Qualche giorno fa ho smarrito la mia carta prepagata e avendo ovviamente necessità di averne una nuova, sono andato subito nella mia filiale delle Poste Italiane, a Milano. Caso (non eccezionale) vuole che, insieme alla carta, abbia smarrito anche il codice fiscale e che ciò – a volte la sfiga – accadesse proprio il giorno seguente all’acquisizione in aggiunta del secondo cognome e, quindi, di una nuova carta d’identità. In teoria, comunque, ho tutto quello che serve, denuncia di smarrimento (con numero della carta smarrita e codice di recupero) e, soprattutto, un documento dell’anagrafe che attesta: Emmanuel Raffaele è la stessa persona di Emmanuel Raffaele Maraziti.
Sono fiducioso ma, quando arrivo, l’impiegato non sa come uscirne. A quanto pare per avere la nuova carta, per prassi, ci vuole almeno un mese (in realtà mi dicono “ci vogliono mesi”), tanto che conviene chiudere quel conto e farne una nuova. Ho degli accrediti su quella carta ma, se non c’è altra via d’uscita rapida, va bene. Per procedere, però, mi chiede il codice fiscale, ma faccio notare che è, appunto, tra le cose smarrite. Molto male: senza codice pare che non ci sia niente da fare. Chiedo almeno di poter accedere al mio conto e prelevare: va bene l’attesa per rifare la carta, va bene l’impossibilità di chiudere la prepagata ma non ho soldi in tasca, quello è il mio conto, avrò anche diritto di avere i miei soldi? Oltre il danno la beffa, penso. L’impiegato, nel panico, chiama il direttore, che dopo cinque minuti di consultazione arriva un po’ agitato e sostiene di non poter fare nulla, anche perché “il titolare del conto non è la stessa persona relativa al mio documento d’identità”. A quel punto, un po’ agitato anche io, chiedo se per caso abbia letto il documento che attesta esattamente il contrario. Quel conto è mio, ho smarrito la carta e il codice fiscale, ma non mi si può impedire l’accesso ai miei soldi se un documento attesta la mia identità e questo soltanto perché non ho una tessera con su scritto un codice che, semmai, dovrebbe fare le mie veci e non il contrario. E, soprattutto, come può negare la mia identità di fronte a un documento ufficiale? Non è tenuto a fare altro che riconoscere la variazione, senza che ciò possa in alcun modo influenzare la titolarità del mio conto. E’ esattamente per questo che l’anagrafe rilascia un’apposita attestazione.
Provo a risolvere la cosa chiedendo alla polizia di identificarmi. Molto gentili, arrivano e parlano con il direttore. A quel punto, però, scopro che la situazione è ancora più assurda e l’identità è quasi l’ultimo dei problemi: infatti, anche se a questo punto riconosce (finalmente) la mia identità, senza codice fiscale non posso accedere al mio conto (nonostante, naturalmente, non ci sia bisogno di strisciare il proprio codice fiscale da nessuna parte se, ad esempio, si effettua un’operazione online o un pagamento). Che io sia il titolare del conto, a quanto pare, non conta nulla: anche in possesso di un documento di identità, senza un codice fiscale fisico le Poste italiane non sono “fisicamente in grado di effettuare nessuna di quelle operazioni”, è la risposta. Non posso, quindi, neanche usare i miei soldi. E’ del tutto assurdo ma penso a come risolvere. Siamo a ridosso del weekend, in qualche modo aspetterò due giorni, poi farò il codice fiscale provvisorio e ci riproverò. Ma ecco che il direttore aggiunge: se il mio codice fiscale non avrà subito variazioni in seguito all’aggiunta del cognome, potrebbe farmi il “favore” di chiudere il conto subito senza comunicare la variazione, altrimenti – mi dice – “devo per forza mandare tutto a Roma”. Continuo a non capire. Innanzitutto questo: come può essere così difficile inserire le variazioni e comunicarle in tempo reale nel sistema? Da dove nasce la necessità di “mandare” fisicamente “tutto a Roma”? E poi tutto cosa? Bisogna soltanto aggiornare uno o due dati. Tanto più che, essendo alle Poste, credevo di essere proprio nel posto giusto per spedizioni e comunicazioni rapide, invece non riesco a capire se, per metterci tanto fino a Roma, i miei documenti viaggeranno in diligenza o chissà con quale mezzo di fortuna. Misteri della burocrazia. Sta di fatto che, nella peggiore delle ipotesi, rischio di rimanere con il conto bloccato per tutto il tempo necessario e proprio non riesco a capirne la ragione, dal momento che io sono stato riconosciuto senza dubbio come titolare del conto e ho un regolare documento di identità.
Poi mi capita sottomano una notizia: la Commissione parlamentare di inchiesta sul livello di digitalizzazione e innovazione della pubblica amministrazione e sugli investimenti nel settore delle tecnologie, in una relazione di 160 pagine, ha certificato che la Pubblica Amministrazione italiana è ferma al secolo scorso. Ora, non è possibile pensare ad un Paese competitivo in presenza di una burocrazia novecentesca e non è possibile insegnare il merito se il modello pubblico è poi questo. Il mio problema, pienamente giustificato dai “regolamenti”, è proprio in quella mancata digitalizzazione. Poste Italiane, che nell’ultimo decennio è cambiata e si è rinnovata molto, nel complesso funziona anche bene. E’ una società per azioni quotata in Borsa ma, di fatto, è sostanzialmente ancora pubblica, essendo controllata per oltre il 60% dal Ministero della Economia. Ha comunque il dovere di rispondere ai cittadini, tanto più che fornisce diversi servizi alla Pubblica Amministrazione e, nonostante questo, l’ingresso è ancora condizionato da logiche familistiche incomprensibili per il mercato del lavoro odierno: se hai un genitore che lavora nelle Poste, l’ingresso è facilitato. Peggio per gli altri.
Nonostante il rinnovamento, però, è facile trovarsi di fronte alla macchinosità nella gestione di alcune procedure da parte dell’ente e l’episodio che ho raccontato è solo un piccolo esempio di come la burocrazia possa rallentare inutilmente le cose e complicare la vita delle persone anche quando non ce ne sarebbe bisogno, anche quando la tecnologia permetterebbe di cambiarle quelle procedure, facilitando le cose. Perché, in fin dei conti, la burocrazia dovrebbe assistere il cittadino, offrirgli dei servizi per cui paga tasse tra le più alte al mondo. Ha il diritto che le cose funzionino. Soprattutto quando le faccende, al di là del mio conto, si fanno più serie. Come per le pensioni di invalidità, che a volte attendono anni prima di essere riconosciute, per dirne una. E senza contare le file inutili, timbri, documenti ridondanti, comunicazioni che dovrebbero essere ormai superflue e, in breve, tutte le risorse aggiuntive rubate al cittadino. La relazione a cui abbiamo fatto cenno ci conferma quella impressione: una Pubblica Amministrazione troppe volte adagiata su stessa, sulla logica del posto fisso garantito che non deve rispondere al merito, al rischio di perdere il posto, in cui si lavora nel contesto di una sistematica de-responsabilizzazione e con la conseguenza riluttanza rispetto al miglioramento. Mentre il mondo va avanti, la burocrazia rimane indietro e anche facendolo riesce a sprecare i nostri soldi. “Hanno la testa nel secolo scorso. Chi ha potere decisionale non capisce il digitale. E ne ostacola l’applicazione”, spiega Paolo Coppola, presidente della Commissione (del Pd). Ben cinque miliardi sono stati spesi per la digitalizzazione e l’aggiornamento tecnologico (85 euro a cittadino) ma, ancora, è spiegato nel rapporto, “emerge una scarsa capacità di controllo della qualità della spesa, soprattutto per quanto riguarda i sistemi informativi e l’impatto che dovrebbero produrre, sia in termini di risparmi, sia in termini di miglioramento della qualità dei servizi, che non viene quasi mai misurato”. Addirittura “la mancanza di adeguate competenze interne impedisce alla PA di contrattare adeguatamente con i fornitori, di progettare correttamente le soluzioni necessarie, di scrivere bandi di gara che selezionino il prodotto o il servizio più adeguato e aperto a nuove implementazioni e, infine, di controllare efficacemente lo sviluppo e la realizzazione delle soluzioni informatiche”. In compenso, si moltiplicano i progetti, le chiacchiere e gli sprechi, senza alcun risultato concreto e, certamente, senza che la spesa sia stata pienamente produttiva. Censurabile e insopportabile pensare che più di 8 milioni di euro siano andati sprecati e che, tra questi, due milioni siano stati bruciati per chiamate ai call center e, addirittura, servizi di oroscopi e di intrattenimento erotico.
Preoccupante, poi, l’allarme lanciato sulla Banca Dati Contratti Pubblici dell’Anac, creata per contrastare la corruzione il cui “processo di acquisizione dei dati è estremamente inefficiente e inefficace“, tanto da rendere inutilizzabili “le analisi delle tipologie di gara, della distribuzione dei fornitori, dei tempi medi di aggiudicazione, degli scostamenti tra bandito e aggiudicato, del numero di partecipanti” a causa di numerosi errori.
Quanto ai Comuni, l’86% dei procedimenti richiede timbri, firme e sigle. Tutto ciò nonostante l’esistenza di 11.000 data center delle pubbliche amministrazioni, 25 mila siti web e circa 160 mila basi dati, sui quali si appoggiano oltre 200 mila applicazioni. Una legge – spiega Coppola – prevedeva che ogni amministrazione nominasse un responsabile per la trasformazione digitale, “ma praticamente nessuno l’aveva nominato. E comunque nessuno aveva una vera strategia di trasformazione digitale“. I soldi, assicura Coppola, non mancano per assumere anche migliaia di persone competenti in materia, che ripagherebbero la spesa con il risparmio reale dovuto alla digitalizzazione. Un risparmio che è, soprattutto, ormai inevitabile dal punto di vista competitivo.
Emmanuel Raffaele Maraziti