“Ciao sono Adwoa Aboah, la modella più influente del mondo“, titolava a maggio MarieClaire. Nel pezzo dedicato alla modella 24enne, metà inglese e metà ghanese, Fabrizia Mirabella faceva notare: “Se in tempi lontani a mettere naso (e pecunia) in politica erano solo i letterati che, straordinariamente, si facevano voce delle masse. Oggi, a essere engagé, sono le modelle“. Una mezza verità, in realtà. Perché da sempre politica e costume vanno a braccetto. Soltanto che ora siamo nell’era social, il progressismo fa tendenza e, nel frattempo, Edward Enninful, ghanese classe ’72, trasferitosi da bambino nel Regno Unito coi genitori, ha conquistato la guida di “Vogue Uk”. In diverse occasioni, del resto, Enninful ha spiegato quale sarà la sua linea editoriale: “parlare di politica e non solo di moda“, evidenzia “The Guardian” (con buona pace di chi vuole solo sapere come vestirsi, osserva il quotidiano britannico). Non a caso, la prima copertina sotto la sua gestione, quella del prossimo dicembre, ha come protagonista Adwoa Aboah, il nome del momento, garanzia di “diversity” e femminismo.
Cresciuta in una famiglia benestante, quasi naturalmente finita nel mondo della moda, iniziò precocemente ad assumere droghe, finì poi travolta dall’alcolismo e, in preda alla depressione, nell’ottobre del 2015 tentò il suicidio, rimanendo in coma per quattro giorni dopo una overdose volontaria. Chiusa in un centro di recupero e infine ritornata sobria (seppur – sostiene “The Sun” – con ancora qualche problema di bipolarismo), ha così conquistato le copertine di Vogue Italia e della versione americana e, soprattutto, ha dato vita alla piattaforma “Gurls Talk“, aggiungendo alle etichette di modella e attrice da poco laureata in giurisprudenza, anche quella di attivista per i diritti delle donne (in passato ha anche sfilato a seno nudo per la battaglia “Free the nipples”, il diritto delle donne a mostrare il seno).

“Adwoa Aboah sta scuotendo l’industria della moda“, titolava in un’altra occasione ancora “The Guardian“. Dopo Naomi Campbell nel 2002, del resto, si era dovuto attendere il 2014 per un’altra copertina “black” nel Regno Unito. Così, la cover del numero di dicembre ha fatto molto discutere e c‘è addirittura, tra i fashion blogger, chi ha insinuato che la versione proposta sia troppo poco black. Nonostante tutto, il colore della pelle della modella in copertina ha fatto il giro del mondo: “Moda? Meglio il dibattito sociale. Vogue Uk e la cover con Adwoa Aboah“, ha scritto il Corriere, spiegando nel pezzo: “il nuovo Vogue vuole entrare nel dibattito sociale, politico, artistico e culturale”.
Su questo punto, sembra ci siano pochi dubbi dunque. Tanto che, come fa notare il giornale inglese, in copertina non si fa menzione di tendenze, borse o nuovi accessori, “al loro posto c’è una lista di figure di rilievo della politica e dell’arte, incluso Sadiq Khan”, il sindaco di Londra, laburista, pakistano di nascita, primo sindaco musulmano della capitale inglese, anch’egli arrivato da immigrato nella metropoli britannica. Del resto, Enninful, che da anni lavora per la rivista di moda, già nel 2008 aveva collaborato con la storica direttrice di Vogue Italia, la scomparsa Franca Sozzani, nella creazione di un numero dedicato esclusivamente a modelli e celebrità di colore. E fu un successo. “Enninful”, spiega “The Guardian” riassumendone la biografia, “ha detto di voler promuovere una maggiore inclusività razziale a Vogue”. In due diversi post recenti sul sito di Vogue, la questione ritorna in effetti con insistenza. Un video in cui “il nuovo direttore di Vogue parla con la sua prima ragazza-copertina, Adwoa Aboah, su come stiano portando la diversità nell’avanguardia della moda” e poi un altro in cui, in una “Facebook Live Session”, “Vogue discute: perché la diversità conta“.
Tutto ciò non disturba di certo, dire no al razzismo è cosa buona e giusta. Ma c’è qualcosa che non torna: Vogue e l’industria della moda sono lì a far profitti, non stiamo parlando di no-profit. Ed è evidente che, oggi, la “diversità” è di tendenza, vende. E’ alla moda, appunto. Non sarà forse che giocare alla guerra quando si è già vinto sa un po’ troppo di retorica radical chic da salotti progressisti e champagne?
Emmanuel Raffaele Maraziti