M5S-PD: l’accordo non è uno scandalo, il peggio deve ancora venire

E’ il 2009 e il Movimento 5 Stelle è appena nato, quando Beppe Grillo si iscrive provocatoriamente al Pd e propone la sua candidatura a segretario del Pd. La sua iscrizione verrà rifiutata per l’evidente spirito di contestazione rispetto alla dirigenza del partito.

Ma il gesto ha un significato politico che rimane: il Movimento nasce a sinistra per prendersi la sinistra – in qualche modo per farla rinascere.
Si definisce post-ideologico, giustamente, nell’ambito di una sinistra che ha perso la bussola, non difende più i lavoratori, ha dimenticato il popolo ed è immersa nel liberismo quanto la destra; si definisce post-ideologico nell’ambito di una categorizzazione destra/sinistra sempre più fluida e relativa. Ma ciò non toglie che il Movimento 5 Stelle è, in qualche modo, piaccio oppure no, una rifondazione della sinistra autentica, che ne riprende i temi tradizionali e vi aggiunge la modernizzazione che mancava, usando proprio la tecnologia per aumentare la rappresentatività dei partiti vecchio stile. Ed è questo il suo lato “positivo”.

L’accordo elettorale con la Lega è, innanzitutto, l’accordo con un partito che ha una forte base movimentista, che non appartiene certo a un centrodestra classico e che vi entra come outsider ai tempi di Berlusconi per poi sorpassarlo elettoralmente. Nel frattempo il partito è cambiato, certo, mantenendo però una forte spinta militante, rappresentata per lo più da lavoratori, piccola borghesia e piccoli-medi imprenditori.

Nonostante ciò, dopo le elezioni politiche del 2018, visto lo spostamento a “destra” della Lega, nessuno avrebbe scommesso su un accordo tra Lega e Movimento 5 Stelle. E questo la dice lunga sulla spontanea percezione del Movimento.
Non pochi gridarono al tradimento, da una parte e dall’altra, e la convivenza, pur fruttuosa per il paese e per gli equilibri politici che permetteva, era percepita come innaturale dall’interno quanto dall’esterno. I toni reciproci, del resto, non sono mai stati morbidi. Si è piuttosto trattato di non belligeranza.

Meravigliarsi ora che il Movimento 5 Stelle non faccia troppe differenze tra Lega e Pd, partiti con i quali si accorda per mancanza di alternative e dopo la presa di consapevolezza della necessità di alleanze per governare, è quanto meno curioso. Soprattutto è curioso dopo quanto ricordato sulle radici politiche del Movimento e le prime reazioni all’accordo con la Lega.

Si tratta, infatti, di un accordo politicamente più “ovvio” e già sfiorato in altre occasioni e che ora, per di più, avviene da una posizione di relativa forza da parte del Movimento: non è più il piccoletto che sfida il partito della sinistra, ma il Movimento che ha superato il partito, che è già al governo e che esprime il premier e, probabilmente, altri ministeri di peso.

Ora, questo non giustifica il pastrocchio programmatico che sembra prospettarsi, ma potrebbe quanto meno essere utile a ricordare le cose come stanno da un punto di vista oggettivo e non soggettivo, al di là del fatto che un Pd al governo non ci faccia piacere per niente.
Appare inutile, quindi, gridare allo scandalo, urlare al ribaltone, al golpe, all’inciucio, chiamare alla piazza e alle elezioni come panacea di tutti i mali.
Perché il fatto che in Italia si faccia un governo l’anno è un male e non un bene e il fatto che per questa ragione manchi continuità di azione è un disastro che impedisce qualsiasi visione a lungo raggio.
Si può legittimamente sperare nelle elezioni, ma dipingere come un attacco alla democrazia la mancata convocazione di elezioni politiche ogni volta che un governo non ci piace, ogni volta che i sondaggi cambiano oppure ogni volta che vinciamo le regionali o le europee, è semplicemente assurdo; sintomo di demagogia spicciola o scarsa maturità politica, fate voi.
Piuttosto, si potrebbe proporre una riflessione di ampio respiro sui limiti della democrazia rappresentativa e della sovranità popolare espressa con un voto ogni cinque anni. Ma gli unici a favore della democrazia diretta, quelli del Movimento appunto, vengono in genere “perculati” proprio per questa ragione e, proprio in questi giorni, subiscono attacchi incrociati per l’intenzione di far votare ai propri iscritti il sostegno al governo che i propri rappresentanti stanno formando.
Coerenza, please.

Ora, tornando brevemente a Salvini, lo si potrebbe far passare per ingenuo, se non avesse tentato chiaramente di far saltare tutto per dar retta ai sondaggi e facendo prima una chiamata a Zingaretti per garantirsi campo libero. Lo si potrebbe far passare per ingenuo se non fosse poi tornato sui suoi passi, proponendo addirittura la presidenza a Di Maio, quando si è reso conto di aver perso la partita. Questo, però, è quanto è avvenuto. E possiamo anche metterci la buonafede di un Salvini irresponsabile ma convinto che senza i Cinque Stelle avrebbe fatto meglio. Resta il fatto che, come sopra, non è con la logica dei sondaggi che si può pensare di mostrare serietà al Paese e garantire cambiamento. Ci vuole tempo per sradicare il deep state, non si può pensare di sconfiggerlo portando cinquanta pullman carichi di militanti il 19 ottobre a Roma, perché il Movimento ha scelto il Pd e non te, dopo che li hai già mollati. Non è questa la politica e non è questa la coerenza.

Ora, è chiaro ed era stato chiaro fin dalle trattative sulla manovra di Conte con l’Ue che, tra le due forze, i grillini erano quelli che rappresentavano maggiormente l’ala moderata, basti pensare agli applausi dell’Ue e le concessioni a scatola chiusa non appena il Conte bis è stato confermato. E la stessa cosa si era palesata riguardo alla faccenda immigrazione. Ecco perché Salvini, a un certo punto, è diventato il classico ragazzo “vivace” che in classe disturba e fa il monello, mentre il secchione scrive il suo nome alla lavagna e lo accusa al professore. E il confronto al Senato ha mostrato una dinamica davvero simile in tutto a questo, con Salvini messo all’angolo e castigato.

Un segnale di debolezza confermato dal successivo pentimento e dai calcoli sbagliati. Per quanto l’Ue e le élite abbiano fatto pressioni, a far cadere il governo convinto di giocarsela alle elezioni e vincere, è stato pur sempre Salvini. E se ora ci ritroviamo il Pd al governo, non diamo la colpa all’Europa. Nell’interesse del Paese, Salvini avrebbe dovuto stare al suo posto, lottando colpo su colpo. Perché se n’è accorto soltanto dopo aver consegnato il Viminale al Pd?

Quanto all’accordo M5S-PD, è ovvio il peggio deve ancora venire e lo si capisce dalle due paginette scarse che rappresentano il risultato di questi giorni di trattative. Niente di simile alle 58 pagine di contratto sottoscritte da Lega e M5S, ma un collante debole fatto di propositi generici rimessi nelle mani di Conte, buttati giù da due forze politiche che, per motivazioni differenti e divergenti, preferiscono formare il governo piuttosto che votare.

Si parte dal deficit, contestatissimo dal Pd e che ora sembra fare senza problemi la sua ricomparsa nel nome della “coesione sociale”, con il beneplacito dell’Europa che, evidentemente, a costo di liberarsi di Salvini, preferisce fare il padre amorevole. Vedremo poi cosa succederà quanto si tratterà di sicurezza e immigrazione, con le correzioni annunciate ai decreti voluti dal leader della Lega, votati dai grillini che ora rischiano di rimangiarsi la parola. E vedremo come il Pd giustificherà il si al taglio dei parlamentari, a cui si era finora fermamente opposto. Ma non è tutto. Se il Conte bis troverà i voti necessari in Parlamento, o sarà un governo del Presidente (e quindi dell’Europa) o sarà un governo litigioso.
In ogni caso, il Paese avrà perso.

Emmanuel Raffaele Maraziti

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