Per affrontare l’ermegenza Covid-19, il governo Conte ha messo al momento a disposizione 25 miliardi, con un effetto “leva” – secondo il ministro dell’Economia Roberto Gulatieri – di 350 miliardi. Lo stesso Conte ha ammesso che non saranno sufficienti e, ad aprile, sono attese ulteriori misure. Il crollo annunciato del Pil, del resto, sarà di portata storica, con effetti disastrosi sul presente ma, soprattutto, sul futuro.
Tra le misure a sostegno delle imprese, ha fatto però discutere soprattutto il bonus di 600 euro, quello che, inizialmente, sembrava dovesse essere un “premio” una tantum per pochi “fortunati”, assegnato in una sorta di “click day”, e che, in seguito alle proteste, dovrebbe invece essere confermato anche ad aprile per tutti gli autonomi.
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Ma cosa pensano i piccoli imprenditori del decreto “Cura Italia”?
Perché questi malumori? Davvero è tutta colpa del coronavirus?
Per avere qualcosa risposta, abbiamo provato a fare queste domande direttamente ad una “partita iva”.
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Antonio Alfieri, 39 anni, opera nel settore della ristorazione da ben 15 anni e, attualmente, nella sede principale della sua attività a Catanzaro, dispone di 16 dipendenti, ovviamente tutti regolarmente contrattualizzati. La sua sfida, nel contesto economicamente difficile del sud Italia, è stata quella di puntare all’innovazione e curare tutto nei dettagli: ecco perché nel suo Tortuga Pub, frequentatissimo locale nel quartiere marinaro del capoluogo di regione calabrese, la formazione, l’aggiornamento e la sperimentazione hanno sempre avuto un ruolo centrale. Una filosofia che, nel tempo, lo ha spinto ad affiancare al suo ristorante ben due laboratori, uno di panificazione ed uno di cucina.
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Antonio, innanzitutto, che cosa ne pensi dei 600 euro alle partite iva, sia dal punto di vista politico che strettamente pratico?
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“Per me è stato un affronto da parte del governo, una vera umiliazione nei confronti delle partite iva: si tratta di una cifra irriguardosa.
Basti pensare che, anche per una piccola attività, il costo dell’affitto non è inferiore alle 1500 euro e che, ad esempio nella ristorazione, in genere si va dalle 3mila euro in su, con costi fissi da sostenere nonostante la chiusura dell’attività.
Quali costi dovremmo coprire con l’importo erogato? Sarebbe stato meglio non dare nulla.
Un trattamento ancora più umiliante se pensiamo che paghiamo con i nostri contributi questa classe politica che poi rifiuta anche di tagliarsi lo stipendio.
E, mentre gli imprenditori italiani sono da due giorni sul sito dell’Inps per 600 euro, in Germania, Francia e Stati Uniti si parla di misure straordinarie capaci di regalare ai connazionali una quarantena ben più serena”.
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Per rimediare alle chiusure forzate, facciamo notare, il governo ha previsto anche altri aiuti: tra queste, l’estensione e facilitazione della cassa integrazione (che permetterà alle imprese di risparmiare quanto meno il costo dei dipendenti), un credito d’imposta del 60% sul canone di locazione, la sospensione temporanea di mutui e prestiti, garanzie statali su quelli nuovi nonché la concessione di prestiti rapidi fino a 3mila euro, la possibilità di rinegoziare prestiti in corso e la sospensione delle tasse fino a maggio.
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Ti senti di muovere critiche rispetto alle misure prese? E, ipotizzando che il governo abbia davvero fatto tutto il possibile, che effetto avranno le misure prese? Basteranno?
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“Le soluzioni del decreto “Cura Italia” sono fumo negli occhi. Possono sembrare ottime iniziative se non fai impresa, ma chi è del settore capisce bene che non sono efficaci. Il grande problema delle aziende, che hanno fermato le proprie attività o che le hanno fermate parzialmente, sarà la mancanza di liquidità: le soluzioni adottate non immettono liquidità. Basti pensare al credito d’imposta: si tratta appunto di importi che verranno successivamente scalati dalle tasse da pagare.
Ma un imprenditore come paga l’affitto di due mesi, se non ha lavorato?
Immaginiamo anche che, a inizio maggio, si potrà ricominciare a lavorare: in due mesi di stop a questo si saranno accumulati i costi fissi delle utenze, costi di commercialisti, imposte comunali e poi tasse e mutui che non sono stati cancellati ma soltanto posticipati.
La maggior parte delle imprese si troverà in ginocchio. Quanto dovremmo far pagare i nostri prodotti per uscirne?”
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Le critiche venute fuori con la vicenda del bonus nascono forse anche da un senso di “abbandono” delle pmi da parte dello Stato, a prescindere dal governo Conte, non credi? Fare impresa sembra ormai una missione impossibile…
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“Non sono legato e non sono “tifoso” di nessun partito, non ce l’ho particolarmente con Conte, con i 5 Stelle o con il Pd, ma non vedo soluzioni: le difficoltà che vivremo non sono certamente frutto soltanto dei due mesi di stop, ma di anni di cattiva gestione e di mala politica. Non è che a dicembre, gennaio o febbrario, le piccole imprese italiane stessero bene.
Viviamo col cappio al collo e, al minimo passo sbagliato, siamo stretti in una morsa: costi Inps e Inail sul lavoro, Iva sui prodotti, 46% delle tasse sul fatturato, imposte comunali, oltre ad utenze, dipendenti, fornitori. Non sappiamo cosa pagare per primo, perché ormai da decenni viviamo in una situazione precaria, con un carico fiscale troppo elevato. Il coronavirus ha solo scoperchiato questo vaso di pandora. Se non sei una grossa azienda o una spa è dura, per il 90% delle partite iva è impossibile essere in regola con i pagamenti: hanno portato l’Italia ad essere un Paese di imbroglioni.
Parliamo del mio caso: se in un giorno incasso 1000 euro, oltre alle 400 di materie prime, devo pagare il 10% di iva [l’aliquota ridotta è la percentuale che si paga sui prodotti e servizi del settore turistico; l’iva ordinaria è al 22%, ndr], altre 200 o 300 di tasse e, con quello che rimane, pagare affitto, dipendenti, utenze, commercialista, etc. Ed ancora, in questa situazione, si girano le spalle ai contribuenti, mentre i dipendenti ancora non sanno quando riceveranno la cassa integrazione.
Stiamo assistendo alla morte di tanti nostri connazionali, ma ora il governo ha il compito di fare una nuova Italia, di ricostruire una nazione e uno Stato vicino al proprio popolo e a chi rappresenta il proprio tessuto economico”.
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Certo, un singolo punto di vista può avere un valore soggettivo. Ma, al di là delle opinioni e delle variabili, ciò che ha descritto Antonio Alfieri sembra rispecchiare parecchio la realtà dei numeri.
Nel rapporto della Banca Mondiale “Paying Taxes 2020”, che analizza i dati relativi al 2018, veniva stimata intorno al 59 % la pressione fiscale complessiva per un’azienda italiana, con una crescita di sei punti percentuali sull’anno precedente, a fronte di una media globale del 40,5 % e di una media europea del 38,9 %.
In Italia, dunque, una cifra incredibilmente vicina al 60% degli incassi, quindi, finisce in tasse e, con quello che resta, bisogna far fronte a tutte le altre spese: è davvero insostenibile.
Soprattutto se pensiamo che il fisco è, ad esempio, molto più “generoso” con le multinazionali tecnologiche (rientrano in realtà tra i fortunati tutte le aziende, solitamente multinazionali, che hanno la possibilità di spostare la propria sede fiscale fuori dal Belpaese) le quali pagherebbero invece soltanto il 33% di tasse. Una pressione fiscale quasi dimezzata.
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Senza contare che, di mezzo, a creare ulteriori ostacoli, ci si mette anche la burocrazia: sempre secondo la Banca Mondiale, che ha analizzato ben 190 economie, l’Italia si troverebbe niente meno che al 128esimo posto della classifica (nel 2017 eravamo al 118esimo posto) che misura la facilità nel pagare le imposte, con 238 ore annue dedicate agli adempimenti fiscali, contro una media globale di 234 ore ed una media europea sensibilmente più bassa pari a 161 ore. Ben 14 i pagamenti annuali a fronte di 10,9 pagamenti della media europea e i 23 (in questo caso sembra non siamo tra i peggiori) della media globale.
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Sembra difficile immaginare che, a fronte della recessione che ci troviamo davanti, troveremo governi che avranno il coraggio di stimolare l’economia attraverso una profonda ristrutturazione del sistema fiscale, che penalizza fortemente le aziende italiane anche nel loro processo di internazionalizzazione. Al di là della stretta attualità, bisogna quindi evidenziare che fare impresa in Italia è qualcosa che trova la evidente opposizione dello Stato, con il rischio di creare un deserto economico che regalerà sempre più il Paese alle multinazionali.
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Una riforma seria non può infatti esimersi di cogliere l’aspetto sistemico del problema: le aziende di grosse dimensioni sono predilette dal sistema capitalista per i vantaggi in termini di efficienza e produttività. Ma in questo modo si mettono i bastoni tra le ruote alla libertà di iniziativa economica e si azzera la capacità produttiva italiana, per poi trovarci con l’aver delocalizzato e delegato gran parte della produzione nazionale e la conseguente perdita di know how a danno dell’intero Paese, per non parlare della conseguenze della dipendenza in termini di sovranità. Se non vogliamo diventare tutti consumatori e dipendenti delle grandi imprese multinazionali e vogliamo preservare il tessuto economico, ma anche difenderci dalla standardizzazione dell’offerta, bisogna invertire la tendenza: smettere di dare campo libero alle imprese straniere, riportare la produzione in Italia, favorire la piccola e media impresa, pianificare il rilancio delle filiere produttive, pianificare un intervento forte dello Stato laddove la piccola e media impresa non può arrivare, rilanciare la domanda interna dando priorità all’economia locale.
L’autarchia non è la soluzione né l’obiettivo, un protezionismo ed un interventismo mirato a difesa della economia italiana si.
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Emmanuel Raffaele Maraziti
2 risposte a "Piccole imprese: “il coronavirus ha solo aperto il vaso di Pandora”"