“Green Book”: italiani “mezzi negri” negli Usa degli anni Sessanta

Non ho idea di cosa volesse dirci chi ha scritto e diretto “Green Book“, uscito negli Usa a fine 2018 e che ho da poco avuto modo di vedere su Netflix.
Ma un film sul razzismo ben fatto, di questi tempi, merita alcune riflessioni.

ECCO QUALCHE CURIOSITA’ SUL FILM “GREEN BOOK”

Tratto da una storia vera, il film mostra in effetti quanto la realtà sia infinitamente più complessa delle astrazioni.
Prodotto grazie ad un budget di 23 milioni di dollari, diretto da Peter Farrelly, vincitore di tre premi Oscar nel 2019, Green Book è innanzitutto un incrocio di storie interessanti e “curiosità”: il protagonista “Tony Lip” (alias di Frank Anthony Vallelonga, interpretato dall’attore Viggo Mortensen – ingrassato di 20 kg per l’occasione), che nel film è “solo” un rozzo buttafuori italo-americano, dopo il suo debutto ne “Il Padrino”, parteciperà come attore  in alcune delle pellicole e serie tra le più celebri in assoluto, passando per “Donnie Brasco”, “Quei bravi ragazzi”, le serie “I Soprano” e “Law and Order” solo per citare alcuni titoli.
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Figlio degli emigranti calabresi Nicholas e Nazzarena Vallelonga, nato nel 1930 in Pennsylvania ma cresciuto nel Bronx di New York, Tony Lip (scomparso nel 2013) è peraltro il padre di Nick Vallelonga, attore e regista, ma anche co-sceneggiatore proprio del film Green Book.
Insomma, dietro e dentro il film c’è anche la storia della difficile inclusione dell’identità italiana in quella statunitense, ma anche la meno piacevole realtà della mafia italo-americana, che fa capolino anche nel film. A questi ambienti, infatti, era esterno ma non estraneo Vallelonga che, grazie allo storico nightclub Copacabana (aperto nel 1940, con un padrino d’eccellenza quale il boss di origini calabresi Costello e nel quale pure sono state girate decine di pellicole famose, come “Carlito’s way”), conobbe personaggi famosi quali Frank Sinatra e Francis Ford Coppola, che gli consente appunto di comparire nel suo film più famoso.
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Storicamente, poi, è rilevante il riferimento appunto al “Green Book”, ovvero il “Negro Motorist Green Book“, che dà il titolo al film: una guida “turistica” destinata ai viaggiatori afroamericani, che ancora negli anni Sessanta – fino al Civil Rights Act del 1964 ed oltre (in Virginia, ancora nel 1967, era in vigore il Racial Integrity Act che impediva i matrimoni misti) – subivano discriminazioni nel diritto di voto e di elezioni, di proprietà, di circolazione, di lavoro.
Questo libretto, scritto e pubblicato da un impiegato afroamericano delle poste di Harlem e pubblicato dal 1936 al 1966 in circa 15mila copie all’anno, divenne uno dei tristi simboli della segregazione.
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Infine,il tour verso il sud ci obbliga a ricordare che fu democratica la tradizione politica degli Stati del sud schiavisti che, ai tempi della Confederazione durante la Guerra di Secessione, li contrappose agli Stati del nord, e che democratico fu il suo unico presidente Jefferson Davis. Ma ci ricorda anche il paradosso per cui gli schiavisti non furono solo bianchi: nel 1830 erano ben 3.775 i proprietari terrieri neri che possedevano schiavi per un totale di 12.760 persone.

QUANDO GLI ITALIANI ERANO CONSIDERATI “MEZZI NEGRI”

Il film, nella sua semplicità, offre quindi una miriade di spunti sul razzismo.
Va di moda, ad esempio, fare dei bianchi una sorta di branco che, in quanto razza, sono complici di una sorta di cupola dalla pelle chiara che complotta contro le altre razze per sfruttarle.
Ma Green Book, seppur di sfuggita o addirittura involontariamente, ci racconta qualcos’altro.
Uno dei meriti cinematografici del film, peraltro, è che il razzismo è come un convitato di pietra: rappresenta il tema centrale, fa da sfondo all’amicizia tra Tony e Sherley, ma non viene mai nominato, banalizzato o discusso.
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103018-tony-lip-don-shirley-feature - La Settima Arte
Un’immagine dei veri Tony Lip e Don Sherley

La critica agli stereotipi, nella dinamica italiano “vs” afroamericano, viene affrontata in maniera originale, frontale, impercettibilmente “aggressiva”: nel bene e nel male, l’italiano è totalmente stereotipato, l’afroamericano è invece agli antipodi dello stereotipo.

In un contesto storico in cui, negli Usa, si buttano giù le statue di Cristoforo Colombo, la pellicola ricorda insomma quando gli italiani erano considerati “mezzi negri” dalla maggioranza WASP e gli stereotipi colpivano gli emigrati del Belpaese, trovando però fertile nella oggettiva diffusione della criminalità italiana ed un livello di istruzione generalmente basso degli emigrati. Un razzismo essenzialmente “culturale” che, dunque, evidenzia le radici classiste del razzismo stesso (e che, in questo senso, non è per nulla archiviato).
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Nel frattempo, il musicista afroamericano, che ama e suona musica rigorosamente “bianca”, è invece lì a ricordarci che ciascuno è libero di ribellarsi alle facili classificazioni. Ma – mi sembra di poter aggiungere – anche che le identità collettive esistono e, di solito, ostacolano nell’impresa e tendono a respingere nel “ghetto” chi ci prova.
Però quel ghetto, paradossalmente, è al tempo stesso maledizione e rifugio.
Non è un caso se, solo quando lo stereotipo gli viene servito su un piatto d’argento e non può più sottrarvisi, il volto sempre teso di Sherley si distende in un sorriso: mai aveva sorriso tanto mentre suonava la musica dei bianchi sotto il loro sguardo rispettoso ma diffidente.
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E, se certamente il dito sembra più decisamente puntato contro il razzismo WASP – di natura tanto moralista e razionaria nella matrice, quanto ipocrita nello svolgimento -, Green Book probabilmente ci obbliga dunque a pensare alle identità collettive.
Scomode e opprimenti, restano pur sempre il risultato di un naturale processo di semplificazione della mente umana che, nella costruzione del proprio io e nell’osservazione di quello altrui, tende comunque a categorizzare e categorizzarsi sulla base degli elementi a disposizione accumulati con l’esperienza diretta o indiretta.
E ci sono due cose che possiamo fare se vogliamo cambiarne il significato attribuito: promuovere eventualmente una identità differente e (soprattutto) esprimere in prima persona una identità differente, senza considerarci a tutti i costi altro rispetto a quella di cui, volente o nolente, facciamo parte.
In ogni caso, sia in forma affermativa che in forma critica rispetto ad esso, la nostra relazione con l’identità collettiva ci conferma la sua esistenza.
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IL FILM SEMBRA INDIRETTAMENTE EVOCARE UNA ALLEANZA TRA BLACK COMMUNITY E ITALOAMERICANI, PERO’…

Detto questo, una lettura più ortodossa di Green Book ci porta però in tutt’altra direzione: quella del dividi et impera, che ha risvolti politici interessanti (anche in vista delle prossime elezioni).
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Netflix, Hulu, Amazon, HBO prendono posizione a sostegno del movimento Black Lives Matter | RB CastingRiportando indietro nel tempo gli italoamericani, il film sembra infatti sottolineare le differenze all’interno di quello schieramento “nemico” che, senza mezzi termini, il movimento Black Lives Matter ha indicato genericamente nell’uomo bianco colonizzatore e razzista, buttando giù – come detto – anche le statue dell’italianissimo navigatore genovese.
Green Book, ricordando a posteriori un processo inclusivo che, per quanto incompleto, ha reso gli italoamericani parte integrante dell’identità statunitense, sembra così implicitamente evocare la possibilità che lo stesso avvenga con la minoranza afroamericana.
E indirettamente proietta nelle menti una sorta di alleanza tra le due “minoranze”.
Resterebbero poi da capire due cose (in altra sede): davvero gli afroamericani non sono ancora parte integrante dell’identità americana? E le manifestazioni violente, insieme gli attacchi frontali ai bianchi in quanto tali, sono davvero portatrici di unità o, al contrario, alimentano ancora di più le divisioni?
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In ogni caso, ciò che conta è che una lettura simile non fa altro che spostare il problema un po’ più in là: il nemico non sono tutti bianchi ma i bianchi WASP, la (ormai vecchia?) classe dominante.
Ed è qui che il discorso BLM si sovrappone apparentemente al discorso marxista, trovando varie conferme sia nella composizione del movimenti (Antifa, anarchici e sigle varie della sinistra), sia nelle rivendicazioni.
Ecco perché è importante evidenziare che la sovrapposizione tra proteste razziali e lotta di classe ha risvolti pericolosi.
In Germania, negli anni Trenta, il nazismo fece qualcosa di simile: presentare gli ebrei al tempo stesso come razza e come classe dominante, unificando questioni identitarie a questioni economiche.
E ne conosciamo tutti il risultato.
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Quando questo accade, in effetti, non siamo più di fronte ad una problematizzazione di una questione alla ricerca di analisi oggettive e soluzioni, ma di fronte alla ricerca di un capro espiatorio, che oggi è appunto il bianco.
Il bianco colonizzatore, il bianco conquistatore e sterminatore, il bianco che ha inventato il capitalismo per sfruttare e arricchirsi sulle spalle degli altri popoli, il bianco imperialista, il bianco responsabile dell’instaurazione e del mantenimento di un sistema implicitamente razzista che privilegia gli stessi bianchi nelle posizioni di comando, anche laddove istituzionalmente lo nega.
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Ecco perché è bene mettere le cose in chiaro perché una incomprensione simile può portare a conseguenze tragiche e sta già portando ad una profonda e pericolosa divisione, che dagli Usa si espande ad un’Europa in cui la questione migratoria si fa sentire sempre di più.

ECCO L’INGANNO “ANTI-RAZZISTA”

  1. In primo luogo, una impostazione simile, che fondamentalmente associa ogni tipo di cattiveria ai bianchi in quanto tali (e non in quanto individui), si fonda su un razzismo parallelo e inverso, ma anche contraddittorio e, come detto, ovviamente divisivo.
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  2. Il movimento BLM non sembra affermare prioritariamente un principio di uguaglianza come rivendicazione principale: non a caso non urla “siamo tutti americani” e persino dire “tutte le vite contano” gli sembra offensivo e scandaloso rispetto allo slogan “le vite dei neri contano”. BLM riafferma al contrario un principio di distinzione tra colpevoli e vittime basato sul fattore etnico: “NOI siamo gli americani discendenti degli schiavi africani, VOI avete fatto del male ai nostri ANTENATI, VOI siete e sarete sempre in debito con NOI”. Una ricostruzione, peraltro storicamente non veritiera, che taglia a fette la realtà anche politicaliticamente (VOI fascisti, NOI democratici) e che ignora come, d’altra parte, furono anche bianchi coloro che lottarono contro altri bianchi per abolire schiavismo e discriminazioni.
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  3. La contraddizione sta nel fatto che nascere bianco, nel “ricco Occidente”, viene considerato un caso fortuito e fortunato (il che giustificherebbe l’istanza di condividere con gli altri popoli il privilegio di essere nati dalla parte “giusta” del mondo) ma quando si tratta di afroamericani nati negli Usa e di rivendicazioni rispetto ai torti subiti, come abbiamo appena esemplificato, la discendenza e l’etnia diventano improvvisamente un elemento rilevante nell’esprimere una identità. Il che non quadra con la logica decostruzionista dell’identità (bianca) che si vuole fare. Ed il concetto per cui le identità non esistono, insomma, finisce per applicarsi solo ai bianchi.*
  4. Anche volendo adottare la logica della responsabilità collettiva dei popoli, è indiscutibilmente possibile affermare che ogni popolo ha commesso crimini nei confronti degli altri popoli. Per fare qualche nome a caso, gli arabi sono stati imperialisti, conquistatori e razzisti nel senso attuale del termine, così come lo sono stati o lo sono i romani, gli ottomani, i cinesi, i giapponesi, gli americani, i russi prima e dopo aver un governo anti-imperialista. Gli indigeni d’America si massacravano tra loro e riducevano in schiavitù i nemici, lo stesso facevano i popoli africani, che vendevano gli schiavi ai bianchi. I neri stessi possedevano schiavi. Nella storia abbiamo visto africani razzisti con altri africani, guerre tra tribù ed etnie, genocidi, asiatici contro asiatici, europei contro europei.
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  5. E’ quindi possibile concludere che, ovviamente, lo schiavismo non è un’invenzione dei bianchi, le discriminazioni razziali non sono un’invenzione dei bianchi, la violenza ed il sopruso non sono un’invenzione dei bianchi: al contrario, sono tutte invenzioni di persone senza scrupoli, invenzioni di gruppi di potere (inteso in senso sociologico e istituzionale) spesso per sottomettere innanzitutto il proprio popolo.
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  6. Quello che ha cambiato – almeno provvisoriamente – le carte in tavola, nell’epoca moderna, è stato il fatto che, ad un certo punto della storia, l’uomo bianco ha messo a frutto le scoperte scientifiche prima e “meglio” degli altri da un punto di vista economico. Le scoperte scientifiche applicate alla tecnologia e la capacità di creare un sistema finanziario che, per ragioni puramente materiali, è corso incontro alla ricerca, hanno regalato all’uomo bianco un vantaggio economico e quindi militare sugli altri popoli. Gli hanno dato il vantaggio di poter fare più male degli altri. E così lo ha fatto. Non in quanto bianco, ma in quanto uomo. Pensare che con altri popoli alla “guida” le cose sarebbero andate diversamente è una di queste due cose: una scarsa conoscienza dell’essere umano o un’affermazione estremamente razzista.
In conclusione, messa da parte la ricerca di capri espiatori collettivi, c’è da sempre un’unica battaglia, unificante e necessaria, appositamente silenziata: quella contro i soprusi che, in termini politici, si traduce nella battaglia contro i soprusi e gli abusi del potere (istituzionale, economico, criminale), nell’interesse della giustizia e dell’equità.
L’unico vero problema, infatti, – e solo in questo senso la battaglia è transnazionale – sono quei potenti ed ultraricchi che, a prescindere dal loro credo politico, colore, sesso, religione, fanno branco contro i popoli e contro i più deboli, sempre a prescindere dal loro credo politico, colore, sesso, religione.
L’unico problema, di qualunque razza siano, sono quelli che coi soldi, con il potere o con la forza, vivono sulle spalle di miliardi di esseri umani che hanno messo forzosamente a libro paga.
Questa gente cambia bandiera ma pensa solo all’autoconservazione, camuffandosi dietro qualsiasi ideologia.
Perché l’ideologia esprime soltanto la classe dominante: non anticipa le battaglie, ma ci ci impone la volontà di chi le ha vinte.
Ecco perché smascherare le ideologie è la battaglia primaria e primordiale dei popoli contro la pricipale arma del potere.
Una battaglia che non può avere bandiere perché di quelle bandiere sono i furbi i primi ad impossessarsi: contano solo l’orgoglio popolare e l’orgoglio dei lavoratori contro gli approfittatori di qualunque etnia.
Il resto è solo l’ennesimo modo di prendervi in giro.
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Emmanuel Raffaele Maraziti

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