Valentijn de Hingh. La sua storia è un caso paradigmatico nella trattazione della transessualità. Non fosse altro che la modella amante della scrittura e poi anche dj olandese, nata in un corpo maschile il 5 maggio del 1990, dall’età di otto anni fino ai diciassette è stata protagonista di un documentario che ci permette di osservare in presa diretta alcuni momenti cruciali della sua vita e, così, probabilmente, della vita di molte altre persone che soffrono di disforia di genere. Il documentario – che il regista Hetty Nietsch ha iniziato quasi “casualmente”, occupandosi delle riprese per un programma che intendeva affrontare il tema dei problemi di identità sessuale precoci – parte quando Valentijn è appena un bambino e si conclude quando, ormai una “lei”, è lì lì per decidere se affrontare l’operazione per cambiare definitivamente sesso. Ed è proprio da questa proiezione, promossa dalla Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica che, ieri, presso la “Casa dei Diritti” di Milano, si è partiti per una discussione sul tema del “genere” sessuale, con Antonio Prunas (Professore Associato di Psicologia Clinica, UNIMIB), Roberta Dameno (ricercatrice di Sociologia del Diritto, UNIMIB) e Stefania Bonadonna (Medico, specialista in endocrinologia). Rivoluzione Romantica, che spesso si è occupata del tema (affrontato nel libro di Adriano Scianca “Contro l’eroticamente corretto“), era là.
Il documentario, uscito in Olanda dieci anni fa, conserva infatti intatta la sua attualità, non solo per il tema di cui si occupa, ma anche perché documenta la trattazione medica precoce del problema attraverso il ritardo indotto della pubertà. Manifestando Valentijn, fin da piccolo, comportamenti ritenuti tali da non essere ritenuto “classificabile” come un “classico maschietto” e alcuni dubbi nel merito, i genitori decidono infatti di rivolgersi molto presto ad uno psicologo e, così, raggiunta l’età pre-adolescenziale, di sottoporlo ad una serie di iniezioni per arrestare la pubertà e, quindi, lo sviluppo di caratteristiche fisiche mascoline che, nel caso avesse deciso di diventare donna, avrebbero reso tutto più difficile. Nel film è possibile vedere Valentijn scartare entusiasta una macchina da cucire, giocare con la Barbie, sfogliare riviste di acconciature femminili e, in seguito, desiderare di entrare nell’accademia di danza per diventare una ballerina, “costretto” però ad allenarsi coi ragazzini ed, infine, abbandonare l’accademia quando l’insegnante (che insinua anche il dubbio che i genitori contribuiscano a confondere il bambino ponendo la questione con troppa insistenza) esclude che, per caratteristiche tecniche, possa diventare una ballerina e non un ballerino. Nel documentario è ancora possibile osservare l’estrema indecisione di Valentijn che, pur sottoposto precocemente ad una questione forse più grande di lui e pur persistendo in pose e comportamenti attribuibili comunemente al genere femminile, continua a mostrare una forte indecisione quanto alla propria identità. In ogni caso, per molti anni, la famiglia e il bambino stesso, continueranno a riferirsi a Valentijn come ad un “lui”. Che, però, spiega: “sono estremamente indeciso”. Non sa se vuole diventare donna. Non sa se è una ragazza. Non sa se in futuro vorrà diventarlo completamente. Le compagne di scuola spiegano che lui non parla dei ragazzi come loro, lui dice che prima gli piacevano le ragazze ma ora non lo sa. Pian piano Valentijn diventa “donna” nel vestirsi e cominciano i disagi quando, a scuola, deve usare lo spogliatoio maschile. I genitori la portano in consulto da un transessuale che ha completato la sua transizione divenendo donna e che gli consiglia di portare a termine il suo percorso. Lui sembra ancora indeciso. Ad un certo punto, decide di acquistare un reggiseno ed un seno finto in silicone. Le compagne di scuola sono disorientate. A sedici anni, nonostante l’indecisione, inizia la terapia ormonale a base di estrogeni per diventare donna. Dopo l’arresto della pubertà, è il secondo passo decisivo, questo pressoché irreversibile, anche perché comporta la crescita del senso (ci siamo occupati nei giorni scorsi di un ragazzino australiano che, dopo la terapia, aveva cambiato idea). Intanto Valentijn inizia ad appassionarsi di moda. Nelle ultime riprese lo ritroviamo, all’età di circa 17 anni, ormai una donna all’apparenza, ma ancora molto indeciso e, soprattutto, senza che manifesti chiaramente un orientamento sessuale rivolto al genere maschile. Nata ad Amsterdam, Valentijn – anche se il documentario si ferma prima – si sottopone infine all’operazione e, divenuto donna, la troviamo in un video raccontare questo terzo e ultimo passaggio, in cui ancora una volta, nonostante l’operazione, l’identità non è definita e rifiuta ormai di esserlo. Valentijn, appassionata di moda, arriva infatti sulle passerelle importanti e, nel 2011, anche Vogue parla di lei. Oggi, scrive e fa la dj.
La sua storia è stata l’occasione, anche ieri, di affrontare la tematica del genere e, anche nella discussione venuta fuori, sembra trovare conferma la tesi per cui la cosiddetta “teoria gender”, legittima o meno, innanzitutto esiste. E lo si evince dalla discussione e dalle posizioni degli esperti presenti, che ripropongono essenzialmente un concetto: la sessualità intesa come costruzione binaria andrebbe abolita come concezione e, quindi, nella sua valenza legale (anagrafica e non solo). L’identità di genere non sembra avere attinenza con il sesso biologico o, almeno, la questione non sembra sufficientemente problematizzata: è chiaro infatti che, se la differenza biologica non è ragione sufficiente per permettere o suggerire la sensatezza di una categorizzazione, allora non è neanche ritenuta sufficientemente rilevante. Ora, non è il caso di spiegare in questa sede le implicazioni pratiche e concettuali di questa teoria (per le quali rimandiamo volentieri al testo citato), ma non possiamo fare a meno di proporre qualche riflessione. E, innanzitutto, una premessa: non è nostra intenzione insinuare che l’approccio per nulla scontato dei genitori nel rispondere ai desideri e comportamenti del figlio in un modo e non in un altro – problematizzando con insistenza la questione dell’identità sessuale ad un bambino – possa essere stata decisiva – non sarebbe nostra competenza farlo -, ma possiamo avanzare la questione quanto meno come interrogativo dal momento che la disforia è innanzitutto un problema di tipo mentale la cui diagnosi va affrontata con estrema serietà.
Primo: in quanto problematica classificata come disturbo dalla psichiatria, con incidenza peraltro relativamente bassa, è legittimo collegare a questa tematica la discussione sulla categorizzazione di genere e, sulla base di questa casistica, metterla in dubbio? Secondo noi no.
Terzo: l’esistenza di uno spettro di variabili soggettivo tra l’avere una identità di genere al cento per cento maschile o femminile, permette di ignorare il dato biologico oggettivo e le relative differenze tra donne e uomini con tutte le relative implicazioni fisiche e psicologiche? Secondo noi no.
La disforia, dunque, dovrebbe essere trattata con tutta la sensibilità e attenzione del caso, ma non come una questione “politica”. Ecco il punto essenziale secondo noi.
In ogni caso, poniamo l’ipotesi che non ci siano differenze legali tra uomo e donna e pensiamo all’esempio sciocco di campionati di rugby misti: sarebbe garantita l’equità nell’accesso nel momento in cui si mettono in competizione due sessi con strutture fisiche tendenzialmente differenti come se queste differenze non ci fossero? Al di là dell’esempio pratico applicabile ad altri casi, la questione è concettuale: ignorare una differenza oggettiva non vuol dire cancellarla, ma può anche voler dire non tutelarla. Ma supponiamo anche di accettare l’abolizione del significato legale della sessualità, in che modo questo influirebbe sul dato biologico e sulla relativa differenza di genere? Non crediamo sia sufficiente ignorare un dato di fatto, per cancellarne l’esistenza. E, in secondo luogo, sarebbe ammissibile un tentativo in tal senso? Secondo noi no.
Emmanuel Raffaele