Milano, firmato protocollo per redistribuzione immigrati. Le associazioni già si sfregano le mani

Il protocollo d’intesa per la distribuzione degli immigrati nell’area metropolitana di Milano è stato sottoscritto ieri da 76 sindaci sui 134 interessati. “Oggi hanno già firmato in 76″, ha commentato il prefetto Luciana Lamorgese, “ma sono più di 80 quelli che hanno dato la loro disponibilità”. Tanti, in ogni caso, i dinieghi, compresi quelle dei sindaci leghisti, che nel frattempo hanno manifestato contro l’intesa fuori dalla prefettura meneghina. Poco male dal momento che, come avevamo spiegato a marzo, dopo l’annuncio del neo prefetto riguardo il nuovo protocollo in arrivo, la Lamorgese non esiterà a costringere all’accoglienza anche i sindaci che non hanno accettato la proposta elaborata dal prefetto e sottoscritta ieri alla presenza del ministero dell’Interno Marco Minniti. Un pro-forma, dunque, che fa tanto democrazia, mentre il parere dei sindaci e dei movimenti politici contrari continua ad esser considerato pura espressione di razzismo e cresce la repressione nei confronti dei cittadini che si oppongono.

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Crotone, smantellata cosca della ‘ndrangheta: le mani sul business immigrazione

‘Ndrangheta, migranti, uomini di Chiesa e fondi Ue. Queste le parole chiave – alcune delle quali ricorrenti nelle cronache degli ultimi mesi – della maxi-operazione con la quale ben cinquecento agenti, sotto la guida della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro e del procuratore capo Nicola Gratteri, hanno arrestato 68 persone appartenenti alla cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone.

La compagine criminale, tra le altre attività, lucrava soprattutto grazie al business dei migranti e, nella fattispecie, alla gestione del centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto, uno dei più grandi d’Europa con i suoi cinque ettari di superficie ed i mille e cinquecento migranti ospitati. Nell’operazione la cosca sarebbe stata praticamente smantellata ma, quello che è interessante scoprire, è che tra i fermati, colpevoli secondo l’accusa di favorirne gli affari, ci sono anche Leonardo Sacco, presidente della sezione calabrese e lucana e già vice-presidente nazionale dell’organizzazione cattolica “Fraternità di Misericordia” che gestisce il centro, ed il parroco don Edoardo Scordio: anch’essi sono accusati di associazione mafiosa, reati finanziari e malversazione.

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Milano, quel fiume di denaro che ingrossa il business dell’immigrazione

Il Comune di Milano cerca un collaboratore esterno per curare il sito “milano.italianostranieri.org“. La figura, per la quale sono aperte le selezioni dallo scorso 5 maggio e si concluderanno già il 15 del mese in corso, dovrà occuparsi di gestire la piattaforma online nata su iniziativa dell’amministrazione milanese grazie ai fondi della Direzione generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, nel contesto del progetto pilota – disegnato quindi su misura per Milano – dal nome “Il portale dell’integrazione e sua gestione sperimentale a livello locale“. Il progetto, spiega infatti la responsabile del progetto Franca Locati, potrebbe essere esportato in altre realtà, una su tutte Roma. Continua a leggere

Milano, tra gli immigrati duemila casi di scabbia. Nel 2017 spesi 4 miliardi per l’accoglienza

 

Non è una invenzione populista: il pericolo contagio di malattie infettive in Italia pressoché scomparse, connesso ai flussi migratori record soprattutto dall’Africa, è nei numeri. Numeri che l’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera ha snocciolato ieri in Consiglio regionale e che parlano chiaro: nel 2016, nei centri d’accoglienza per migranti attivi nel territorio di Milano, sono stati registrati e trattati ben duemila casi di scabbia e 38 casi di tubercolosi. Nel rapporto, che l’assessore ha illustrato in aula in risposta ad un’interrogazione di Fratelli d’Italia tramite il suo capogruppo Riccardo De Corato, viene anche sottolineato che, al momento, non si sono per fortuna avuti casi di contagio alla popolazione ma – ed è questa la posizione della Lega – buon senso vorrebbe che, per una prevenzione seria, i controlli e le eventuali cure venissero approntate al momento dello sbarco degli immigrati in Puglia, Sicilia e Calabria. Gallera ha comunque assicurato che la Regione offrirà a ciascun migrante vaccinazioni ad hoc. Il dogma dell’accoglienza, quindi, non verrà scalfito. Va tutto bene, dopo tutto.

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Un barcone affondato in piazza Duomo: l’ultima sceneggiata immigrazionista

Da tempo si pensava a come farne il simbolo per eccellenza delle “stragi del mare”, nelle quali sono rimaste vittime, negli ultimi anni, migliaia di immigrati provenienti dall’Africa attraverso il Mediterraneo. E così, dopo l’incontro tra il sindaco di Milano Beppe Sala ed il regista Alejandro González Iñárritu avvenuto la settimana scorsa, per il barcone affondato nell’aprile 2015 a largo della Libia, si profila l’ipotesi di portarlo addirittura nel bel mezzo di piazza Duomo entro il 24 marzo 2017, laddove papa Francesco, in visita nel capoluogo lombardo, celebrerà messa proprio in quella data.

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Immigrati come schiavi al Cara di Mineo: le rivelazioni del rapporto #FilieraSporca

Italy, Sicily, Ribera, Oranges Harvesting

Qui sei completamente solo, senza famiglia, senza niente. E così finisci in strada“. La questione dell’immigrazione di massa sta forse tutta qui, nelle parole di un giovane senegalese in occhiali da sole e felpa, richiedente asilo ed attualmente ospite del “Cara” di Mineo, tristemente famoso centro d’accoglienza siciliano in provincia di Catania. Ogni giorno, dopo l’apertura dei cancelli alle otto di mattina, pedala per due o tre ore, raccoglie arance per qualche padrone pagato intorno ai dieci euro e poi rientra al “Residence degli Aranci”. Gli immigrati ci pagano le pensioni, dicono gli esperti. E visto che son così bravi, ecco che arriva anche il protocollo d’intesa tra il Ministro dell’Interno Alfano e Confindustria per i tirocini d’inserimento lavorativo riservati ai rifugiati: in un paese con la disoccupazione giovanile alle stelle, qualcosa sicuramente non quadra. Ma questo qualcosa, a volte, non ha a che fare soltanto con la cattiva politica ma anche con lo sfruttamento, altro aspetto della questione immigrazione che difficilmente può ancora essere nascosta. Ieri, ad esempio, “Internazionale” pubblicava il quarto di una serie di reportage dedicati al fenomeno migratorio dal titolo paradigmatico: “Gli schiavi di Mineo”, un servizio curato da Paolo Martino e Mario Poeta nel quadro dell’inchiesta “Welcome to Italy” coordinato da Stefano Liberti. Tra gli intervistati il ragazzo di cui sopra, perfettamente cosciente della situazione: “mi dicono che i bianchi guadagnano 40/50 euro al giorno”, spiega prima di lanciarsi in un rap che si chiude così: “Dio è grande, un giorno mi vedrete in alto”. Dio è grande e la voglia di rivalsa delle masse di migranti è tanta, lo scontro sociale è dietro l’angolo ed esplode qua e là, mostrandosi a viso aperto, ad esempio, in quel di Rosarno. I responsabili diretti forse non stanno sulle poltrone, ma le loro politiche buoniste ed inefficienti, probabilmente, permettono la persistenza di queste situazioni. “Più rimangono, più si mantengono certi equilibri”, spiega Rocco Anzaldi di Flai/Cgil, facendo capire che il centro fa comodo a molte aziende, fa comodo a chi sfrutta ed i tempi burocratici assolutamente fuori da ogni normativa aiutano il proliferare del lavoro nero, grigio o schiavistico. Gli ospiti della struttura sono circa quattromila e “circa in mille ogni mattina”, spiega Anzaldi, “vanno nei campi e, nonostante un mese fa ci siano state sanzioni, il fenomeno continua”. “Qui non si tratta di lavoro nero, ma di schiavi”, conclude. Nelle strutture temporanee, i richiedenti asilo non dovrebbero stare più di trentadue giorni, in realtà ci stanno per mesi ed è impossibile allo stato attuale fare diversamente: i tempi sono lunghi, troppo lunghi, ed a volte gli immigrati rimangono per anche per cinque mesi senza mai aver modo di incontrare la commissione e portare avanti la richiesta. Quando poi ricevono l’esito, se è negativo, devono pagare un avvocato e aspettare altrettanto. Nel frattempo, trascorsi sei mesi, dovrebbero ricevere un permesso temporaneo che gli permette di lavorare. Ormai i tempi si sono allungati, a volte si aspettano anche due anni e la commissione più vicina è a Siracusa. La legge, praticamente, è una farsa. La burocrazia è la realtà. E la realtà è lenta, farraginosa, complice dell’illegalità. In ogni caso, chi lavora nei campi non ha bisogno di permesso. Anzi. Serve manodopera a basso costo per una filiera a dir poco in difficoltà nella quale i produttori, da una parte sono l’ultimo anello di una catena che li spreme imponendogli prezzi bassissimi, dall’altra si trasformano spesso in padroni che sottopagano i lavoratori, stranieri soprattutto ma anche gli italiani che non hanno altra scelta.

ct2I prezzi sono scesi al loro minimo storico”, spiega il secondo rapporto “#FilieraSporca” realizzato dalle associazioni “daSud”, “Terra” e “terrelibere.org”, “arrivando a toccare il minimo di 16/20 centesimi al chilo per il prodotto “fresco” e di 5/7 centesimi al chilo per il prodotto destinato alla trasformazione”. La filiera, che rifornisce anche multinazionali e grandi aziende italiane, è estremamente frammentata verso il basso, la produzione è basata su piccole aziende spesso a conduzione familiare, impossibile una vera tracciabilità. “Se volessimo controllare i fornitori della Ortogel, per evitare assolutamente il rischio da voi paventato, dovremmo visitare 11.571 aziende agricole nei 100 giorni lavorativi di una campagna agrumaria. Sono 115 aziende agricole al giorno”, spiegano dall’azienda. Esselunga, invece, ha dichiarato di lavorare con aziende che sottoscrivono un preciso codice etico, ma non ha voluto farne i nomi. Per la realizzazione del rapporto, a ben dieci grandi attori del settore sono state chieste informazioni su fornitori e subfornitori. Si tratta di Coop, Conad, Carrefour, Auchan – Sma, Crai, Esselunga, Pam Panorama, Sisa Spa, Despar, Gruppo Vegè e Lidl. “Le risposte sono pervenute solo da quattro di loro: Coop, Pam Panorama, Auchan – Sma e Esselunga”, chiarisce il rapporto, che evidenzia quanto arduo sia, soprattutto, spesso anche per le aziende, risalire ai subfornitori, piccoli e piccolissimi produttori a cui facevano riferimento poc’anzi. La manodopera a basso costo è la risposta ad una filiera che non funziona. “Il fenomeno del lavoro schiavile nei campi italiani è da anni irrisolto. Il motivo è semplice. Si tratta di qualcosa di funzionale al sistema produttivo”. Funzionale, certo, ma direttamente connesso con la concorrenza di paesi in cui il costo di produzione scende vertiginosamente, così che aumentano paurosamente, come sottolinea il rapporto, le importazioni da Egitto, Marocco, Spagna e dal Brasile per il succo. Lì sta la causa del caporalato e forse non siamo troppo lontani dalla verità se diciamo che, tra i mandanti, c’è la politica delle frontiere economiche completamente aperte. Non si accorgono che gli schiavi prima o poi si ribellano. “Le arance finiscono a magazzini e industrie che – molto probabilmente – vendono succo e prodotto fresco a notissimi marchi della grande distribuzione e alle multinazionali che tutti conosciamo”. Basti pensare che gli agrumi rappresentano il 15 % del pil siciliano ed il 4% di quello nazionale. “Tra produttore singolo e OP non cambia niente, il problema è che quest’anno ci sono troppe arance, e troppo piccole, e non riusciamo a reggere la concorrenza degli agrumi provenienti da Spagna e Marocco, venduti a 15 centesimi al chilo e trattati chimicamente, cosa che in Italia è vietata”, spiega un piccolo produttore. E così che le aziende di trasformazione medio-grandi, che un decennio fa erano duecento, oggi si sono ridotte a 13, mentre “i piccoli contadini nella morsa della fame costringendoli a vendere le loro terre a commercianti, che grazie al capitale accumulato dai fondi europei, sono in grado di investire in una sorta di landgrabbing (accaparramento delle terre) in salsa nostrana”. Il percorso verso la competitività, insomma, passa da sfruttamento, grossi capitali e concentrazione delle risorse: controlli scarsi sulle regole e frontiere aperte, in breve, modificano la struttura del mercato e del tessuto imprenditoriale.

I mandanti di tutto questo stanno seduti in poltrona e cianciano di libero mercato. Chi denuncia, quasi sempre, sono organizzazioni e giornali, come lo stesso “Internazionale”, che si nutrono di retorica immigrazionista. Nel frattempo i migranti, soli, senza famiglia, finiscono in strada o nei campi a dieci euro al giorno. E nessuno pensa a fare uno più uno, dicendo basta al fenomeno criminogeno e sradicante dell’immigrazione di massa.

Emmanuel Raffaele, 24 giu 2016

Ius sanguinis: altro che arretrato, dal 1948 è in crescita. Ed è alla base degli Stati nazionali. Ecco i dati

immigratiRipeti una menzogna con costanza, qualcuno lo convincerai. E’ così che diventa semplice anche far passare l’idea, ad esempio, che l’Italia, paese ancorato allo jus sanguinis, sia dunque arretrato e non al passo coi tempi come gli altri paesi. E se Sartori osa bacchettare (più o meno giustamente) la Kyenge, ecco che il Corriere gli fa saltare l’editoriale ed il benpensante per antonomasia Gad Lerner si risente e lo invita a non «svillaneggiare».

Peccato che i dati dicano tutt’altro.

Infatti, da una classificazione [1] della legislazione in materia di cittadinanza in centosessantadue paesi [2], effettuata da Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi dell’Università di Modena, emerge che dal 1948 al 2001 i rapporti di forza tra jus soli e jus sanguinis su scala globale siano stati letteralmente inverti in favore di quest’ultimo: se nel 1948 soltanto 67 paesi adottavano lo jus sanguinis e ben 76 lo jus soli, nel 2001 soltanto 39 paesi che sceglievano lo jus soli, a fronte di ben 88 paesi che preferivano lo jus sanguinis.

In breve, in poco più di mezzo secolo lo jus sanguinis si è consolidato a scapito dello ius soli, al contrario di quello che si potrebbe credere (e che ci vogliono far credere).

Nel quadro, che pure linguisticamente risente dell’impronta favorevole allo jus soli degli autori della ricerca, si sottolinea dunque come la tendenza sia tutt’altro che rivolta verso la cittadinanza facile che invece ci vogliono propinare il ministro dell’Integrazione, il governo Letta e, pare (stando alle dichiarazioni di Zaia), ormai anche la Lega Nord.

Non siamo così poco al passo coi tempi, dopo tutto. Ed un motivo ci sarà.

Detto questo, è la stessa ricerca a minare le fondamenta ideologiche di questa equazione tra jus sanguinis ed arretratezza culturale: «Nell’Europa del diciottesimo secolo – è spiegato nello studio – predomina il criterio dello jus soli, residuo di una tradizione feudale che lega l’individuo alla terra in cui nasce e quindi al rispettivo feudatario. Il primo stacco nei confronti di questa tradizione avviene con la Rivoluzione Francese, che nel Codice Civile del 1804 reintroduce il criterio di derivazione romana dello jus sanguinis».

Sorpresa: lo jus sanguinis è frutto dei “Lumi”, della “modernità” e di quella rivoluzione tanto cara ai democratici. Ed è, soprattutto, la «matrice della legislazione adottata in tutta l’Europa Continentale nel corso del diciannovesimo secolo, con la creazione degli stati nazionali».

Ius soli, dunque, contro gli Stati (la progressiva erosione della sovranità vi dice nulla?). E contro i popoli.

In effetti, benché lo studio affermi che «la dimensione dello stato sociale non sembra costituire un ostacolo alla maggiore inclusione degli immigrati», esso chiarisce anche che «questo risultato in parte inaspettato può essere spiegato dal fatto che, per molti dei paesi dotati di costosi sistemi di sicurezza sociale, si sia contestualmente verificata una stagnazione demografica che ha dunque comportato una tendenza all’inclusione». Ed inoltre aggiunge: «una natura dello stato sociale relativamente leggera, unitamente al fatto che la cittadinanza, se paragonata alla residenza, non conferisce negli Stati Uniti benefici fiscali sostanzialmente più generosi, può inoltre avere facilitato la sostenibilità fiscale dello jus soli».

Dunque, una maggiore inclusività è si un potenziale pericolo reale per lo stato sociale («dato che la cittadinanza può influire sulla capacità di ottenere benefici») ma è “grazie” alla bassa natalità dei cittadini originari che l’immigrazione diventa sostenibile. In pratica, se vogliamo ancora uno stato sociale, o rinunciamo all’immigrazione o rinunciamo una volta per tutti a fare figli.

L’immigrazione per noi è sostenibile, certo, ma a costo di scomparire.

L’unico paese europeo per tradizione ancorato allo jus soli è il Regno Unito. Ebbene, «l’esperienza coloniale influisce profondamente sulla legislazione di questo paese», tanto che, «a seguito degli intensi flussi migratori di provenienza dalle ex-colonie, l’orientamento diventa invece più restrittivo, soprattutto a partire dagli anni ottanta».

Quanto alla Francia, «nel corso del diciannovesimo secolo, vengono recuperati elementi di jus soli a fini militari, onde assoggettare all’obbligo di leva i nati sul suolo francese».

Nel caso della Germania, invece, lo jus soli viene introdotto soltanto a seguito della caduta del Muro di Berlino e della riunificazione di un popolo che ha sempre fatto paura al mondo. Un tentativo di mantenerlo debole, così come era stato deciso sia sul piano militare che economico (con i primi accordi economici europei improntati esattamente al contenimento della potenza tedesca)? Chissà.

E l’Italia? La nostra “arretratezza” consisterebbe nel garantire ai figli di stranieri nati in Italia il diritto al mantenimento della propria cittadinanza fino alla maggiore età, per poi poterla richiedere a condizione di dimostrare di esser realmente cresciuti nel nostro paese (criterio che le ultime proposte legislative minano ad intaccare).

La discussione obiettiva non è tra le maggiori preoccupazioni dei media, altrimenti sarebbe chiaro che, senza il velo del pregiudizio, questa non sarebbe che una norma di buon senso e fondamentalmente rispettosa della cittadinanza straniera. D’altronde, in un esempio ultimamente in voga e che rende bene l’idea, il figlio di un cittadino italiano emigrato in Cina, difficilmente riusciamo a pensarlo come un cinese. Lasciamo almeno che, oltre a nascerci, cresca in Cina e, magari, scelga di essere cinese.

Nello stesso continente del ministro per l’Integrazione Kyenge, d’altronde, «lo jus sanguinis nel 2001 risulta il regime più diffuso, essendo applicato nel 69% dei paesi africani».

E, riprendendo un intervento di Graziella Bertocchi (una delle autrici dello studio) su “La Voce”, poi ripreso da “Il Fatto quotidiano” [3], «già nel 2001, in Europa per la maggioranza dei paesi l’acquisizione della cittadinanza alla nascita risulta regolata da regimi misti: dei 34 paesi rappresentati, solo uno (l’Irlanda) applica ancora lo ius soli incondizionato (abbandonato da tempo dal Regno Unito), mentre 14 applicano lo ius sanguinis e 19 hanno regimi misti. Nella maggioranza dei casi, si tratta però di regimi misti con elementi di ius soli molto tenui (come nel caso della legge italiana del 1992)».

Inoltre, dopo il 2001, «l’Irlanda, con un referendum del 2004, abbandona lo ius soli incondizionato, proprio a causa del crescente manifestarsi di un “turismo” della cittadinanza (aggravato dal fatto che il paese era ormai il solo caso di ius soli rimasto all’interno dell’Unione Europea)». E se nel frattempo (2006 e 2010) Portogallo e Grecia hanno introdotto «una combinazione di doppio ius soli e di ius soli per i residenti», «negli altri regimi misti viene applicato uno solo dei due principi: il doppio ius soli è adottato in Francia, Lussemburgo, Olanda e Spagna, mentre lo ius soli per residenti è previsto oltre che in Germania anche in Irlanda e Regno Unito. Per i restanti paesi europei, prevale ancora lo ius sanguinis».

Emblematico, in conclusione, l’origine dello jus soli negli Usa, «codificato nella stessa Costituzione tramite un emendamento del 1868, rivolto alla protezione dei diritti di nascita degli schiavi di provenienza africana».

Mentre oggi è tirato in ballo proprio per rispondere alle esigenze dell’immigrazione africana da sfruttare come manodopera.

Parafrasando un vecchio adagio, troppi indizi fanno una prova, per cui: jus soli? No, grazie, preferiamo lo Stato.