E’ James Alex Fields Jr., 20 anni, nato a Kenton nel Kentucky ma attualmente residente, insieme alla madre, a Maumee, nello stato americano dell’Ohio, la persona arrestata con l’accusa di essere il responsabile della morte della 32enne Heather Heyer e del ferimento di una ventina di persone che, sabato scorso, nel primo pomeriggio, stavano partecipando ad una manifestazione “anti-razzista” a Charlottesville, in Virginia. La notizia arriva a poche ore da quello che molti notiziari hanno descritto come una sorta di attacco terroristico di matrice neonazista portato attraverso l’utilizzo di un auto lanciata sulla folla.
L’uomo, però, è al momento accusato di omicidio di secondo grado, fattispecie che, negli Usa, a differenza dell’omicidio di primo grado, esclude la premeditazione, ovvero esattamente ciò che caratterizza un attentato terroristico e solitamente definisce, invece, l’omicidio come conseguenza altamente probabile di un atto violento. Ma è anche vero che tale imputazione, a meno di evidenze contrarie, è praticamente una prassi, con una pena che prevede la detenzione da cinque a quarant’anni, a differenza dell’omicidio di primo grado che può comportare il carcere a vita o la pena di morte (dal momento che, al contrario della Virginia Occidentale, in Virginia la pena capitale è ancora praticata e l’ultima esecuzione risale a pochi mesi fa). Ma, in una definizione che curiosamente ricalca esattamente quella usata, prima del tragico avvenimento, dagli antifascisti in un comunicato contro i “suprematisti”, il procuratore generale Jeff Sessions ieri si è affrettato a dichiarare che l’atto merita “la definizione di terrorismo domestico” ed ha aggiunto: “potete star certi che porteremo avanti le indagini in direzione delle accuse più gravi che sarà possibile muovere perché questo è inequivocabilmente un attacco malvagio ed inaccettabile”. E’ per questa ragione che, ha spiegato ancora il procuratore, del caso si occuperà la sezione anti-terrorismo dell’Fbi.

Insomma, senza bisogno di essere complottisti, è possibile notare che ci sono già tutti i segnali di quello che sarà, se non altro, un processo politico con l’intenzione di attribuire a qualcuno una pena esemplare. Intanto ieri, nel primo interrogatorio avvenuto in video-conferenza e durato appena dieci minuti, l’imputato ha negato ogni responsabilità ed ha spiegato di non potersi permettere un legale. Il giudice, da parte sua, ha negato la possibilità di ottenere la libertà su cauzione fino a sentenza definitiva ed ha nominato un avvocato d’ufficio, assente poiché non ancora informato della nomina ed a causa di ritardo dovuto ad una prima nomina saltata essendo l’avvocato in questione direttamente interessato dagli eventi. Fuori dal tribunale, invece, l’attivista Matthew Heimbach urlava le colpe della polizia che, secondo alcune sigle dell’alt-right, avrebbe colpevolmente mancato di presidiare i contro-manifestanti, lasciandoli di fatto in balia di eventuali aggressioni. Apostrofato da alcuni – “Vai a casa, nazista!” – ha risposto: “Mi piace Charlottesville, credo che rimarrò!”.
Tornando ai fatti, il New York Times ha scritto: “un uomo ha condotto la sua auto contro alcune auto in coda, causando una reazione a catena che ha ucciso una persona e ne ha ferite almeno altre 19″. Martin Kumer, direttore del carcere di Albemarle-Charlottesville, in una email ha confermato: “E’ accusato di omicidio di secondo grado, lesioni gravi su tre persone e di non essersi fermato a seguito di un incidente che ha portato alla morte di una persona”. La dinamica è confermata sia da alcuni video che circolano in rete sia dal fotografo Pat Jarret, che ha reso la sua testimonianza a “The Guardian”. Dai video, del resto, sembra evidente che l‘autista della Dodge Challenger grigia procede in maniera lineare ma certamente spedita e senza apparentemente curarsi della gente che occupa la carreggiata tanto che, già negli attimi che precedono l’impatto con il veicolo antistante, sembra colpire alcuni ragazzi facendoli schizzare in aria. E’ però anche evidente che altri vengono colpiti mentre l’auto, non potendo proseguire la sua corsa, dopo alcuni secondi di stop, fugge in retromarcia, mentre alcuni manifestanti l’hanno accerchiata e tentano l’assalto a colpi di bastone. A parte questi pochi secondi di riprese, seppur catturati da diverse angolazioni, per il momento non si sa nulla di preciso e nulla, perciò, è da escludere a priori. La manifestazione annunciava di essere non violenta ma, dagli scontri avvenuti e dai bastoni visibili anche nel video, è chiaro che non è stato così.

Fields potrebbe aver puntato sui manifestanti o potrebbe esser stato precedentemente riconosciuto e costretto alla fuga ma, sulla base alle immagini circolate finora, ogni ipotesi simile sarebbe azzardata. Le auto già presenti in mezzo ai manifestanti fanno pensare ad una strada quanto meno non delimitata né riservata ai manifestanti, in cui facilmente una persona che non è del posto potrebbe finire per caso ed, in effetti, stando alla mappatura degli eventi, i contro-manifestanti non si trovavano nel luogo della contromanifestazione ma più vicini al luogo degli scontri. Ma, in questa eventualità, non è chiaro perché Fields avrebbe scelto di proseguire dritto proprio in direzione dei manifestanti anziché svoltare a sinistra o destra e se avrebbe avuto concretamente la possibilità di farlo.
In attesa di maggiori dettagli che eventualmente confermino l’ipotesi iniziale di un attacco deliberato, per ora si sa che il ventenne dietro le sbarre era a Charlottsville per la manifestazione convocata da diverse sigle dell’alt-right, che nel 2015 aveva iniziato l’addestramento nell’esercito senza poi concluderlo, che è orfano di padre, che viene descritto come un estremista di destra ma che Vanguard America – dietro le cui insegne sarebbe stato visto sfilare e fotografato – ha negato con un twit la sua appartenenza al movimento.
COME NASCONO GLI SCONTRI IN VIRGINIA?

Ovviamente, la causa occasionale delle rispettive proteste riguarda la decisione sulla rimozione del monumento equestre di Robert Edward Lee, iniziato dallo scultore newyorkese Henry Merwin Shrady e terminato dall’italiano Leo Lentelli e che, fin dal 1924, fa bella mostra di sé nell’omonimo parco di Charlottesville, cittadina di 40mila abitanti a poco più di cento chilometri da Washington, fondata nel 1762 e così denominata in onore a Sofia Carlotta di Meclemburgo-Strelitz, regina consorte di Re Giorgio III del Regno Unito. Infatti, dopo circa un secolo dalla sua erezione e quasi un secolo e mezzo dalla morte dello stesso generale Lee, una campagna portata avanti dagli attivisti della comunità nera ha indotto infine l’assemblea della città a votare per la rimozione della statua e decidere, nel frattempo, di rinominare il parco, cambiando il nome da Lee Park ad Emancipation Park appunto.



L’idea della rimozione della statua viene in realtà fuori già cinque anni fa, durante il Festival del Libro della Virginia e la questione viene posta dal consigliere cittadino di fede democratica Kristin Szakos. La vicenda scatena le polemiche ma, intanto, sull’onda degli eventi nazionali, l’idea prende piede. Nel 2015 la scritta “Black Lives Matter” imbratta la sede cittadina della fonazione Lee. Nel 2016 Wes Bellamy, vicesindaco di colore di Charlottesville – una delle “città santuario” che proteggono gli immigrati clandestini dalle autorità federali -, inizia ad impegnarsi in prima persona per arrivare alla rimozione. Nello stesso tempo, Zyhanna Bryant, una studentessa ed attivista nera, porta la questione all’attenzione dell’assemblea cittadina attraverso una petizione. Così la città istituisce una commissione che, in un rapporto finale, suggerisce due vie alternative: la ricollocazione della statua o la sua “contestualizzazione” (soluzione scelta, ad esempio, dall’Oriel College di Oxford dove era stata sollevata una questione simile), attraverso “l’inclusione di nuove ed accurate informazioni storiche”. A febbraio, però, il consiglio vota e, senza mezzi termini, delibera la rimozione della statua. A maggio c’erano già state manifestazioni accese contro la decisione. Nonostante questo, a giugno il parco era già stato rinominato. Sulla rimozione fisica della statua, invece, si è intanto aperto un contenzioso giudiziario, dal momento che è ancora incerta la competenza dell’amministrazione locale in una decisione di questo tipo.
COSA C’E’ DIETRO LA STATUA DEL GENERALE LEE?
Questioni burocratiche a parte, come anticipavamo, l’intera vicenda non costituisce un episodio isolato, ecco perché la decisione di diverse sigla di destra di convergere su Charlottesville sabato scorso per una grande manifestazione. Dal Sud Africa al Regno Unito fino agli Usa e non solo, in tutti i paesi interessati da una cultura di tipo anglosassone, proprio questo sembra lo step successivo nella lotta per l’uguaglianza: cancellare ogni traccia di un passato che, anche in quanto tale, è ritenuto offensivo. Così, decine sono state le iniziative simili già state portate avanti e giunte addirittura alla pretesa di non studiare i filosofi bianchi. Nei college e nelle università la questione razziale è avvertita più che mai, fino a dar vita ad una serie sull’argomento addirittura prodotta da Netflix. Ogni cosa ritenuta simbolo dell’oppressione dei bianchi sulle minoranze è ormai considerata come qualcosa da eliminare ma, nell’interpretare questo principio, si è andati spesso molto oltre, finendo quasi a puntare il dito contro l’intera storia e cultura della razza bianca.

Ecco perché anche il generale Lee – lo stesso che, nella famosa serie televisiva anni Ottanta “Hazzard”, dava il nome all’auto che ne era protagonista insieme ai cugini Bo e Luke (“curiosamente” un’altra Dodge) e ad una bandiera sudista dipinta sul tetto -, nativo della Virginia e, al culmine della sua carriera militare iniziata nell’esercito statunitense, comandante in capo proprio dell’esercito sudista, è divenuto ormai uno dei personaggi indigeribili per i censori della storia, che non sopportano le sfumature e vedono tutto, appunto, bianco o nero. Figlio di un eroe della guerra di indipendenza americana contro il Regno Unito, Robert E. Lee entra nell’accademia militare a 18 anni, si diploma con successo e diviene assistente-ingegnere nel Corpo del Genio. Non sembra sia stato un grande schiavista ma, di certo, ha posseduto degli schiavi manifestando la volontà di affrancarli alla sua morte, così come furono affrancati quelli ricevuti come eredità dalla famiglia della moglie. Fedele alla sua Virginia, sembra che proprio per questa ragione si sia unito alla causa sudista, poi ridotta anch’essa ad una diatriba tra schiavisti e abolizionisti. Nel dopoguerra, effettivamente, si impegnò in prima persona per la riconciliazione. Dal 1865 fu preside del Washington College a Lexington (Virginia), che portò ad una grande crescita qualitativa. Di certo, quella riconciliazione da egli desiderata è stata piena e postuma con la restituzione della cittadinanza ai membri dell’esercito confederato attraverso la proclamazione del 1975 del presidente Gerald Ford. Anche le sue proprietà, prima confiscate, dopo la sua morte vennero del resto restituite agli eredi. E ancora oggi decine di contee portano il suo nome, oltre a centinaia di strade e monumenti.
Ma, in un’America ancora dilaniata dalle divisioni etniche e ben lontana dal rappresentare la favola della società multi-etnica venduta al mondo come esempio di democrazia da esportare, quella riconciliazione, secondo gli attivisti di sinistra e quelli della comunità nera, non avrebbe dovuto mai avvenire. Quel perdono concesso dai bianchi ad altri bianchi, dopo tutto, è per loro soltanto l’ennesimo simbolo di una società che, comunque, si percepisce come bianca e non ha capito che non può più esserlo e che quella riconciliazione, quindi, non è più gradita. Le minoranze non sono più minoranze e la working-class bianca ha sostenuto Trump proprio perché si sente assediata. La posizione rispetto alla rimozione di un simbolo come questo non è altro che questo: una scelta di campo. E non può essere diversamente.
“Ciò che ci spinge ad essere qui tutti insieme è il fatto di essere bianchi e di essere un popolo, che non vuole essere sostituito”, ha dichiarato l’attivista di destra Richard Spencer. Ci si potrebbe mettere a scandagliare la vita e le idee del generale Lee per valutare quanto possano essere politicamente corrette ed accettabili, per difenderlo e attaccarlo alla luce della coscienza politica attuale ma poi, allo stesso modo, per un motivo o l’altro, si dovrebbero rimettere in discussione gli studi e i tributi rivolti a quasi ogni altro personaggio che non abbia vissuto secondo i dettami della sinistra nella liberal-democrazia contemporanea. Ma, soprattutto, nel momento stesso in cui si dovesse accettare il politicamente corretto come metro di giudizio obbligatorio, si accetterebbe contemporaneamente l’imposizione di un vero e proprio regime culturale e politico. E quel regime culturale di matrice progressista, negli Usa come nel Regno Unito, vuole imporre un concetto molto chiaro: “questa non è la casa dei bianchi, questa non è più la vostra patria, la vostra storia non ci appartiene o ci è nemica e quindi va cancellata”. Proprio queste mire anti-identitarie e la decisione della sinistra di sopprimere l’istinto di conservazione della popolazione bianca in nome dello Stato multi-etnico (che è peraltro una negazione del concetto stesso di nazione e di auto-determinazione), però, non fanno che mostrare, in controluce, il manifestarsi di una precisa coscienza etnica non-bianca che vuole imporsi attraverso ogni battaglia “anti-razzista”. E, infatti, anche quando non c’è nessuna discriminazione concreta contro cui scagliarsi, ci si scaglia contro il passato della razza degli “oppressori” e, senza troppe sottigliezze e relativismi, quel passato viene semplificato attraverso una dialettica superficiale che mette i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Puoi essere stato un grande uomo ma se eri dal lato sbagliato della storia, sei da buttare giù, vivo o morto che tu sia. Lo ha dimostrato l’ex presidente Barack Obama, dal quale, nel 2015, è partita la campagna finale di criminalizzazione della bandiera sudista, considerata ormai senza se e senza ma simbolo di razzismo, tanto da indurre la Cbs ad interrompere anche la trasmissione della già citata serie “Hazzard”.
C’è tutto questo dietro la manifestazione dell’alt-right a Charlottesville e la contromanifestazione convocata dagli antifascisti sfociata in scontri, culminata con l’uccisione della ragazza, lo stato d’emergenza e le violente manifestazioni di ieri nelle principali città degli Stati Uniti contro Trump. “Charlottesville”, ha scritto “The Guardian”, “è solo l’ultimo caso: è da mesi che fascisti e antifascisti si scontrano nel corso di manifestazioni pubbliche in tutto il paese, fra cui Berkeley, California, Portland, Oregon, New Orleans, Pikeville, Kentucku, e lo scorso mese a Charlottesville, dove più di mille persone hanno manifestato contro cinquanta membri del KKK, molti dei quali con tunica e cappuccio. Ma il raduno di sabato ha davvero segnato un nuovo livello di intensità, sia nella dimensione della protesta che nel livello della violenza“. Da una parte il movimento “Black Lives Matter” in costante crescita, a volte violento ma protetto nelle sue battaglie “egualitarie” dalle istituzioni, dall’altra l’alt-right, che non trova spazio nel dibattito politico ma è stata sdoganata dall’elezione dell’outsider Trump. “Siamo determinati a riprenderci il nostro paese e realizzare le promesse di Donald Trump”, ha spiegato Davide Duke del KKK, mostrando la complessità della situazione per l’attuale presidente, il quale ha senz’altro strizzato l’occhio all’America bianca per farsi eleggere ma ha davvero poco margine di manovra, tanto che, dopo due giorni di polemiche dovute alle parole non dette sulla vicenda, ieri ha dichiarato: “Il razzismo è il male e coloro che provocano violenza in suo nome sono criminali e delinquenti, compresi il KKK, neo-nazisti, suprematisti bianchi e altri gruppi d’odio, che sono ripugnanti per tutto ciò che ci è caro in quanto americani“. Accusato per due giorni di non aver esplicitamente condannato la destra radicale e identitaria, facendo riferimento soltanto alle “violenze commesse da più parti” e rimanendo muto a seguito delle richieste di condanne specifiche nei confronti dei suprematisti che hanno manifestato in questi giorni (come aveva invece fatto subito il suo vicepresidente Mike Pence), il presidente ha infine dato alla stampa quello che voleva: l’ennesima richiesta di perdono. Ma è tutta una farsa, qualsiasi sia la verità del Presidente. Le prese di distanza dall’alt-righ e la condanna dei “neonazisti” (compreso lo stesso Duke), infatti, erano già arrivate più volte e, soprattutto, a seguito della sua elezione, dopo alcune immagini in cui l’estrema destra festeggiava la vittoria di Trump con tanto di braccia tese.
Se anche fosse, d’altronde, per l’attacco di Charlottesville non varrebbe la tesi dell’azione isolata: quell’omicidio segna un movimento. E quel movimento, senza distinzioni, rappresenta, che ciò piaccia o meno, tutti i bianchi che vogliono che quella statua rimanga al suo posto. Quei bianchi, quindi, sono per definizione tutti violenti e razzisti, da buttare giù come Lee.
Emmanuel Raffaele
I VIDEO DELL’IMPATTO
Di seguito due video che riprendono il momento dell’impatto, il primo registrato con uno smartphone e, il secondo, da un drone.
Infine, cliccando QUI, un link che rimanda al sito della Cnn e contiene diversi video relativi all’accaduto, tra i quali uno in particolare, della durata di 1 minuto e 13 secondi (“Videos show car crash into protesters), in cui è possibile vedere l’impatto da altre due angolazioni.
5 risposte a "Virginia, ieri l’interrogatorio del sospetto omicida e l’attesa condanna di Trump ai “suprematisti”. Intanto il procuratore prepara un processo politico [VIDEO]"