Il sito di “The Guardian”, oggi, ha una “prima pagina” tutta particolare. In primo piano, a schermata intera, ci sono le reazioni live e le miriadi di approfondimenti che seguono e seguiranno ancora alla diffusione di ben tredici milioni di files, trafugati agli studi legali off shore di Appleby (nato nelle Bermuda, ha sue filiali in altri nove paradisi fiscali) e Asiaciti Trust (sede principale a Singapore ed altre sette sparsi tra Panama, Samoa, Hong Kong e le isole Cook). Recuperati dalla testata tedesca “Süddeutsche Zeitung“, i documenti in questione sono stati condivisi con l’Icij (International Consortium of Investigative Journalists), Consorzio internazionale di giornalisti investigativi del quale fanno parte anche la Bbc, Le Monde e il New York Times. Con file per 1,4 terabyte, quella relativa ai “Paradise Papers” è la seconda più grande fuga di notizie a livello mondiale, dopo i Panama Papers del 2016 (2,6 terabyte), con uno stacco importante rispetto al caso WikiLeaks del 2010 (1,7 gigabyte). Basti pensare che i file “desecretati” coprono un periodo che parte addirittura dal 1950 per arrivare al 2016. Partner dell’Icij, in Italia sarà l’Espresso a pubblicare maggiori dettagli sull’inchiesta – della quale si sono occupati 380 giornalisti in 67 paesi – nel numero della prossima settimana. Nel frattempo sono ovviamente trapelate varie indiscrezioni.
La più quotata è quella relativa agli affari del ministro del Commercio statunitense Wilbur Ross, membro del consiglio d’amministrazione della “Navigator“, società da milioni di dollari, che trasporta petrolio e gas per il colosso russo Sibur, che ha tra gli azionisti Kirill Shamalov, marito di Yekaterina Putin – esatto, la figlia dello “zar”. Ma, a parte l’inopportunità politica, considerate le politiche sanzionatorie americane nei confronti della Russia, dai file non sarebbe finora emerso nulla di illegale. Nulla di illegale anche nelle operazioni di un altro russo, Yuri Milner, che avrebbe investito un miliardo di dollari in Facebook e 191 milioni in Twitter attraverso fondi di una banca statale russa, all’interno di una cordata di cui faceva parte anche Gazprom, colosso russo dell’energia. Affari che si intrecciano e imbarazzano, dunque, non solo Trump ma anche i suoi avversari, a partire proprio da Mark Zuckerberg, presidente e amministratore di Facebook, che ha detto di non sapere da dove provenivano i soldi.
In Inghilterra, invece, ha fatto clamore la comparsa della regina Elisabetta tra i nomi degli investitori nei paradisi fiscali (le Cayman in questo caso). Ma, tra i nomi in elenco, c’è anche il finanziere-filantropo George Soros, “padrino” dei democratici americani, paradossalmente finanziatore anche dell’Icij: il magnate farebbe ricordo proprio ad una rete di off shore nel campo di maxi-polizze da fornire ad altre compagnie assicurative. Soros non ha voluto rilasciare commenti a quanti gli hanno chieso conto delle operazioni. Ma, a proposito di ministri Usa, se l’attuale titolare del Commercio ha creato imbarazzo alla Casa Bianca, anche il predecessore Penny Pritzker non sembra aver fatto da meno: negli archivi Appleby, infatti, risulta che l’esponente democratica non si sarebbe affatto sbarazzata, come promesso, dei suoi investimenti per evitare conflitti di interessi, li avrebbe soltanto trasferiti alle Bermuda. Quanto al vicino Canada, il democraticissimo ed iper-progressista primo ministro Justin Trudeau – che in settembre aveva dichiarato: «Abbiamo un sistema che permette ai canadesi ricchi di ricorrere a società private per pagare tasse più basse di quelle pagate dalla classe media. Non è corretto, dobbiamo porvi riparo» – non sarà stato certo contento di trovare nella lista Stephen Bronfman, suo amico e soprattutto consulente di fiducia, una tra le figure più vicine e tra i principali finanziatori della sua campagna elettorale.
Ma questi sono solo alcuni nomi, i primi venuti fuori, quelli che più hanno fatto scalpore considerati i fatti di attualità. Sono centinaia, però, i nomi di aziende e personalità politiche che nascondono i soldi laddove nessuno può trovarli e che, soprattutto, lo fanno spesso senza commettere alcun illecito. Soldi che vengono soprattutto da Stati Uniti e Regno Unito, poi da Cina e Hong Kong e finiscono soprattutto alle Bermuda o alle Cayman. Tra le grandi aziende “intercettate”, anche Nike ed Apple, tra i personaggi noti anche Bono Vox degli U2. Il leader dell’opposizione inglese, il laburista Jeremy Corbyn ha parlato di “evasione su scala industriale“. Ma, nonostante le critiche, anche la premier Theresa May ha reagito duramente e promesso provvedimenti mirati. Il responsabile europeo per la tassazione, Pierre Moscovici, ha invitato l’Unione Europea a mettere a punto un vero e proprio piano anti-evasione.
Ma quello che questo scandalo più di tutto rivela è che, nell’era del trionfo della democrazia e del mercato globale, anche le disuguaglianze aumentano proporzionalmente. I paradisi fiscali non sono l’eccezione, ormai, ma la regola. Un vero e proprio sistema di tassazione parallela per i ricchi che, potendo scegliere, scelgono di pagare meno. Il fatto che tutto questo sia legale mentre il cittadino è perseguito fino al centesimo è la dimostrazione di un sistema a due velocità, debole coi forti e forte coi deboli. Probabilmente perché a pagare le campagne elettorali, poi, sono proprio i “forti”. Quelli che, non a caso, hanno fatto del 2016 l’anno in cui la concentrazione di risorse economiche nelle mani di pochi ha raggiunto livelli mai visti prima. “Lo scorso anno i miliardari del pianeta”, spiegava Repubblica in un articolo pubblicato a fine ottobre, “hanno aumentato il proprio patrimonio collettivo di ben un quinto, arrivando a un totale di 6 trilioni di dollari (6 mila miliardi di dollari), pari al doppio del pil di un paese del G7 come la Gran Bretagna, riferisce il quotidiano Guardian. La ricerca indica che oggi ci sono 1542 miliardari, dopo che le ricchezze di 145 milionari hanno superato il muro del miliardo di dollari”. Sia chiaro, “i miliardari non arricchiscono soltanto se stessi, riversando ‘il 98 per cento’ del proprio patrimonio nella società e impiegando globalmente 27 milioni di persone”. Ma, al netto dei soldi, quel che resta è una enorme e pressoché anonima concentrazione del potere. Ecco il “villaggio globale”.
Emmanuel Raffaele