È venuta fuori il mese scorso su “Plos Medicine” e, di rimbalzo, sul “Los Angeles Times”, una stima delle morti dirette e indirette della guerra in Iraq, secondo la quale ben 461mila sarebbero i morti da attribuire al conflitto partito nel 2003.
Secondo i ricercatori, tra questi Amy Hagopian, dell’Università di Washington, il 60% dei decessi sarebbe da attribuire ad episodi di violenza diretta: per il 35% per mano delle forze della coalizione guidata dagli Usa, per il 32% in seguito agli scontri interni e l’11% ala criminalità.
Il restante 40% sarebbe invece legato a cause consequenziali delle operazioni belliche, quali «la distruzione delle infrastrutture, il maggior stress, l’impossibilità di curarsi, la carenza di acqua e di cibo». In breve, il peggioramento delle condizioni di vita nel paese mediorientale dopo i bombardamenti americani, che tra le morti violente fanno registrare il 12% delle cause di morte, a dispetto del 63% dovuto agli scontri a fuoco.
Lo studio, realizzato grazie alle interviste ed ai dati raccolti da una équipe di medici iracheni presso duemila famiglie, è stato considerato prezioso da molti esperti, seppur l’assenza di dati certi sulla popolazione totale potrebbe aver negativamente influenzato il lavoro.
Secondo altre stime, infatti, già nel 2006 i morti sarebbero stati oltre 600mila.
La ricerca, ovviamente, considera come conseguenti al conflitto le cosiddette “morti in eccesso”, confrontando l’andamento demografico precedente alla guerra con quello successivo.