
Ma è stata la deviazione ideologica marxista ad imporre l’idea che la lotta di classe dovesse portare per forza alla “dittatura dei lavoratori” e/o alla scomparsa dello Stato, del mercato e all’azzeramento di ogni differenza sociale.
E’ quindi necessario ripartire da lì, depurando però ogni analisi da pregiudizi ideologici.
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Ma, in una prospettiva banalmente bidimensionale, per cui stai con i lavoratori o stai con i “padroni”, è normale che nessuno schieramento abbia dato peso ad un’altra “lotta di classe” che la globalizzazione ha acutizzato: quella tra le (piccole e medie) imprese e le imprese multinazionali, tra capitale produttivo e capitale finanziario.
LA POLITICA GUARDA ALTROVE
La cosiddetta sinistra radicale non se ne accorge proprio perché è rimasta agli schemi già vecchi nell’Ottocento, ragion per cui, anche volendo, la riterrebbe una irrilevante invenzione “fascista” a difesa della classe borghese.
La cosiddetta sinistra radicale non se ne accorge proprio perché è rimasta agli schemi già vecchi nell’Ottocento, ragion per cui, anche volendo, la riterrebbe una irrilevante invenzione “fascista” a difesa della classe borghese.
Il resto della sinistra si è riconvertita ai diritti civili, non ha più una visione dell’economia alternativa al liberismo ed ha del tutto dimenticato le questioni economiche.
La destra radicale, invece, spreca spesso risorse in una retorica spicciola e molto raramente prende in considerazione misure che non siano soltanto correzioni al sistema liberista, con l’unica variante della “sovranità economica” a distinguerla (anche se, è da ammettere, già questo non è poco).
Ma riconoscere la realtà di questa lotta è fondamentale per riscrivere le regole della globalizzazione.
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LE IMPRESE IN TRAPPOLA
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LE IMPRESE IN TRAPPOLA
Innanzitutto, come abbiamo evidenziato in un precedente approfondimento, ci sono da risolvere le questioni immediate (pressione fiscale e burocrazia), che in molti notano ma in pochi colgono nelle sue conseguenze sistemiche (la fine della piccola e media impresa come attori centrali dell’economia).
Il costo per l’assunzione di un lavoratore con retribuzione annua di 19.917,93 euro è pari a 26.780,88, ciò vuol dire che uno stipendio lordo di 1660 * euro, costa al datore di lavoro qualcosa come 2230 euro, tra Inps, Inail e Tfr. E stiamo parlando di un solo lavoratore. Eppure il futuro delle nostre pensioni è quanto mai incerto e, ci spiegano, senza immigrati, l’Inps rischia di non avere risorse sufficienti.
Una pressione fiscale al 60% è una vera e propria guerra alle imprese che, al contrario delle multinazionali, non possono godere dei vantaggi fiscali di sedi fiscali estere (che li porta ad una pressione fiscale in genere dimezzata), né degli stessi vantaggi in termini di costi delle forniture (più acquisti, meno paghi), né dello stesso margine di profitto (per i fattori elencati e per le dimensioni stesse del mercato a cui si rivolgono). Senza contare il potere di influenza sia politico che economico (avete mai sentito parlare di “attrarre finanziamenti dall’estero” o lo slogan “too big to fail” – “troppo grandi per fallire”?) capace di creare ulteriori vantaggi e di scavalcare gli Stati nel processo decisionale.
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Allo stesso tempo, la moltiplicazione normativa e la lentezza burocratica (238 ore annue da dedicare a ben 14 scadenze differenti) rappresentano una vera e propria barriera all’ingresso, alla faccia della libertà di iniziativa economica e del libero mercato.
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CAPITALE FINANZIARIO CONTRO CAPITALE PRODUTTIVO
CAPITALE FINANZIARIO CONTRO CAPITALE PRODUTTIVO
Ma il fattore principale è, senza dubbio, la delocalizzazione della produzione, che apporta enormi vantaggi in termini di costi alle multinazionali ed è all’origine di un circolo vizioso di cui sono vittime, non solo i lavoratori, ma le stesse pmi che ancora producono in Italia, per le quali delocalizzazione e/o approvvigionamento dell’estero sono ormai l’unica speranza per sopravvivere.
L’assenza di misure protezionistiche per merci e capitali è la causa di questo sistema.
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La speculazione ne è l’estrema conseguenza: è solo grazie alla deregolamentazione in materia che il capitale finanziario si è potuto impossessare dell’economia e invertire i termini. Se in linea teorica la “finanza” serviva a sostenere il capitale produttivo, siamo finiti in un sistema in cui la produzione è solo una funzione marginale dell’investimento, che “fa vita a parte” e, piuttosto, si serve della produzione a fini speculativi.
Regolamentare, quindi, i flussi di capitali è essenziale.
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In una economia così globalizzata, senza “frontiere economiche”, le piccole e medie imprese non hanno futuro. Perciò non sono gradite agli economisti.
Il sottodimensionamento delle aziende, dal punto di vista macroeconomico, è un ostacolo alla crescita della produttività, della redditività e della produzione stessa.
Ed è un problema comunemente trattato nei manuali e in sede analitico-decisionale.
Le piccole aziende sono meno competitive rispetto ad una multinazionale e alle spa che si finanziano sui mercati.
Sono come pesci piccoli che vengono “mangiati” dai pesci più grossi; creature umane contro creature della finanza.
A resistere, con tutte le difficoltà elencate, possono essere solo le produzioni di nicchia.
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Ora, una schizofrenica politica economica, di tanto in tanto, continua a dare incentivi alle piccole e medie imprese, ma è chiaro che, sul lungo termine, non ci sarà futuro senza un intervento sistemico.
Ed è proprio la mancanza di interventi simili che rivela la guerra nascosta alle pmi: ci si pulisce la coscienza, mentre si rimane neutrali rispetto alla loro lotta per la sopravvivenza.
Protagonisti di questo atteggiamento pilatesco sono i “moderati” di sinistra e di destra, che hanno campo libero nel portare avanti politiche economiche tutte d’impronta liberista, con poche variabili concrete.
Da una parte e dall’altra si assiste, al massimo, a battaglie di retroguardia: salvare una singola impresa, salvare i lavoratori di una singola impresa, nel migliore dei casi difendere lo Stato sociale.
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UNO STATO SOCIALE VERO INTERVIENE NELL’ECONOMIA
UNO STATO SOCIALE VERO INTERVIENE NELL’ECONOMIA
Si dimentica, però, che lo Stato sociale (da difendere comunque con le unghie e con i denti in mancanza d’altro) in un sistema liberista, è solo assistenzialismo: si mette una toppa qua, si offre un contributo là. Anche chi, come il Movimento 5 Stelle, propone il reddito di base universale non lo fa nell’ottica di una riscrittura delle regole di mercato.
Ma uno Stato propriamente sociale è uno Stato che interviene nell’economia.
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Le piccole e medie imprese non possono arrivare ovunque.
Ecco perché, laddove non possono arrivare, ci deve essere lo Stato e non il capitale finanziario.
Il fine deve essere quello di liberalizzare e facilitare l’accesso al mercato dal basso, per chiudere o limitare invece l’accesso al mercato “dall’alto”, impedendo una competizione impari tra economia reale e finanza, soprattutto estera.
Perciò, laddove le economie di scala e il dimensionamento verso l’alto delle imprese è indispensabile alla sopravvivenza di un sistema economico contemporaneo, lo Stato ha l’obbligo di intervenire e/o regolamentare.
E laddove è in gioco l’interesse nazionale, lo Stato ha l’obbligo di essere presente.
Settori come le infrastrutture, i trasporti, l’approvigionamento energetico, le comunicazioni, la scuola, la sanità, la ricerca non possono essere lasciati al privato.
Ma anche la produzione di beni primari, che hanno importanza strategica – generi alimentari e materiale sanitario per esempio -, seppur privata, non può essere regolata soltanto dal libero mercato, col rischio di essere dipendenti da altri Paesi in situazione di emergenza.
Le filiere produttive, soprattutto in questi casi, vanno stimolate ma anche tutelate dalla “concorrenza sleale”.
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In primo luogo, predisponendo una normativa che tuteli la sicurezza nazionale, la produzione locale e, quindi, il mercato interno.
In secondo luogo, tornando, laddove necessario, alle nazionalizzazioni, alle partecipazioni pubbliche e alle controllate.
Ciò non significa sempre e solo gestione pubblica. Non serve essere manichei.
La gestione diretta non è un obbligo, purché il privato non sia soltanto quello che intasca i profitti mentre lo Stato investe.
Purché la gestione privata sia conveniente per lo Stato e per i cittadini, mantenendosi efficiente e non speculativa (vedi Autostrade per esempio).
E a condizione che vengano messi a punto meccanismi di controllo impeccabili.
Pensiamo, in questo caso, ad esempio, anche al servizio idrico e alla gestione dei rifiuti, tra finte privatizzazioni che hanno soltanto tolto alle sedi di rappresentanza politica il potere decisionale e invasione di campo delle multinazionali.
La sinistra moderata è stata protagonista della loro privatizzazione. Riappropriarsi della decisione politica deve essere la parola d’ordine.
Se verrà restituita alle imprese italiane e allo Stato la possibilità di operare, di produrre e di creare lavoro in maniera privilegiata, sostenendo quindi la domanda interna, non ci sarà più bisogno di sperare negli afflussi di capitali dall’esterno o di temerne la fuga.
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La crisi seguita all’emergenza da coronavirus che stiamo vivendo ha solo confermato che i mercati non si mantengono in equilibrio da soli e che, com’è ovvio, non rispondono alla funzione di difesa del bene comune né dei cittadini/consumatori. Perfino Draghi ha invocato aiuti illimitati per salvaguardare l’economia, ovvero evitare l’apocalisse dei mercati. Senza l’intervento dello Stato, oggi, in pochi resterebbero in piedi tra le piccole e medie imprese. Ma anche le grosse banche, in passato, hanno avuto bisogno dello Stato per salvarsi. Colossali aiuti per evitare che provocassero un effetto domino sull’economia.
E sempre la crisi attuale ha messo in mostra i limiti della interdipendenza in un sistema economico globale.
Per questa ragione, il sistema economico deve avere, prima di tutto, solide basi nazionali e, solo entro questi limiti, aprirsi alla “finanza” e ad una giusta e inevitabile cooperazione a dimensione continentale e globale, senza lasciarsi sfuggire le dinamiche geopolitiche della cooperazione.
Unicamente sulla base di questa competitività limitata è oppotuno aderire ad un blocco continentale europeo di Stati sovrani, che sia un valore aggiunto e non un rischio per la nostra economia.
Ed è chiaro che, in questa prospettiva, riappropriarsi della banca centrale e della moneta è la conditio sine qua non.
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UN NUOVO MODELLO EUROPEO TRA SOCIALISMO E MERCATO
UN NUOVO MODELLO EUROPEO TRA SOCIALISMO E MERCATO
Qualcuno potrebbe definire un modello simile “economia socialista di mercato”.
Ma, a parte la diffidenza per le etichette e ciò che comportano, è opportuno prendere decisamente le distanze dal modello cinese per costruire, piuttosto, un nuovo modello europeo.
Ma, a parte la diffidenza per le etichette e ciò che comportano, è opportuno prendere decisamente le distanze dal modello cinese per costruire, piuttosto, un nuovo modello europeo.
L’esperienza marxista ha fallito ma la Cina – pur nell’ammissione implicita di questa realtà attraverso la costituzionalizzazione di questa espressione e la parziale liberalizzazione del mercato – ne ha colpevolmente conservato l’impostazione istituzionale (monopartitica) e ideologica.
La libertà individuale, la libertà economica, la concorrenza delle idee e delle imprese, sono invece conquiste irrinunciabili del patrimonio politico-culturale europeo. Lo Stato deve entrare in gioco solo in virtù della rilevanza nazionale, in una chiara separazione delle competenze rispetto al privato.
Ed, anzi, a difesa del privato.
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UNO STATO DEL LAVORO PER VINCERE LA LOTTA DI CLASSE
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UNO STATO DEL LAVORO PER VINCERE LA LOTTA DI CLASSE
Messo in chiaro questo aspetto, ribadiamo quanto detto all’inizio: il ruolo della “lotta di classe” tra lavoratori e imprese non è però affatto concluso: i diritti rimangono qualcosa da salvaguardare e l’organizzazione della produzione ha un suo preciso ruolo in questa prospettiva, con ampie possibilità, soprattutto oggi, di essere rivista a favore di dinamiche più vicine all’idea di uno “Stato del lavoro”, anziché del capitale.
Un dibattito senza pregiudizi, privo di conclusioni già scritte, sulla partecipazione dei lavoratori alla proprietà e alla gestione delle imprese, unitamente ad una riscrittura del diritto del lavoro tesa a rifondare le relazioni tra lavoratori e datori di lavoro su basi paritarie, rientra ad esempio in questa ottica e non si allontana, peraltro, dal dettato costituzionale.
Il sistema conflittivo legato al sindacato e lo stesso dualismo dipendente-impresa sono del tutto superabili nel momento in cui i lavoratori partecipano attivamente al processo decisionale o alla proprietà in maniera sistematica e non marginale.
Anche in questo caso, non bisogna per forza cercare soluzioni nel passato.
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In conclusione, per costruire uno Stato del lavoro, nessuno dimentichi i diritti dei lavoratori, ma neanche quelli delle imprese.
L’Italia, con un po’ di coraggio, può ancora essere il laboratorio politico del mondo. Di certo, senza una politica lungimirante e senza una visione del mondo chiara, non possiamo pensare di “governare la globalizzazione”: ne saremo sempre vittime.
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Emmanuel Raffaele Maraziti