Sovranita’, nemica secolare dei progressisti: ecco perche’ farne una parola d’ordine

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C’erano un volta gli stati nazionali. Ora non ci sono più. Se la politica fosse una fiaba progressista è indubbio che questo sarebbe il suo incipit.

“Se concepiamo la storia moderna non come vittoria dello stato assoluto, ma come vittoria del costituzionalismo, allora ci accorgeremo che l’elemento di continuità di questa lotta è proprio nel suo avversario, la sovranità” (N. Matteucci, “Sovranità”). E ancora: “se il binomio sovranità-Stato appartiene propriamente alla modernità, anzi se quel binomio è la modernità […], la sovranità e lo Stato sembrano destinati ad una pari obsolescenza nella dimensione del potere che risulta propria del post-moderno (D. Quaglioni, “La sovranità”). Ferrajoli addirittura definisce la sovranità un “relitto premoderno”. Secondo la scienza politica, in breve, la sovranità è un po’ il nemico principale della democrazia, sia quella diretta, che (soprattutto) quella rappresentativa fondata sulla separazione dei poteri. E ne è allo stesso l’incubo dal momento che, nel suo significato metastorico, che pure alcuni rifiutano, la sovranità in quanto tale, nata con gli stati nazionali ed il Trattato di Westfalia nel 1648, non è altro che il “supremo potere di comando (summa potestas) connesso all’esercizio delle funzioni fondamentali di ogni sistema politico” (P.P. Portinaro, “Sovranità” in “Enciclopedia del pensiero politico”). Dunque, un elemento ineliminabile, connaturato ad ogni comunità umana ed alla sua organizzazione politica. Ma c’è di più. Innanzitutto essa è per definizione assoluta. Non c’è quindi sovranità nello stato che riconosce poteri superiori ad esso fuori o dentro i confini nazionali. Inoltre, essendo per definizione indivisibile, la sovranità in quanto tale confligge con il concetto d’esordio, ad esempio, della costituzione italiana: la sovranità che appartiene al popolo, che infatti, evidenziandone l’artificio retorico, “la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione” (art. 1 Cost) in quella che lo stesso Portinaro rileva essere una trasfigurazione del concetto in “sovranità del diritto”. Ciò semplicemente perché, come evidenzia Carl Shmitt, “sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, chi detiene il “monopolio della decisione ultima”, mentre“tutte le tendenze del moderno sviluppo dello stato di diritto concorrono ad escludere un sovrano in questo senso”.

Il punto è questo: il nemico giurato delle teorie liberali, democratiche, socialiste e anarchiche è esattamente il concetto di sovranità e ciò che ci troviamo oggi a fronteggiare è in realtà una sconfitta già avvenuta e datata 1945 quando, la nascita dell’Onu e con essa della comunità internazionale quale oggi è intesa ed, in seguito (1948), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sanciscono la fine della sovranità assoluta degli stati all’interno dei propri confini e fanno dei principi democratici parte dei diritti inalienabili dell’uomo, rivelando l’ideologizzazione propria all’organizzazione. Legittimo. Ovvio addirittura. Sta di fatto che dire oggi “Basta Europa” ha un senso soltanto se si comprende che la lotta contro la tecnocrazia europea non è quella decisiva e che la questione è duplice. Da una parte combattere chi mira a relegare al passato la sovranità nazionale e con essa gli stati nazionali, con il piano esplicito, ad esempio, di una parte dei federalisti europei del dopoguerra di giungere ad uno stato federale con graduali erosioni della sovranità per giungere ad una federazione di fatto senza troppi clamori ed opposizioni eccessive, dall’altra comprendere che la battaglia per la sovranità si conclude soltanto con una nuova forma di stato, non certo con il liberalismo o uno degli altri modelli che costituiscono soltanto il preludio della sconfitta. Il problema, dunque, è tanto esterno quanto interno, politico più che mai. Chi vuole la fine degli stati nazionali, non vuole spostare semplicemente la sovranità altrove ma, disperdendola in mille rivoli (è la rete, modello non piramidale ma orizzontale, segnalata con entusiasmo anche nelle recenti discipline che analizzano le politiche pubbliche quale modello democratico di partecipazione ai processi decisionali ), di fatto, distruggerla. Il che non vuol dire giungere sul serio all’utopistico autogoverno del popolo ma soltanto costruire un altro, enorme, artificio retorico, giuridico e politico, da sostituire all’affascinante ma vuoto concetto di sovranità del popolo, che condurrà, anzi, sta conducendo già soltanto ad un ulteriore allontanamento della decisione ultima dai cittadini. Se la nostra casta dove risiedeva il potere decisionale prima stava in parlamento o negli uffici ministeriali, oggi sta fuori dai nostri confini, tanto più che persino le istituzioni che dovrebbero salvarne l’apparenza sono con tutta evidenza carenti quanto a rappresentatività. In un “comune” manuale di “Diritto costituzionale comparato ed europeo”, il cui autore è l’ex preside della Facoltà di Scienze politiche di Cosenza, Silvio Gambino, con simpatie non certo di destra, scrive: “Non si può, infatti, fare a meno di rilevare che il sistema costituzionale europeo che si dipana dal XXI sec. sotto le insegne dell’effettività si definisce sempre più come un ‘costituzionalismo dei governanti’, ‘ottriato’, vale a dire un costituzionalismo dall’alto, molto diverso, quindi, da quel ‘costituzionalismo dei governati’ che è stato protagonista degli stati europeo nel primo e (soprattutto) nel secondo Novecento […] ben lungi dal rispondere ai canoni della democrazia rappresentativa. E ancora: “Le decisioni più importanti, infatti, tendono ad essere prevalente (se non esclusivo) appannaggio dei vertici degli esecutivi dei singoli stati o della tecnocrazia comunitaria”.

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Ma – e c’è una frase tra queste ultime che infatti non sarà sfuggita ai più attenti – se la fine dello stato nazionale venuto fuori da Westfalia è databile al secondo dopoguerra, anche qui la sovranità, irresistibile poiché ineliminabile come dicevamo, fa capolino e dà ragione a Shmitt, nel momento in cui spiega: “l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”. Sono proprio le potenze vincitrici di un conflitto, il secondo conflitto mondiale, infatti, che proprio alla luce della loro posizione di superiorità de facto “inaugurano” questo nuovo ordinamento internazionale, che pur nella sua necessaria ricerca di una legittimazione che non sia puramente coercitiva ma ideologica, così come da definizione del concetto di sovranità, pure disvela la sua origine tutt’altro che rappresentativa esplicitamente nel potere di veto che questi paesi hanno deciso di mantenere. Anche in Italia, del resto, la repubblica che in tanti proclamano “antifascista” nasce dalla guerra civile e non è certo attraverso strumenti democratici che giunge nelle mani dei vincitori (in questo caso, per meriti altrui). Lo stesso democraticissimo Rousseau – ed ora arriviamo al punto -, nemico persino della democrazia rappresentativa in quanto anti-democratica (“La sovranità non può venir rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è un’altra; una via di mezzo non esiste […]. Il popolo inglese si crede libero, ma è in grave errore; è libero solo durante l’elezione dei membri del parlamento, appena avvenuta l’elezione, è schiavo, è niente”), non solo non può far a meno di prevedere l’esistenza di un governo, preferibilmente – tra l’altro – di tipo non democratico, poiché esso necessiterebbe la mobilitazione costante del popolo; ma, addirittura, non può neanche lui fare a meno di ammettere che è necessaria una figura che detenga il potere nel caso si verifichi lo stato d’eccezione, esattamente come sostiene Shmitt: “L’ordine e la lentezza delle forme richiedono un lasso di tempo che a volte le circostanze rifiutano. Si possono determinare mille casi a cui il legislatore non ha provveduto […]. In questi rari casi e manifesti si provvede alla sicurezza pubblica con un atto speciale che ne affida l’incarico al più degno” (J.J. Rousseau, Contratto sociale). Tutto qua? No, non è tutto. “La grande anima del legislatore è il vero miracolo che deve far fede della sua missione”, sostiene infatti lo scrittore francese, fondando il suo stato di diritto su una figura semi-mitica che sta esattamente al di là del diritto. Riecco, definitivamente, Shmitt. E riecco, per tornare concreti ed “attuali”, la seconda guerra mondiale ed il nuovo ordinamento internazionale, che si fa sentire con le continue decisioni e/o limitazioni imposte dalle strutture sovranazionali (europee o mondiali) che decidono su questo o quel campo un tempo appannaggio esclusivo dello stato nazionale.

Insomma, se ci deve essere oggi una parola d’ordine, che valga contro l’Europa di banche e tecnocrati, ma anche contro i nemici interni, i nemici degli stati nazionali e di un modello politico in cui le decisioni non siano prese nell’oscurità dei passaggi burocratici, da assemblee non rappresentative e la responsabilità politica abbia ancora un senso e con esso anche il merito; se ci deve essere una parola che possa rappresentare l’opposizione all’arbitrio (la sovranità è altra cosa, poiché è all’origine del diritto) ma anche alla finzione democratica che nasconde interessi di natura economica, questa parola non può che essere una sola, inalienabile, imprescrittibile, indivisibile, assoluta ed esclusiva: SOVRANITA’.

Emmanuel Raffaele

Milano, ‘Feltri show’ alla presentazione di Sovranità: “basta prendere ordini dall’Europa”

Borgonovo_FeltriE’ un Vittorio Feltri come al solito incontenibile a prendersi la scena in occasione della presentazione di “Sovranità” svoltasi ieri sera presso il C.A.M. di corso Garibaldi a Milano.

E lo fa all’insegna del no a quest’Europa: «Lingue, culture, economia, politica estera, fisco: niente accomuna i 27 paesi dell’Ue eccetto la moneta. Mai nella storia nazioni diverse sono state unite efficacemente soltanto da una moneta. E proprio in questi giorni, infatti, tocchiamo con mano l’inconsistenza dell’Europa sul caso Libia».

«Mondialismo o sovranità: il binomio destra-sinistra non rappresenta più il crinale di distinzione decisivo nella politica», spiega infatti Alberto Arrighi, ex deputato di An, tra gli animatori principali del nuovo soggetto della destra identitaria nato per sostenere il progetto politico di Matteo Salvini.

Del resto, lo slogan del movimento, «sovranità, identità, lavoro»,  rappresenta tre nette scelte di campo. Sovranità, prima di tutto, per recuperare il potere decisionale in ogni ambito: monetario, energetico, militare, economico, territoriale e rimettere al centro gli interessi del paese e dei cittadini italiani. Identità, in opposizione al multiculturalismo che snatura le nazioni. Lavoro, contro una finanza che si è impadronita dell’economia.

Una linea sulla quale sembra concordare l’editorialista de “Il Giornale” che, pur confessandosi idealmente europeista, contesta duramente l’Ue e non fa sconti a nessuno: «Monti, Letta e Renzi, tutti a baciare la pantofola della Merkel: lei ci prende per il culo, noi imbecilli che andiamo a prendere ordini».

L’ex direttore di “Libero” e de “Il Giornale”, che lo scorso anno ha pubblicato per Mondadori “Il Quarto Reich. Come la Germania ha sottomesso l’Europa”, non è del resto nuovo ad uscite sovraniste e, nella sua lettura, la resa incondizionata dell’Italia ha un’origine ben precisa: «l’Italia negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta era all’avanguardia in ogni campo, aveva compiuto il suo miracolo economico, nonostante la guerra: l’Olivetti con il primo pc, l’invenzione della plastica, l’Eni, il nostro paese vanta da sempre le più grandi invenzioni. Poi nel ’68 hanno vinto i cretini, coloro che volevano distruggere ogni cosa».

Una provocazione, ma neanche troppo: «l’Italia ha sempre avuto a che fare col nemico interno, basti pensare che, alla morte del dittatore sovietico Breznev, metà parlamento andò al suo funerale, incluso Pertini, che ancora oggi è idolatrato. E durante la “Guerra fredda” mezza Italia faceva il tifo per il nemico contro gli interessi del proprio paese».

Nel mirino c’è, chiaramente, una sinistra che ha anteposto gli interessi di partito agli interessi nazionali, ma c’è soprattutto l’affermazione col ’68 di una visione del mondo rinunciataria, utopistica, politicamente corretta che, etichettando come fascista ogni forma di patriottismo, ha distrutto ogni ambizione italiana, ogni orgogliosa rivendicazione dei propri interessi, la capacità di lottare per la propria dignità, per il proprio paese.

«Una costituzione ipocrita», ha aggiunto Feltri, «ripudia la guerra ed alla sola idea della guerra, alla vista di un fucile, tremiamo. Abbiamo abolito la leva obbligatoria, rinunciato alla difesa, delegato tutto agli americani salvo poi accusarli di essere guerrafondai. Ma le guerre ci sono e noi abbiamo così soltanto azzerato la nostra dignità, diventando incapaci di dire no».

Un paese a capo chino, questo il frutto del ’68: una dittatura del politicamente corretto al punto che, spiega Riccardo Pelliccetti, inviato de “Il Giornale”, «se scriviamo la parola “clandestino” rischiamo di incorrere in sanzioni dell’ordine dei giornalisti».

«Anche la crescita demografica», ha ricordato il leghista Fabrizio Ricca, «è divenuto argomento tabù dopo la caduta del fascismo ed ora, con l’attuale tasso di crescita, siamo destinati a morire. La priorità ora è difendere i nostri confini dall’invasione in atto».

Diversi punti di contatto e priorità in comune: è, dunque, questo il collante tra ampi settori della cosiddetta destra radicale e la nuova Lega targata Matteo Salvini che, al di là dei personalismi, sembra avere le idee programmaticamente molto chiare ed un progetto a lungo termine per proseguire su questa linea, come dimostrato dai dieci punti presentati su “Il Foglio” lo scorso 11 febbraio.

 

Il programma di Salvini: nazionalizzazioni, produzione domestica, sovranità monetaria

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«Meno Europa», come recita il primo punto, ma non solo: «nazionalizzazione di imprese strategiche e/o produttrici di beni richiesti dal mercato ma momentaneamente in crisi», «flessibilità di bilancio», «abolizione della legge Fornero», «no al Ttip» (Trattato transatlantico su commercio ed investimenti), «controllare le frontiere», zero tassazione per chi ha reddito zero, «superamento del sistema dei trasferimenti fiscali».

Un programma che, al di là delle semplificazioni giornalistiche, riflette una visione tutt’altro che classicamente liberale, d’impronta sociale e sovranista e, dunque, molto vicino alla cosiddetta destra identitaria.

«La difesa dell’euro si attua sulla pelle degli italiani […] mentre il riequilibrio potrebbe attuarsi in modo naturale con un cambio flessibile», esordisce il segretario della Lega, che bolla come fumo negli occhi anche l’attenzione eccessiva per un’inflazione sotto controllo: «anche in presenza di prezzi stabili (o addirittura in calo) se il reddito si riduce fortemente ecco che il potere d’acquisto svanisce […]. In pratica 100 per cento di inflazione pur con prezzi immobili».

E, poi, no al Tiip, come anticipavamo: «Spalancare ulteriormente l’Italia alla concorrenza estera mentre la nostra industria, la nostra agricoltura, il nostro allevamento sono in ginocchio significherebbe dare il colpo di grazia alla nostra economia», chiarisce Salvini, che sottolinea anche l’implicita cessione di sovranità nel demandare «ad altri le autorità di controllo e sorveglianza».

Il quarto punto potrebbe benissimo far parte del programma di politica economica di CasaPound e nessuno ci troverebbe nulla di strano, anzi: «In attesa del rilancio “naturale” dell’industria con il recupero della sovranità monetaria si potrebbero creare fabbriche e coltivazioni mirate alla produzione di beni esclusivamente importati da paesi extra Ue […]. La spesa necessaria alla riconversione delle imprese o, nel caso della produzione di beni abitualmente importati, alla copertura della realizzazione “sottocosto” di tali beni (se fosse conveniente produrre a prezzo pieno lo farebbero i privati) consentirà di rimettere in circolo denaro, contrastando al contempo lo squilibrio della bilancia commerciale perché si ridurrebbero le importazioni».

Priorità per le piccole e medie imprese a dispetto delle «grandi imprese globalizzate e delocalizzate» col «plauso costante di Confindustria»: «la chiave del nostro modello», spiega infatti, «sarà la produzione domestica […]. Se molti imprenditori italiani hanno deciso di delocalizzare salvando i propri profitti a scapito dei posti di lavoro si preparino a fare marcia indietro». Altro punto da anni cavallo di battaglia della destra identitaria.

«Un sistema previdenziale che diventa contributivo», afferma invece Salvini a proposito della legge Fornero, «ma al contempo lascia i lavoratori privi di un lavoro e della pensione è assurdo, barbaro e deve essere abolito». Dunque, più stato sociale contro i teorici del liberismo.

«Il Pd preme», aggiunge l’ottavo punto, «per l’azzeramento degli enti locali in Italia, la cessione di sovranità a Bruxelles e l’annegamento globalista in un mondo dominato dalle grandi multinazionali rese “competitive” dalla mano d’opera a basso prezzo incoraggiata ad invaderci con “mare nostrum” e frontiere aperte. Noi, anche qui, vogliamo l’esatto contrario. Siamo convinti che il “frullato” di culture e sapori faccia comodo solo a pochi e che invece nella diversità, nelle tradizioni e nelle autonomie locali vi sia la vera ricchezza. Pertanto siamo per uno stop all’immigrazione incontrollata in assenza di domanda di lavoro». Standing quasi ovation: considerate le premesse si poteva benissimo essere più chiari nel chiedere lo stop all’immigrazione, punto.

E ancora. «Terapia shock per mezzo dello strumento della flat tax. Un’unica aliquota molto bassa uguale per tutti, con una deduzione fissa su base familiare renderà dichiarare i propri redditi semplice e conveniente» secondo una logica di base precisa: «I debiti si ripagano col lavoro e con la crescita: considerare le coperture dei provvedimenti fiscali ex ante senza valutare l’impatto di tali provvedimenti sull’economia è un semplice metodo perché nulla cambi mai».

È invece la conclusione del discorso di Salvini a suscitare il bisogno di qualche chiarimento: non vogliamo pagare i debiti degli altri, i nostri soldi devono rimanere qua, non diamoli all’Europa. E fin qui ci siamo. Poi, però, il discorso prosegue con questa logica fin dentro i confini nazionali, giungendo a conclusioni che non possono esser digerite senza fiatare: «Noi proponiamo un sistema dove nessuno debba pagare per altri e dove ognuno possa essere competitivo con le proprie forze». «Pertanto», aggiunge in maniera ancora più esplicita, «dopo un iniziale ritorno allo status quo pre-euro, necessario per rimettere in piedi il tessuto industriale del nord Italia con l’aiuto di una valuta più leggera, occorrerà pensare a meccanismi di flessibilità (come ad esempio due monete) per riequilibrare la competitività del sud esattamente nello stesso modo in cui si cerca il recupero della competitività italiana verso la Germania».

Se fosse una premessa, una cura, in vista della crescita nazionale, ci si potrebbe ragionare. Ma l’assonanza con troppi slogan autonomisti già sentiti è impossibile da negare. Perciò qualche chiarimento sarebbe necessario. La sovranità è nazionale o non è. Ricordarlo costantemente a chi, al di fuori, dovesse metterlo in dubbio sarà il compito del neonato movimento.