Milano-Alicante in bicicletta: 1600 chilometri per riflettere su un mondo “low-cost”

Un percorso lungo (in linea di massima) mille e seicentodue chilometri, quindici giorni di pedalate, diciassette giorni in tenda in quindici posti diversi, tre Stati e centinaia di città attraversate, a partire dall’Italia, scivolando sulla pianura Padana, alla Francia, passando per le Alpi, fino alla Spagna, scavalcando i Pirenei. Un media di circa 107 chilometri percorsi ogni giorno, escludendo ovviamente due giorni di stop usati per riprender fiato ma anche le decine di chilometri in più fatti per errore. Zaino in spalla, caschetto sulla testa, borsa e tenda da campeggio sul portapacchi: la mia prima metà di giugno è trascorsa così, deciso più che mai a vincere la mia piccola sfida personale di arrivare, da amatore inesperto, da Milano ad Alicante usando la bicicletta come unico mezzo di trasporto.

Il crimine più grande che può commettere l’uomo contro se stesso è dimenticare di essere una creatura con radici salde nella terra e le braccia rivolte al cielo. Nonostante la connessione non sia immediata, c’è di mezzo anche questo nel racconto interiore della mia esperienza. Ma sul punto tornerò tra poco, dopo alcune considerazioni preliminari sulla bicicletta come mezzo di trasporto urbano. Vi invito, invece, a leggere “In bici dall’Italia alla Spagna: la mia esperienza e i consigli pratici sul percorso [FOTO]“, per avere qualche consiglio pratico sul percorso – nel caso qualcuno volesse replicare l’esperienza o semplicemente sapere qualcosa in più degli aspetti pratici -, e per condividere alcune riflessioni su alcuni aspetti “turistici” del viaggio intrapreso.

“PERCHÉ?”
In tanti, straniti, mi hanno posto la domanda. Ma la risposta autentica è un po’ più complessa di quelle che ho sciorinato di volta in volta per trami d’impaccio. Del resto, anche io non avevo subito chiara la risposta e proprio pedalare mi è servito a capire, non solo perché avevo scelto di pedalare, ma anche molto altro. Tranquilli: vi risparmierò le “lezioni di vita” che la strada affrontata mi ha insegnato, se non altro perché, da quel punto di vista, soltanto l’esperienza diretta è maestra ed ogni altra riduzione “didattica” risulterebbe soggettiva o presuntuosa. L’unico obiettivo è rendervi partecipi di alcune riflessioni nate da questo interrogativo.

IN BICI PER LA CITTÀ: UNA PASSIONE CHE FA BENE AL CORPO E ALLA MENTE
Di base c’è che avevo acquistato due biglietti low-cost per un viaggio di andata e ritorno in aereo ma poi, grazie ad una disponibilità di tempo maggiore del previsto, ho buttato via i tickets e ho deciso di partire in bicicletta. È evidente che non è stata una scelta altrettanto low-cost, né altrettanto comoda, rapida e indolore. È stata, al contrario, una scelta del tutto illogica, e proprio questa illogicità nasconde l’interrogativo implicito. Aggiungo che, peraltro, non ero pronto fisicamente ad una cosa del genere: pur avendo praticato diversi sport, non ho mai affrontato una vera preparazione atletica e, quanto alla bici in particolare, l’avevo acquistata più o meno due mesi prima. La usavo per gli spostamenti quotidiani (soprattutto lavoro/casa per dodici/quindici chilometri al giorno) e ci ho fatto una gita a Monza. Fine della storia.

Ma c’è che, nel frattempo, è scattato qualcosa che ha smosso dapprima la “superficie”. Ero in giro per Milano in bici, sulla strada fatta tante volte con i mezzi per andare a lavoro. Poi, un paio di pedalate “fuori pista”, e mi ritrovo davanti i Giardini della Guastalla: non ci ero mai dovuto passare e mi ero perso questo splendido angolo di verde e architettura tipicamente italica con tutta la sua storia. Ne approfitto e continuo e scopro, più nascosta, la sinagoga di Milano e la sua stupenda facciata. Torno indietro, cambio strada e, dopo un po’, sono di fronte alla Basilica di Santo Stefano Maggiore. Ci passavo accanto ogni giorno ma era fuori dal percorso obbligato e non l’avevo mai saputo della sua esistenza. Grazie a piccole deviazioni dal solito itinerario e soste impreviste, che potevo ora permettermi più spesso grazie all’agilità del mezzo, iniziava a capitarmi più spesso di scoprire scorci di città che non avevo mai visto o notato andando in giro con i mezzi o a piedi: un parco, una chiesa, una targa, un monumento, una via nascosta, una risaia nascosta tra i palazzi, pezzi di storia di una Milano che, percorrendola in sella, mi diventava d’improvviso ancor più familiare.

L’alba da qualche parte presso Eza (Francia)

IL MONDO FUORI DAI PERCORSI OBBLIGATI
Ma ho anche iniziato a percepire gli spazi e le distanze per quel che sono, senza la lente deformante delle attese alla fermata, del traffico, della strada più o meno veloce, dei percorsi prestabiliti, delle stazioni della metro. Mi sono appropriato degli spazi, vivendoli più da vicino e, al tempo stesso, ho cominciato a poterli collocare più chiaramente. E intanto mi rendevo conto che, molte persone abituate ad usare i mezzi pubblici (metropolitana soprattutto) per qualunque spostamento, non avevano una reale consapevolezza di quegli stessi spazi e non avevano, quindi, una vera conoscenza della città. Assuefatti ai percorsi obbligati, si lasciavano sfuggire particolari che rappresentano l’essenza di un centro e della sua identità. Mi rendevo conto che il mezzo pubblico ti porta a destinazione e lo fa secondo un criterio razionale, in maniera più o meno rapida e che, di per sé, il tempo trascorso su un mezzo è tempo perso, che puoi tutt’al più impiegare a fare altro, quando è possibile. Il tempo che usi per spostarti e per viaggiare, però, non è più sprecato se lo usi per scoprire cose nuove. Mi sono reso conto, così, che spostarmi in bicicletta mi consentiva un arricchimento in termini di conoscenza. E mi sono reso conto che le distanze non corrispondevano a quelle percepite e che, in molti casi, tra l’altro, spostarsi in città è molto più rapido e comodo in bicicletta che su un mezzo pubblico o privato. Non solo risparmiavo traffico e attese tagliando nettamente i tempi necessari per arrivare da un punto all’altro, ma anche qualitativamente mi rendevo conto di stare impiegando meglio quel tempo, per le motivazioni di cui sopra e non solo. Innanzitutto, nonostante il mio lavoro decisamente non preveda di stare seduto in scrivania e io non sia un tipo esattamente sedentario, il mio corpo rispondeva con una sensazione di accentuato benessere psico-fisico: il movimento quotidiano faceva bene al corpo, alla mente e, al tempo stesso, stava eliminando tutto lo stress da attese, ansie da imprevisti, ritardi, corse soppresse, minuti contati, spazio ristretto sui mezzi affollati e problematiche connesse (basti pensare allo squallore deprimente di alcune corse notturne). Si, sostituire la bici ai mezzi pubblici o, ipoteticamente, all’automobile, si era rivelata una scelta ottima da ogni punto di vista ed arrivavo a preferirla anche in caso di pioggia.

CHI TE LO FA FARE?”
È comunque evidente che queste considerazioni , nonostante spieghino il mio “innamoramento” e sostegno alla bici come mezzo di trasporto urbano (non pretendo di imporre o sostenere soluzioni anti-moderne in nome della sostenibilità), non restituiscono ancora il “perché” del viaggio nel quale, come anticipavo, seppur in scala ridotta, c’è un qualcosa di illogico e irrazionale al contrario del discorso portato avanti finora. Anche se, al netto delle riflessioni più concrete, rimangono di base i concetti di appropriazione degli spazi e percezione consapevole delle distanze e dei tempi. E’ stupefacente, infatti, rendersi conto di quanto sembrino lontani eventi vicinissimi se nel frattempo hai vissuto quel lasso di tempo molto intensamente. Ma il punto principale si nasconde dietro il paragone scontato sui tempi: avrei potuto percorrere la stessa distanza in due ore d’aereo, seduto e al fresco. Ho invece impiegato 15 giorni di fatica e sudore, rischio e incertezza. L’enorme – e un tempo impensabile – differenza nei tempi si ferma ad una comprensione teorica finché ti limiti a leggerla e a pensarla. Diventa un fatto che vivi nella tua carne se quella differenza la sperimenti. Ciò vuol dire che, in maniera inizialmente inconsapevole, in me è nato l’istinto di vivere un’esperienza in qualche modo “anti-moderna”, anche se questo non va frainteso, come ho accennato e come andrò a spiegare. I voli low-cost sono una cosa meravigliosa in sé, così come l’invenzione dell’automobile ma, come ogni cosa che facilita, portano con sé il germe dell’indolenza e della superficialità. Un’ora per trasferirsi a Londra, un’altra per visitare Parigi, tre ore per spostarsi nel continente più vicino, meno di un giorno per attraversare oceani ed andare dall’altra parte del mondo aprono possibilità enormi rispetto ai secoli scorsi, salvo ricordarsi che tutto ciò non è scontato, che non è “natura”, che non è sempre stato così semplice e salvo ricordarsi tutto quanto di grandioso e bello sta nelle cose difficili.

Sulla strada tra Cannes e Frejus (Francia)

QUELL’ISTINTO ANTI-MODERNO CHE VIVE IN NOI (E CHE STIAMO UCCIDENDO)
Ecco che torna e che proverò quindi ora ad approfondire, come promesso, la mia osservazione di partenza: radici nella terra e braccia rivolte al cielo, non per dare al mio viaggio un significato più alto di quel che ha, ma per chiarire cosa c’è dietro quell’istinto che vive e si manifesta in diverse occasioni, con più o meno forza, in ciascuno di noi ed al quale ho dedicato più di qualche pensiero nel corso delle mie giornate on the road. Oltre la materia e la realtà visibile e “finita”, infatti, l’uomo insegue l’infinito. Soltanto una visione dualista ingannevole, però, vede in questa dinamica una opposizione, allo stesso modo in cui libertà assoluta e socialità assoluta – il paragone, del resto, non è estraneo al tema – confliggono ma è nel punto di equilibrio e non di rottura tra i due termini che sta la soluzione, la sintesi.

Le civiltà sono fondate sulla ricerca di condizioni migliori di vita materiali e morali (comodità e regole, protezione e affetti, ecc.). Nella comunità l’uomo cerca la protezione ed il calore, lo scambio interessato e l’identità collettiva. Ci sono entrambi gli elementi, quello utilitarista e quello morale, alla base dei raggruppamenti sociali, non soltanto uno né soltanto l’altro. E, allo stesso modo, nell’uomo c’è una natura animale e c’è un’essenza spirituale.

ECCO PERCHÉ’ CERCHIAMO LA SFIDA E IL RISCHIO
La ricerca del comfort, del bello e dell’ordine, la speculazione filosofica e la ragione, la tensione spirituale e la giustizia non sono sovrastrutture, non sono elementi “moderni” e sono tutte segno della stessa propensione dell’uomo ad andare oltre la natura e la dimensione animalesca. La “città” stessa è architettonicamente ed esteticamente un tentativo di “razionalizzazione” del paesaggio e, non a caso, questo aspetto è presente anche simbolicamente negli atti di fondazione antichi: tracciare i confini che separano l’ordine dal caos.

Allo stesso tempo, però, la routine ci fiacca, la prevedibilità ci indebolisce e ci stanca, l’ordine totale ci opprime, perché la nostra natura animale muore di questi eccessi. Ed ecco perché, nella società del rischio controllato, in cui vige l’ossessione della sicurezza e non apprendiamo più l’approccio al rischio, siamo sempre più preda di paure e preoccupazioni ma, al tempo stesso, non possiamo fare a meno di cercare la sfida ed il rischio. L’istinto animale, quell’insieme di conoscenze di base per la sopravvivenza che un tempo si imparavano per necessità, sono “nozioni” ormai dimenticate: a difenderci dai rischi ci pensa sempre qualcun altro.

C’è chi controlla per noi se il farmaco che prendiamo non ci farà male, chi testa il nostro cibo, le pareti che ci proteggono, l’auto che guidiamo, chi ci difende da chi vuole farci del male, chi uccide per noi gli animali che mangiamo. Esperienze come quelle di procurarsi il cibo, saper distinguere ciò che è commestibile da ciò che non lo è, sapersi costruire un rifugio, sapersi costruire una casa, sapersi difendere, alla base della nostra natura animale, sono ormai conoscenze di cui ignoriamo totalmente la pratica, diventate tuttalpiù argomento di riviste specializzate poiché siamo bravissimi a trasformare in moda anche i residui sani di conoscenze tradizionali (si pensi allo yoga). Tutte queste cose non solo non sappiamo più farle ma, per legge, a volte non siamo più liberi di farle (vedi concetto di “monopolio radicale”). È la suddivisione del lavoro, certo. In parte è così ed in parte è normale ed auspicabile che avvenga (seppur la maggioranza è costituita da una manovalanza inconsapevole anche degli strumenti utilizzati, con le uniche potenzialità di essere consumatori o disoccupati).

Dimentichiamo, però, il punto di equilibrio. Soprattutto dacché questa “delega” comprende le conoscenze essenziali per la nostra sopravvivenza, nell’illusione che un progresso materiale illimitato, imprescindibile e garantito le renda superflue e che la nostra identità di specie possa mantenersi sana anche senza possederle e metterle in pratica. Infatti, a parte l’analisi sociale e sociologica che ne consegue e che non mira certo a criminalizzare in sé gli strumenti acquisiti, il punto è un altro: approfittando dei nuovi strumenti per facilitarci la vita, non ci siamo limitati a cambiare l’organizzazione della nostra società, ma abbiamo anche cambiato noi stessi, divenendo di fatto schiavi di questi strumenti. Al di fuori della civiltà moderna, l’uomo moderno non saprebbe sopravvivere. E questo ne fa un uomo a metà, non un “uomo integrale”. Ma non deve per forza essere così.

Del resto, mentre seppellivamo la nostra parte “animale”, non è che la ricerca del bello, le sottigliezze ideologiche, la filosofia e il diritto abbiano fatto grandi progressi, se non giungere all’estremizzazione parossistica dei concetti diventando spesso fine a se stessi. In breve, perdendo l’equilibrio tra le nostre due nature, nessuna delle due ci ha guadagnato, perché la soluzione ad ogni dualismo è, appunto, soltanto nell’equilibrio. Orde di persone mentalmente instabili, stressate, depresse, in crisi di panico, ansia, dipendenti dalle sostanze più varie sono il risultato di una società che, pur nel tentativo di sdoganare il proprio “inconscio”, lo ha totalmente inibito, censurato e demonizzato. Siamo totalmente succubi del sistema che ci siamo creati e viviamo nell’incubo di due alternative contrapposte: un sistema sempre più rassicurante ma anche sempre più schiacciante ed opprimente ed un sistema che, quando ci lascia liberi, ci lascia soli in preda ai pericoli, come bambini incapaci di stare senza la presenza degli adulti.

L’Occidente vive una situazione del genere, assuefatti e ormai incapaci anche di difenderci ed, anzi, quasi imbarazzati all’idea di doverlo fare. Cos’è, del resto, il veganesimo se non una reazione moralista che risponde al semplice pudore e alla candida ammissione di non essere più capaci di fronteggiare la violenza della natura? L’uccisione degli animali per conto terzi ci fa sentire giustamente in colpa per la nostra vigliaccheria e allora diventiamo vegetariani o vegani. Scelta legittima, per carità, ma possibile soltanto nella società che mira ad azzerare i rischi. E che non ha nulla di “naturale”.

D’altro canto, artificiale è diventata anche la socialità, ridotta a compagnia consumistica utile soltanto a nascondere a se stessi una solitudine che è silenzio interiore e distacco dal prossimo. La ricerca febbrile ed insaziabile del gruppo di fronte ad una noia che non smette di consumarci ne è il sintomo maggiore. E tutto questo lascia strascichi di insoddisfazione il cui urlo si sente oggi più forte che mai, con i raptus distruttivi da oppressione o, in opposizione alla società del cemento, con le fughe utopistiche verso un riavvicinamento alla natura intesa come realtà idilliaca e ideale. Ma la natura non è idillio e la nostra parte animale non è buona o cattiva. È semplicemente animale, violenta o solidale, ma innanzitutto mortale e debole. Lasciar morire la nostra parte animale mentre siamo in vita equivale a fiaccare il nostro spirito perché è nella carne e nel sangue che lo spirito mostra la sua forza, come nella carne e nel sangue ha mostrato la sua statura divina persino il Cristo, perché sono carne e sangue gli strumenti che abbiamo per “far agire” il nostro spirito, la nostra volontà. Il resto è mente, è chiacchiera.

Ultimo giorno, il sole è appena sorto nei campi dopo Cullera (Spagna)

EQUILIBRIO INTERIORE: IL GIUSTO MIX TRA TENSIONE SPIRITUALE ED ISTINTO ANIMALE
Non pensavo ovviamente a niente di tutto questo quando ho scelto di fare mille e seicento chilometri in bici, né la mia esperienza, come ho detto, ha a che fare con tutto questo, se non per il fatto che a tutto questo mi sono trovato a pensare pedalando, affrontando salite che mai avrei pensato di superare, discese che ripagavano gli sforzi e pianure che indebolivano la volontà. Perché scoprivo che a sospingermi c’era proprio quel bisogno di rischiare, quel bisogno di incertezza, quel bisogno di libertà, quel sottile piacere che sta nella sfida, quella tempra che nasce dal sacrificio e che, se accompagnati da tutto il resto, sono ingredienti essenziali del nostro equilibrio interiore.

Nella ricerca della sfida con se stessi e con gli altri, è la nostra parte animale che si sveglia e vuole provare se stessa. “Ok, oggi è tutto più facile, chissà se ci sarei riuscito quando non lo era”. E allora, come in questo caso, parti e insegui il sogno della “strada” per poi renderti conto che, anche in una tenda, l’uomo cerca sempre la casa, la ragione, affetti e la fatica ed anche il sudore stimola lo spirito. Laddove c’è fuga dal pericolo e ricerca del consenso a tutti i costi, la nostra parte animale ci spinge, quando ne vale la pena, a rischiare, a non rinunciare sempre, a superare le nostre paure, inclusa quella della solitudine. “Ma perché vai solo? Non ce la farei mai!”. La solitudine fa paura e ci imbottiamo di folle-placebo che non ci guariranno mai, laddove la sensazione negativa della solitudine ha più a che fare con la qualità che col numero. Programmiamo anche a lungo termine il dovere del divertimento che ormai corrisponde al “fare cose” e consumare esperienze come si trattasse di prodotti da utilizzare, del tutto slegato dalla spontaneità di stati d’animo e situazioni che ci rendono allegri e, automaticamente, ci divertono.

Ma, una volta compreso che i legami affettivi essenziali sono indispensabili al nostro equilibrio quanto la giusta dose di solitudine attiva, è la capacità di stare solo che ti fa andare dritto per la tua strada, senza la ricerca di un consenso a tutti i costi che spesso vuol dire conformismo e adeguamento rispetto ai comportamenti comunemente accettati o desiderati dalla comunità di riferimento a cui apparteniamo e/o scegliamo per sentirci più normali. Agire in maniera “insolita” isola o fa di te un esempio da seguire: ma nei pochi casi luminosi che ci ha regalato la storia, come quello del Cristo morto da solo sulla croce, le cose spesso avvengono entrambi, anche se in tempi diversi. Da un punto di vista interiore, però, tutto questo non importa; del resto, non è l’agire insolito di per sé a determinare la bontà dell’agire. E’ semplicemente un fatto che, da un punto di vista esteriore, il non agire secondo un codice condiviso rende poco prevedibili, quindi poco conoscibili e quindi estranei, perché l’uomo tende a schematizzare per semplificare il processo di comprensione, ecco perché ha bisogno delle etichette (spesso davvero necessarie). Ed è per lo stesso meccanismo per cui un atteggiamento di dis-interesse e idealismo massimo, che non risponde ad alcuna convenienza, oggi pone fuori dagli schemi. La norma è relativa ma le logiche sono piuttosto ripetitive nel perpetuarsi.

Ciò che conta, comunque, è che senza fatica, sacrificio e rischio, non c’è vera vita poiché è assente la volontà. Rimane un continuo adeguarsi, schivare e nascondersi. Niente di bello e di grande, però, è stato mai fatto nascondendosi, tanto meno nascondendosi da se stessi. È lì, è nella carne, che scopri la differenza tra cedere e fallire. Perché fallire è lecito, in quanto uomini, deboli, mortali, limitati. Cedere, però, vuol dire arrendersi prima, senza averci davvero provato fino in fondo, senza aver dato il massimo. Si può fallire senza perdere, dunque, perché si è provato con coraggio, si è affrontato lo sforzo e la paura, si è cercata la vittoria nella nostra “grande guerra santa”, quella spirituale. Se si cede, invece, non c’è altro che la sconfitta. E quella dipende soltanto da noi poiché la scelta che manifesta una volontà è atto di creazione, è vita. Gli obiettivi che ci poniamo sono l’incarnazione della nostra forza creatrice. Il carattere decisionale degli obiettivi, che li pone al di sopra agli accadimenti fortuiti, rappresenta la nostra volontà che si staglia contro il piattume dell’inazione e dell’attesa, del destino e della predeterminazione. È per questo che la pianura ha la bellezza cupa del vuoto, la collina ha la bellezza florida della vita, la montagna ha la bellezza dell’inaccessibilità ed il mare la bellezza dell’infinito.

Ecco perché è indispensabile un approccio alla natura scevro da ogni visione idilliaca ed utopistica, pregnante invece del senso di sacrificio e incertezza che la caratterizza ai nostro occhi. Perché la natura, ricordandoci la nostra mortalità e debolezza, è la prima sfida da superare. Nessuna civiltà che metta da parte tutto questo farà mai crescere uomini integrali, sani psicologicamente e fisicamente. La salita, se non è tale da stroncarti, ti forma e ti responsabilizza, ti dà l’idea di esserti guadagnato la discesa, a non trascurare i dettagli, a non essere superficiale e ti insegna la pazienza.

“Senza fretta ma senza tregua”: questo è il metodo migliore per arrivare alla vittoria.

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