costituzionale, ma di farsi carico di uno sforzo di gestione in più per conto e nell’interesse dello Stato, senza che infatti venga meno il principio di sussidiarietà tra le regioni – ciò che avverrebbe di fatto con un’autonomia fiscale pressoché totale.

Insomma, come al solito, il diavolo si nasconde nei dettagli, ma stavolta non si è sforzato neanche troppo di farlo. Il voto ed il quesito referendario ponevano una questione legittima e, come ha dimostrato l’affluenza, la convocazione alle urne, nonostante la sua inutilità tecnica, poteva anche essere considerata una colpa minore rispetto alla possibilità di ampliare la partecipazione popolare in vista di una decisione cruciale e appunto sentita. Ma i commenti prima e dopo il voto hanno ampiamente dimostrato la strumentalizzazione del voto e l’utilizzo dell’art. 116 con spirito del tutto contrario al senso di unità nazionale che dovrebbe essere la premessa e l’orizzonte della concessione di quelle “autonomie” gestionali.

Una cosa è lottare per condividere gli sforzi e le responsabilità in nome dell’interesse generale, un’altra è volersi fare i fatti propri, puntare all’autonomia fiscale facendo peraltro l’occhiolino all’autonomia politica, rivendicare particolarismi inaccettabili. Il referendum, come abbiamo detto, era di per sé legittimo. Del tutto illegittime, invece, continuano ad essere le ragioni e gli obiettivi politici che hanno spinto Zaia e Maroni a spendersi tanto per farlo. Ragioni ed obiettivi che contano eccome, dal momento che si tratta di fare battaglie politiche anti-nazionali, di sprecare tempo e risorse e di prendere in giro gli elettori. Se Zaia e Maroni vorranno più competenze, più lavoro da fare, ben venga. Se quello che gli importa è soltanto mettere le mani sul bottino dei tributi destinati allo Stato in nome della vecchia battaglia contro “Roma ladrona”, invece, si facciano pure da parte.

Tanto più che, proprio i leghisti, sono gli stessi che si sono affrettati a volare in Catalogna per sostenere un vero e proprio attentato all’unità nazionale spagnola, applaudendo gli indipendentisti catalani in ogni sede possibile. E, a proposito di Catalogna, staremo a vedere cosa succederà nei prossimi giorni. Tra mercoledì e giovedì, infatti, dopo la scadenza dell’ultimatum dato al presidente della comunità catalana Puigdemont, senza che alcuna risposta sia pervenuta al governo centrale, in seguito alla convocazione di una seduta chiesta dai partiti indipendentisti, si potrebbe giungere al punto di rottura definitivo: la proclamazione della repubblica catalana. Una scelta che potrebbe portare anche all‘arresto dei responsabili, Puigdemont in primis. Nel frattempo, dall’Unione Europa continuano a venire segnali precisi: “nessun paese europeo riconoscerà la Catalogna come paese indipendente“, ha dichiarato il presidente del Parlamento Antonio Tajani, mentre Margaritis Schinas, portavoce della Commissione, ha spiegato che l’Ue “rispetta l’ordine costituzionale e giuridico spagnolo” e, proprio in nome dell’ordine costituzionale, approva le misure adottate dal premier Rajoy, il quale ha chiesto al governo di approvare un decreto per commissariare la Catalogna sulla base dell’art 155 della Costituzione della Spagna. Un commissariamento che il presidente del Consiglio aveva spiegato essere rivolto non contro l’autonomia spagnola ma contro il governo della comunità catalana che si era posto contro l’ordinamento: “non si sospende l’autonomia né l’autogoverno della Catalogna – ha detto Mariano Rajoy – ma si sospendono le persone che hanno messo la Catalogna fuori dalla legge“.

Convocare nuove elezioni, avere un nuovo governo in Catalogna e ritornare alla normalità: questa, dunque, la volontà espressa dal governo spagnolo che pure, Puigdemont, aveva azzardato definire – proprio lui che tenta la secessione – “un colpo di Stato” da parte del governo centrale. Anche Podemos, del resto, attento a non schierarsi con il premier per non giocarsi gli elettori, è venuto fuori con dichiarazioni cerchiobottiste in cui accusava il governo di aver sospeso la democrazia “in Catalogna e in Spagna” e di essere addirittura “sotto shock”. Le misure di Rajoy, definite anche dalla stampa nostrana “durissime”, si sono del resto limitate ad una prudente applicazione della Costituzione, contro chi la Costituzione l’ha evidentemente violata – così come attestato anche dalla Corte suprema spagnola. Pochi dubbi, dunque, per chi dichiara di essere per la legalità. A meno di non schierarsi per l’indipendenza e, a questo punto, rifiutare senza ipocrisia ogni velleità e linguaggio legalitarista.

Emmanuel Raffaele

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