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OGGI LA STORICA RICORRENZA SI SCONTRA CON L’ANTI-OCCIDENTALISMO DI SINISTRA E BLACK LIVES MATTER
Il 12 ottobre del 1492 Cristoforo Colombo metteva piede per la prima volta in America, in una isola che i nativi chiamavano Guanahani e che veniva poi ribattezzata San Salvador. Erano passati poco più di due mesi dalla partenza dalle coste spagnole, alla ricerca dell’est, nella consapevolezza della sfericità della terra. I calcoli si erano rivelati sbagliati, la traversata dell’Atlantico dura e lunga ma, alla fine, la perseveranza e la forza d’animo, dimostrata anche nel tenere a bada la ciurma, premiava Colombo e cambiava la storia dell’umanità.
Lo ha ricordato, pochi giorni fa, il presidente Donald Trump, che in questi mesi si è battuto per la difesa delle statue del navigatore (e si è complimentato con gli italiani che le hanno difese): “Ricordiamo il grande italiano che ha aperto un nuovo capitolo della storia mondiale e il permanente significato della sua azione per l’emisfero occidentale”.
Ma, per quello che in Spagna e Sud America si festeggia come “Dia de la Hispanidad” e che negli Usa è il “Columbus Day”, sono ormai giorni difficili.
Praticamente cancellato e sostituito negli Usa, la ricorrenza sopravvive in Spagna come festa dell’identità nazionale (senza troppi riferimenti a Colombo), mentre anche in Sud America la celebrazione ha virato verso altri lidi.
BLACK LIVES MATTER COME IL KU KLUX KLAN

Quelli di Black Lives Matter, del resto, non sono certo i primi a buttare giù le statue di Cristoforo Colombo: strano ma vero, prima di loro ci avevano già provato quelli del Ku Klux Klan.
In effetti, i membri della tristemente nota organizzazione suprematista americana, di cultura protestante e matrice anglosassone, non vedevano esattamente di buon occhio né gli italiani né altri immigrati dal sud Europa. Ad essere sinceri, non gli sembrava neanche fossero poi tanto bianchi.
Italo-americani e ispanici erano tutti “dagoes”: un’altra razza.
Per questo c’è addirittura chi collega l’istituzione ufficiale del “Columbus Day” nel 1892 (la data era celebrata informalmente da almeno un secolo) alla necessità di “far pace” con la comunità italo-americana, dopo un episodio di forte tensione tra Usa e Italia: un linciaggio contro gli italiani a New Orleans che aveva provocato ben undici morti, tra gli applausi della stampa.
Era il 1891 e gli italiani venivano recrutati per fare lavori duri e a basso costo, soprattutto negli Stati del sud.
A New Orleans, in quell’anno, l’omicidio di un agente di polizia aveva fatto scattare – in mancanza di prove – la rabbia contro gli italiani, tutti gli italiani.
Anche la polizia non ci era andata molto per il sottile e contro la comunità italiana era partito un vero e proprio rastrellamento.
La folla, facendo irruzione direttamente nella prigione, pensò al resto.
Non fu l’unico linciaggio contro gli italiani. Non fu l’unico episodio di discriminazione anti-italiano.
Si trattò al contrario di uno dei tanti episodi contro gli italiani emigrati negli Stati Uniti, collegati a pregiudizi sociali e, ovviamente, all’ombra di una mafia che faceva già capolino.
Ma c’era un’enorme questione di matrice razzisa che precedeva e motivava queste discriminazioni: un forte sentimento di ostilità e superiorità etnico-culturale da parte dei protestanti anglosassoni contro i cattolici e gli europei del sud, in una dinamica ampiamente sperimentata anche nel Regno Unito – che prevedeva perfino limitazioni al diritto di proprietà e ai diritti politici dei cattolici.
Dunque, mentre oggi gli “antifa” buttano giù le statue di Colombo, dimenticano innanzitutto la complessità della storia, che non è mai in bianco e nero.
CRISTOFORO COLOMBO RIMANE UN’ICONA

Quanto appena detto vale, naturalmente, anche in merito alla figura di Cristoforo Colombo (Cristobal Colon per gli ispanici), che resta un’icona storica pur non essendo probabilmente stato né un santo né un genocida, ma “solo” un uomo coi pregi e difetti del suo tempo.
In ogni caso, per quanto non sia stato letteralmente il primo a giungere in America, è lui che traccia una rotta sicura e stabilisce una connessione stabile con il continente americano, al termine di una impresa sicuramente eroica e leggendaria.
Ed è a partire da lui che inizia quella che – nel bene e nel male – fu la conquista di un continente sconfinato, l’incontro tra due mondi, l’apertura di nuove possibilità ed orizzonti, l’espansione dell’identità europea.
Le ombre sul suo conto riguardano la presunta condotta brutale verso i nativi ma forse, più che altro, le sue colpe simboliche: è lui che dà inizio alla colonizzazione del continente e, quindi, alle violenze contro gli indigeni.
D’altra parte, sono diametralmente opposte quanto interessanti le versioni relative al suo arresto da parte dell’inviato della corona spagnola Francisco de Bobadilla.
Sembra certo che i metodi del navigatore non fossero particolarmente dolci, ma è così che pare si fosse conquistato innanzitutto l’antipatia degli altri coloni: punizioni severe per chi rubava o uccideva, scontento per i frutti dell’impresa e pare anche divieto severo di battezzare e uccidere i nativi.
Ed ecco perché la questione delle terre promessegli sembra acquisire rilevanza: con la famosa “capitolazione”, infatti, all’esploratore genovese era stato promesso il governo delle terre eventualmente scoperte ed anche una grossa parte dei ricavi. Ma, dopo aver regalato il “Nuovo Mondo” alla corona, Colombo non era più essenziale, anzi: se oltre ad essere scomodo, non faceva neanche più gli interessi degli spagnoli, è facile pensare che metterlo fuori gioco (fisicamente e moralmente) fosse più conveniente, scaricando su di lui anche tutte le responsabilità per le brutalità commesse.
Se i colpevoli siano stati gli spagnoli, Colombo o entrambi non lo sappiamo con certezza assoluta.
Ma è sicuramente banale descrivere Colombo come un Hitler d’altri tempi, giunto in America (senza saperlo) con piani di sterminio.
Molto più verosimile è la dinamica di scontri – più o meno brutali e più o meno legittimi – con gli indigeni che si ribellarono alla “invasione” e che a lungo termine “premiò” i meglio armati invasori. Nulla di cui andare fieri, ma anche nulla che non facesse parte purtroppo del corso degli eventi: la guerra, a volte anche di conquista, che premiava i più forti.
La complessità della storia è, appunto, la complessità delle dinamiche reali.
Ma fa riflettere guardare su Netflix un documentario celebrativo sull’ex presidente del Paraguay Pepe Mujica, descritto dalla sinistra globale come il presidente buono e umile che vive in povertà, mentre si trascura volentieri di censurarlo per la sua storia passata di terrorismo, rapine, omicidi e lotta armata: chi fa la storia nasconde o mette in evidenza ciò che gli pare, ma nessun santo ha mai fatto la storia.
E, di certo, Colombo ha fatto la storia più di Mujica, per concludere il paragone.
DECLINO DI UNA RICORRENZA SOTTO ATTACCO

Detto questo, se negli Usa il Columbus Day, alla faccia della comunità italoamericana, si festeggia oggi sempre con meno entusiasmo – cancellato, sostituito da celebrazioni dedicate ai nativi e boicottato in diverse città – non se la passa meglio il “Dia de la Hispanidad”, che peraltro, ufficialmente, in Spagna non si chiama neanche più così.
Festa nazionale, punto.
Quella che il legislatore spagnolo, nel 1987, descriveva come una ricorrenza dedicata alla “proiezione linguistica e culturale oltre i limiti europei” altro non è, appunto, che il processo di colonizzazione iniziato da Colombo proprio il 12 ottobre del 1492 e del quale ormai ci si vergogna.
Il ricordo, ovvero la storia, disturba oggi europei ed “euro-discendenti”, che così tentano la rimozione.
Non ci si può meravigliare, dunque, se in molti Paesi del Sud America, quello che prima era addirittura il “Dia de la Raza” (Giorno della Razza, secondo una denominazione ancora usata in alcuni Paesei del Centro America e in Spagna fino al 1958), il Dia de la Hispanidad ha cambiato denominazione, per omaggiare i nativi e la diversità ed è via via diventato, ad esempio, “Dia del respeto a la diversidad cultural” (in Argentina grazie ad una legge della Kirchner del 2010, la quale fece anche rimuovere la statua a lui dedicata dalla piazza Colombo a Buenos Aires) o “Dia de la Resistencia indigena” (in Venezuela, per volere di Hugo Chavez).
Così, se per ideologie, lingua, cultura, costumi e discendenza, Sud e Centro America possono essere considerati discendenti “ribelli e meticci” della madrepatria ispanica, il rifiuto di celebrare l’arrivo degli europei si richiama però ad istanze anti-spagnole, anti-europee e nativiste che sono semplicemente fuori dalla logica oltre che dalla storia – vi sembra indigena la Kirchner?
Il “Dia de la Hispanidad”, invece che aver un senso esclusivista e anti-nativista, poteva e può invece rappresentare esattamente quell’identità allargata oltre i confini della penisola iberica e del continente europeo, in una sorta di pacificazione potenzialmente capace di coinvolgere e rappresentare tutti al di là dell’aspetto biologico.
La sinistra terzomondista ha invece altri piani: scardinare la pur eterogenea identità occidentale, per senso di colpa e voglia di essere altro. Per puro nichilismo. Per auto-razzismo.
Come adolescenti in crisi esistenziale.
E non è un caso che, ad esempio negli Usa, questo sentimento anti-occidentale altrimenti difficilmente veicolabile in un Paese tradizionalmente più conservatore, sia stato affidato tacitamente dalla sinistra a Black Lives Matter, che infatti rappresenta le istanze di chi rivendica una discendenza non europea: pur blaterando di unità, la sinistra culturale mira solo a dividere e decostruire, anche a costo di fomentare movimenti estremisti e violenze.
Ma rivendicare una identità non vuol dire rivendicare gli errori: può invece significare rivendicare come si è migliorati rispetto al passato, senza fingere di essere altro. E senza buttare via anche quanto si è fatto e si può fare di buono. Dopo tutto, è esattamente questo processo di continua costruzione valoriale a partire dall’esperienza che rappresenta l’identità.
Feliz Dia de la Hispanidad!
Happy Columbus Day!
Emmanuel Raffaele Maraziti

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Da Mazzorelloni non-wasp a simboli del suprematismo bianco. Le due fazioni iperpolarizzate d’america di certo tirano per la giacchetta i simboli legati al concetto dell’italianità nell’anglosfera. Si parla spesso d’identità reificata come un male, ma forse è il naturale comportamento animale dell’uomo. Forse il problema maggiore di questi tempi è l’identità criminalizzata al di là delle identità particolari. Che poi in realtà sono criminalizzate solo le identità a partire da una concezione politica di una delle due parti.
Grazie comunque, articolo davvero interessante.
Grazie per l’attenzione e per il tuo commento!