Autorità palestinese contro Regno Unito: “Dichiarazione Balfour” illegittima. Israele protesta

MFA Director General Dore Gold

Nei giorni scorsi il ministro degli esteri dell’Autorità palestinese, Riyad al-Maliki, in un discorso tenuto prima di una riunione della Lega araba in Mauritania, a nome del presidente Mahmoud Abbas, aveva chiesto sostegno nella messa a punto di una procedura legale contro la Gran Bretagna per la Dichiarazione Balfour del 1917. A poche ore di distanza, Dore Gold, nominato direttore generale del ministero degli Affari esteri israeliano da Netanyahu, in un comunicato, ha dichiarato: “A parte l’evidente mancanza di qualsiasi base giuridica per la rivendicazione di Abbas, l’iniziativa stessa dimostra ancora una volta il persistente rifiuto della controparte palestinese di riconoscere la legittima e originaria connessione del popolo ebraico alla sua antica patria“. Il documento in questione, risalente al 2 novembre del 1917, è quello attraverso il quale l’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour espresse ufficialmente l’intenzione del Regno Unito di sostenere “la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico“, in vista della futura spartizione del paese e dell’imminente mandato britannico sulla Palestina dopo la conclusione del primo conflitto mondiale ed il disfacimento dell’impero ottomano. Una missiva indirizzata a Lionel Walter Rothschild, in quanto rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista, che venne poi inclusa nei trattati di pace che assegnavano ufficialmente la Palestina al Regno Unito, un atto che, prosegue Gold, “ha avuto l’effetto di trasformare la posizione politica espressa nella Dichiarazione Balfour in un obbligo giuridico riconosciuto a livello internazionale”. Secondo la parte israeliana, questo atto spiegherebbe la pretesa di inserire il riconoscimento della legittimità di Israele in ogni negoziato; riconoscimento che quest’atto metterebbe in dubbio. Ora, in attesa di capire se le intenzioni siano serie e quali saranno le argomentazioni addotte,  è indubbio che l’iniziativa palestinese presta il fianco a queste critiche e sembra avere un forte sapore propagandistico: cosa si spera concretamente di poter ottenere? Ma, questioni di real politik a parte, l’iniziativa ha, se non altro, il merito di ricordare il contesto storico che vide, trent’anni dopo, la nascita dello stato di Israele, probabilmente anche in contraddizione con uno dei passaggi di quella famosa dichiarazione: “Il governo di Sua Maestà […] si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina”. Ma è certo che  proprio nella volontà affermatasi e che portò un popolo a colonizzare la terra d’altri in nome di un diritto tuttalpiù risalente a migliaia di anni prima, in una concezione di popolo che contraddice i principi stessi dello stato laico, con le conseguente sparizione della Palestina e, di fatto, l’erosione dei diritti delle popolazioni arabe che ci vivevano, è possibile ritrovare l’origine dei mali che hanno sconvolto e continuano a sconvolgere quella regione.

Emmanuel Raffaele, 29 lug 2016

Nel Regno Unito chiudono le acciaierie Tata, dumping cinese sotto accusa

122971-mdPort Talbot, il principale impianto di produzione dell’acciaio nel Regno Unito è ad un passo dalla chiusura, mettendo a rischio circa 4mila posti di lavoro, 9mila considerato anche l’indotto. L’annuncio del gruppo indiano Tata Steel di voler abbandonare ogni investimento in Gran Bretagna rivela una posto in gioco purtroppo molto più alta, che coinvolgerebbe addirittura 40mila operai del settore e potrebbe mettere in ginocchio un’intera regione, il Galles, fulcro della produzione dell’acciaio nel regno di Elisabetta II. Colosso che ha ultimamente mostrato interesse per il gruppo tedesco Thyssen, dal 2007 Tata Steel, dopo aver acquistato la Corus, possiede infatti i più grandi impianti del paese ma, ormai da tempo, la crisi era alle porte: la società cercava compratori da oltre un anno e, appena tre mesi fa, annunciava licenziamenti e chiusure. Soltanto l’impianto in questione, che ha richiesto al gruppo investimenti per circa un miliardo di sterline, ad oggi, è in perdita di 300 milioni di sterline l’anno. E così la decisione finale: se non si trova un compratore, si chiude.

Nel mirino due fattori, spesso concomitanti: il dumping cinese e gli altissimi costi dell’energia. Sul secondo fattore, in particolare, insisteva Matt Ridley ieri sul “Times”, ricordando la chiusura nel 2012 degli impianti di produzione dell’alluminio (settore ora dominato ancora una volta dalla Cina) di Lynemouth soprattutto a causa di costi energetici doppi rispetto alla media europea e non solo. “E’ vero che, nell’immediato, la crisi gallese è causata più dal dumping cinese dell’acciaio a basso costo sul mercato mondiale piuttosto che dal costo dell’energia in sé. Ma la questione è connessa comunque alle politiche climatiche. “La Cina – incalza – ha aumentato massicciamente le sue emissioni negli ultimi anni per far crescere la sua industria pesante”. Secondo Ridley, che d’altra parte riprende le accuse della compagnia stessa che nei mesi scorsi aveva segnalato con forza la questione, le acciaierie subiscono meno l’influenza dei costi dell’energia rispetto alle industrie dell’alluminio ma, anche in questo caso, la presenza di un competitor che non rispetta le regole senza che nessuno faccia nulla per proteggersi rappresenta comunque un fattore di squilibrio se non altro concomitante. E le politiche di riduzione delle emissioni, fin troppo rispettate dal Regno Unito secondo il giornalista, penalizzerebbero ancor di più il paese rispetto ad una Cina che, invece, non sta ai patti.

Motivazioni a parte, come accennato, sul tavolo c’è soprattutto una “vecchia” questione: prezzi troppo bassi che invadono e conquistano i mercati e, sul fronte opposto, un’Europa inerme, che in nome del liberismo si rifiuta di reagire, bocciando a priori ogni tentativo protezionistico. Così come, peraltro, sta facendo esplicitamente anche il governo inglese, nonostante la Cina abbia addirittura incluso proprio l’acciaio prodotto in Galles in una lista di prodotti importabili soltanto pagando un dazio fissato ora addirittura al 46%, mentre l’Europa permette l’importazione di prodotti dalle acciaierie cinesi con un’imposta di appena il 9% sul prodotto. A denunciarlo è sempre il Times che, due giorni fa, in prima pagina, accusava la Cina di aver alzato il prezzo dell’acciaio britannico. Lo stesso premier David Cameron, in effetti, nonostante abbia nel recente passato accolto la Cina nel paese a braccia aperte, è stato praticamente costretto ad esprimere ‘preoccupazione’ al leader cinese Xi Jinping, in occasione del vertice sulla sicurezza nucleare di Washington. “Un’umiliazione per il governo”, commentava Michael Savage a proposito della faccenda. Secondo Stephen Kinnock, deputato laburista, il dumping cinese “ha paralizzato l’industria dell’acciaio inglese negli ultimi cinque anni”. Cameron, da parte sua, si è difeso criticando le soluzioni semplicistiche e puntando il dito contro l’eccesso di offerta del settore, ma non ha comunque spiegato come è possibile che, a fronte di una sovrapproduzione, si aprano i mercati a concorrenti spietati e senza regole come le industrie cinesi. D’altra parte, il governo ha anche escluso l’eventualità di nazionalizzare le acciaierie per evitarne la chiusura ed ha messo in allerta coloro che hanno richiesto aiuti di stato, spiegando che l’Europa, certamente, boccerebbe l’iniziativa in nome della libera concorrenza. Risposta quanto meno tragicomica a fronte di una concorrenza già falsata dalla Cina che, ai bassi costi di vendita, aggiunge anche le alte tasse sulle importazioni. Per non parlare del tabù nazionalizzazioni. Ennesimo esempio di come l’Europa, in economia come nella politica estera, nella sicurezza e nella cultura, per mano di pochi burocrati, si stia di fatto suicidando, subendo senza reagire ogni tipo di attacco esterno.

Emmanuel Raffaele, 5 apr 2016

Regno Unito, sempre più italiani diventano sudditi di Sua Maestà

10-luoghi-da-cui-vedere-londra-dall-alto-09Aumentano del 22% gli italiani che vogliono diventare cittadini britannici. Ma il dato non è isolato. Il numero di richieste dei cittadini europei per avere la cittadinanza inglese – per la quale sono sufficienti appena sei anni di residenza permanente, un test e ben mille sterline – ha infatti subito un insolito balzo in avanti negli ultimi sei mesi dello scorso anno, facendo registrare un +25% in seguito ai timori connessi all’eventualità Brexit. La maggior parte delle richieste, in realtà, arrivano dai cittadini bulgari (+70%), seguiti da ungheresi (+39%), polacchi (+38%), tedeschi (+23%). Ultimi vengono italiani e francesi (+17%).

Complessivamente, negli ultimi tre mesi dell’anno, le richieste sono state infatti ben 5245, mentre nel trimestre precedente si erano fermate a 4179. In particolare, come accennato, le richieste da cittadini dell’est Europa sono passate da 1810 a 2433, numeri certamente inferiori rispetto all’incremento della percentuale italiana e che mostrano una differenza sensibile nell’approccio all’eventualità Brexit e, probabilmente, anche un tipo differente di immigrazione. D’altra parte, soltanto a Londra gli italiani potrebbero superare il mezzo milione, facendo della capitale britannica la città “italiana” più grande al di fuori del nostro paese, superando addirittura Buenos Aires. Stando infatti ai dati non ufficiali (e probabilmente anche abbastanza prudenti) gli italiani ufficialmente residenti a Londra sarebbero 250mila e per ognuno ce ne sarebbe almeno un altro non ancora residente ma qui per lavoro in maniera relativamente stabile. Un tipo di immigrazione che ha registrato un exploit negli ultimi anni e che, probabilmente, è ancora meno “radicata” rispetto agli arrivi da paesi in cui il reddito medio era molto più basso di quello inglese ben prima che in Italia la crisi economica giungesse ai livelli attuali. Resta interessante, in ogni caso, registrare il dato, certi che, a “bocce ferme”, il numero degli italiani in questa speciale e non felicissima classifica non smetterà di aumentare. Altrettanto interessante notare l’impatto della discussione sulla Brexit, soprattutto sui quasi tre milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito, nonostante le autorità inglesi tendano a rassicurare coloro che già lavorano in Gran Bretagna e nonostante l’ipotesi Brexit non sia poi così realistica.

“Rimuovete la statua, era un razzista”: Oxford contro Rodhes

La Gran Bretagna guarda in faccia il suo passato imperiale. O almeno ci prova. Con una mostra promossa dal Tate Britain di Londra, uno dei principali centri espositivi del paese, dal titolo Artist & Empire – Facing Britain’s Imperial Past”. “La mostra”, che si concluderà il prossimo 10 aprile, spiegano gli organizzatori, “analizza il modo in cui le storie dell’impero britannico hanno influenzato l’arte del passato e del presente. All’interno dell’esposizione, alcune opere contemporanee suggeriscono, inoltre, che le ramificazioni dell’impero non si sono concluse”. Perché? “Le sue storie di guerra, di conquista e di schiavitù sono difficili e dolorose da trattare, ma la sua eredità è ovunque e riguarda tutti noi”. Molto semplicemente, dunque, perché la storia non si cancella. È parte del presente. Ed ogni censura ha in sé il germe dell’intolleranza politica e della violenza.

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