Sicuramente una delle letture più interessanti proposte negli ultimi anni sul tema della sovranità, “Sovranità o barbarie – Il ritorno della questione nazionale” Meltemi – 2018) è incisivo innanzitutto perché propone una visione della sovranità non “allineata” al sovranismo retorico e reazionario a cui siamo abituati.
Il lavoro del giornalista Thomas Fazi e dell’economista William Mitchell risponde a molte delle domande che ci siamo posti nei precedenti post sul tema e, soprattutto, fa luce su una questione fondamentale: il sovranismo è di destra? La risposta – lo anticipiamo – sembra essere decisamente un ‘no’.
Abbiamo avuto modo di evidenziare che il sovranismo è infettato da un pregiudizio, appositamente instillato dalle élite progressiste, per cui il sovranismo risulta identificato dai media con la ‘destra estrema’, nei confronti della quale evocare volentieri lo spettro del nazi-fascismo e della censura. Ma, come abbiamo detto, la sovranità in sé “non è né di destra né di sinistra” perché “sovranismo non è fanatismo nazionalista, non è isolazionismo, non è razzismo, non è eventualmente clericalismo né per forza populismo”.

Fazi e Mitchell ci danno ragione su questo aspetto e lo fanno, per di più, declinando senza timore l’idea di una sovranità di sinistra. L’analisi è prettamente economica, con poche speculazioni di natura filosofico-storico-politica sul concetto di sovranità, ma è proprio così che vanno al nocciolo della questione in tutta la sua praticità.
E dall’analisi emerge un’altra conferma alle nostre tesi: la sinistra progressista, complice e ora protagonista della de-sovranizzazione, proprio convertendosi al globalismo e al liberismo, ha tradito le classi lavoratrici che dovrebbe in teoria rappresentare. Mentre il sovranismo può e – oggi più che mai deve – essere un sovranismo di ispirazione ‘socialista’.
Gia nella prefazione, Carlo Formenti sottolinea il paradosso di considerare ‘eretico’ o ‘rossobruno’ un sovranismo di sinistra, dal momento che quelli proposti sono in realtà “principi, teorie, concetti, ideali e punti di vista che, fino agli anni Settanta del secolo scorso, rappresentavano un patrimonio comune a tutto il movimento operaio internazionale” e che anche l’eventuale “internazionalismo proletario non ha alcunché da spartire con il cosmopolitismo delle élite borghesi“.
La tendenza al globalismo, infatti, andrebbe di pari passo con una tendenza alla de-politicizzazione e alla de-democratizzazione, ovvero in direzione opposta rispetto alla conquista decisiva per la modernità della sovranità popolare.

ECCO COME LA SINISTRA HA TRADITO I LAVORATORI: DA KEYNES AL PD
Nel cosiddetto trentennio keynesiano, spiegano gli autori, non si era ancora affermata l’idea, che di per sé tende alla compressione salariale, di una crescita trainata dalle esportazioni, poiché predominava la convinzione che fossero semmai le esportazioni a dover essere trainate dalla crescita, ovvero da un’economia già vitale di suo. Ecco perché la priorità l’aveva la domanda interna ed era considerato essenziale stimolare la capacità di spesa attraverso “il miglioramento dei salari e un orientamento espansivo della politica economica“.
E, nonostante il forte aumento degli scambi internazionali, anche “una moderata forma di protezionismo, se finalizzata allo sviluppo della crescita e della domanda all’interno dei singoli paesi, era considerata (a ragione) propedeutica allo sviluppo del commercio mondiale stesso“.
Per questa ragione il modello “si caratterizzava per una forte presenza dello Stato nell’economia (per mezzo di politiche industriali, sostegno agli investimenti e alla domanda attraverso elevati livelli di spesa pubblica, ecc.), uno ‘Stato sociale’ volto a garantire a ogni cittadino diritti e servizi sociali (assistenza sanitaria, pubblica istruzione, indennità di disoccupazione, ecc.), politiche del lavoro tese verso la piena occupazione e la crescita dei salari (più o meno, anche se non sempre, in linea con la crescita della produttività)”, mediazione tra gli interessi di lavoratori e imprese, partecipazione delle classi lavoratrici alla vita politica attraverso i partiti di massa.
LA RINUNCIA ALLA SOVRANITÀ’ MONETARIA: IL CRIMINE PERFETTO
Ma, soprattutto, non si era ancora affermata l’idea dell’indipendenza politica della banca centrale poiché la politica monetaria era giustamente considerata parte integrante della politica economica.
Cos’è, infatti, l’autonomia della banca centrale se non un atto di de-politicizzazione e, quindi, de-democraticizzazione della politica monetaria di un Paese?
Spostare il potere decisionale dagli organi politici a quelli tecnici, imponendo alla politica un ‘vincolo esterno’ e sottraendo sovranità al popolo: questo concetto, applicato anche ai processi di integrazione europea, è al centro del testo di Fazi e Mithcell, che offre al riguardo una spiegazione ampia e che affonda le basi nei meccanismi di funzionamento del capitalismo.
Ecco perché è necessario un passo all’indietro con loro per comprendere a fondo la questione.
Stampare moneta era ritenuto prerogativa fondamentale dello Stato, ma anche uno strumento economico importante, quanto il controllo dei tassi di interesse: poter decidere il costo del denaro significa controllare il costo dei prodotti, dell’indebitamento, la competitività del Paese, la distribuzione della ricchezza attraverso interventi diretti e mirati a contenere disoccupazione e squilibri sociali. Per la stessa ragione – è spiegato citando le argomentazioni di Barba e Pivetti esposte in “La scomparsa della sinistra in Europa” – era considerato altrettanto fondamentale poter controllare i “movimenti internazionali di capitali, senza il quale il livello dei tassi di interesse non avrebbe potuto essere deciso dalle autorità nazionali di governo perché esso sarebbe stato invece dettato dall’obiettivo di impedire deflussi di capitali”.
KEYNES CONTRO IL CAPITALE? SICURAMENTE UN’OCCASIONE PERSA
Alla base del ‘trentennio glorioso’ – fatto di crescita sostenuta, bassi tassi di disoccupazione, salari e profitti in ascesa, ampliamento dei diritti sociali – c’era sicuramente anche la rottura operata da Keynes con “il vecchio paradigma (neo)classico, radicato nella dottrina del capitalismo laissez-faire e del libero mercato, secondo cui i mercati sono fondamentalmente autoregolantesi e dunque che l’economia, se lasciata a sé, cioè con la minor interferenza possibile da parte dei governi, è in grado di generare automaticamente stabilità e piena occupazione”. Una visione che era apparsa sconfitta già quando la Grande Depressione degli anni Trenta mostro le conseguenze di un sistema finanziario deregolamentato.
Secondo Keynes, l’investimento permette di “mitigare gli effetti negativi delle recessioni e delle depressioni economiche”, anche con un forte intervento dello Stato volto a creare eventualmente posti di lavoro che il privato non può offrire. Secondo l’economista inglese, infatti, “per risparmiare occorre spendere” e non il contrario, poiché le banche centrali, ancor più di quelle commerciali, creano denaro ‘dal nulla’ e possono a tutti gli effetti stimolare la crescita (a condizione, ovviamente, che l’investimento sia efficace e produttivo). Questi, del resto, i principi cardine alla base del New Deal, ispirato proprio dalle idee di Keynes e avviato dal presidente americano Roosevelt per risollevare gli Usa dalla crisi finanziaria iniziata nel ’29.
Tuttavia, l’affermazione del keynesismo nella forma del “modello fordista-keynesiano” rispecchiò, secondo gli autori, solo parzialmente le idee del suo teorico e fu anche “il risultato della convergenza fortuita, nel secondo dopoguerra, delle ‘giuste’ condizioni sociali, politiche, economiche, tecniche e istituzionali”.
In poche parole, “il capitale adottò il keynesismo” perché, in quel dato momento storico, considerata la crisi e la forza acquisita dal movimento operaio e dai sindacati, considerata l’alternativa al capitalismo offerta all’epoca da una Unione Sovietica uscita vittoriosa dallo scontro militare mondiale, il “forte interventismo statale a sostegno del processo di accumulazione, tanto attraverso il sostegno alla domanda aggregata quanto attraverso il sostegno diretto e indiretto alle imprese nazionali”, così come “le varie restrizioni e regolamentazioni” imposte, erano in quel momento “vantaggiose per il processo di accumulazione in quel dato momento storico”.
Del resto, gli autori sottolineano anche le numerose contraddizioni del modello: “quando parliamo delle magnifiche e progressive sorti del keynesismo, val sempre la pena ricordare che esse riguardano unicamente i paesi del ‘centro’ dell’economia capitalistica; l’esperienza dei paesi ‘periferici’ fu assai diversa, caratterizzata da guerre, povertà estrema, colpi di Stato e nefandezze di ogni sorta, spesso a opera proprio dei paesi del centro, Stati Uniti in primis”.
COSA NON HA FUNZIONATO
Le ragioni della sua crisi si ritroverebbero solo in parte nell’analisi marxista secondo cui Keynes avrebbe “alimentato l’illusione che bastasse qualche politica anticongiunturale per garantire che crisi e depressioni fossero una cosa del passato” senza aver messo in discussione il capitalismo stesso. Infatti, sarebbero state anche ignorate alcune considerazioni di Keynes per cui tutto ciò, senza un certo grado di “pianificazione statale democratica”, non sarebbe stato sufficiente.
Sarebbe stato sottovalutata, insomma, la necessità di andare oltre il libero mercato pur senza arrivare all’economia integralmente pianificata del modello sovietico: un modello che, secondo Keynes, “consiste nel fare quelle cose che, per la loro specifica natura, sono al di fuori della portata dell’individuo” ma senza cercare “di prendere il posto dell’individuo nella sfera delle sue proprie competenze o di trasformare il sistema salariale o di abolire il movente del profitto”. In breve, “tenere saldamente in mano i controlli centrali” e, così, “modificare e condizionare l’ambiente nel quale gli individui operano in piena libertà”.
Non solo produzione e occupazione fine a se stessa, insomma.
“Fatto sta”, commentano gli autori, “che tutte le nozioni di ‘socializzazione’ […] andarono persi nella formalizzazione (e normalizzazione) delle sue teorie nell’immediato dopoguerra”.
L’ostilità del capitalismo a un modello che, nella sua versione ‘radicale’, toglieva al capitale il controllo è inteso come una delle probabili ragioni della ‘sintesi neoclassica’ venuta fuori dal neo-keynesismo che impedì “all’analisi rivoluzionaria di Keynes di alterare le fondamenta della macroeconomia dominante”.
L’AVVENTO DEL NEOLIBERISMO E LA GLOBALIZZAZIONE
Il monetarismo segnò l’inizio della controffensiva teorica, denunciando la connessione tra inflazione e piena occupazione e, dunque, la pericolosità degli interventi statali a sostegno della stessa, affermando che esiste un solo ‘tasso naturale di disoccupazione‘ che permette di mantenere stabili i prezzi.
Il mercato, insomma, si riprendeva la scena e, al tempo stesso, faceva un passo indietro la politica, a cui veniva tolta la discrezionalità conquistata in questi anni.
In termini pratici, la ‘reazione’ si ebbe in seguito a “una riduzione senza precedenti nella storia dei redditi e dei patrimoni dell’1 per cento più ricco della società”. Il compromesso di classe consentito dalla crescita parallela di profitti e salari che aveva caratterizzato il trentennio keynesiano, entrava dunque in crisi per diverse cause: “l’aumento del prezzo delle materie prime, la crescente concorrenza tra potenze capitalistiche […], il rallentamento della produttività, ecc., ma soprattutto il diffondersi di richieste sindacali sempre più radicali”.
Per farla breve, anche grazie ad una classe operaia meno ricattabile, la sfida politica al capitale si faceva sempre più aggressiva e il capitale reagì alla caduta dei profitti con un nuovo attacco ai salari e al potere dei sindacati, giustificato da un alto tasso di inflazione che, secondo la nuova teoria, poteva essere affrontato solo lasciando fare al mercato.
Si affermò così il neoliberismo, che puntò tutto – spiegano ancora Fazi e Mitchell – sulla liberalizzazione dei mercati globali di beni e capitali (e conseguenti delocalizzazioni), la deregolamentazione, la riduzione delle tasse su redditi alti e capitale, freno alla spesa pubblica, flessibilità del lavoro.
Da un punto di vista politico-istituzionale, invece, il nuovo corso fu segnato dal documento della Trilateral Commission, “La crisi della democrazia” (1973) che suggeriva appunto una riduzione della partecipazione popolare attraverso processi de-politicizzazione delle decisioni di carattere macroeconomico e monetario, anche “trasferendo sempre più prerogative a istituzioni e organismi sovranazionali come l’Unione Europea“, che funzionarono di fatto come vincoli esterni imposti dalle élite per togliere prerogative decisionali al processo democratico.
“In tal senso, nella misura in cui il regime neoliberale ha comportato un’erosione della sovranità degli Stati, questo, come vedremo, è stato il risultato di una limitazione scientifica e consapevole dei poteri sovrani degli Stati da parte delle stesse élite nazionali“, chiariscono gli autori in un passaggio fondamentale del primo capitolo del libro, in cui sottolineano come, in questo contesto, la sinistra non seppe offrire né alternative né risposte.
LE COLPE DELLA SINISTRA
In particolare, la sinistra avrebbe avallato “il credo neoliberista circa i rischi insiti nell’intervento dello Stato in economia e la presunta espansione ‘incontrollata’ della spesa pubblica per le politiche sociali”, che tenderebbe a crescere più delle entrate. Allo stesso tempo si sarebbe accodata alla vulgata secondo la quale l’affermarsi di imprese multinazionali avesse reso difficoltosa l’imposizione fiscale e reso più difficile la possibilità di regolamentare i flussi di capitali, essendo gli Stati sottoposti a una competizione rivolta ad attrarre investimenti privati. Si è così affermata una idea, che abbiamo d’altronde ritrovato anche in un nostro precedente approfondimento, per cui la “internazionalizzazione economica e finanziaria di quegli anni – ciò che oggi chiamiamo globalizzazione – fosse inevitabilmente destinata a rendere i singoli Stati sempre più impotenti nei confronti delle forze del mercato, erodendo così la capacità dei governi di decidere in autonomia (ossia a prescindere dalla volontà dei mercati) le loro politiche economiche e sociali”. Da ciò la necessità di “forme di coordinamento e di integrazione internazionale e/o sovranazionale”.
Ma si tratta, come avevamo del resto sottolineato, di una interpretazione al contrario: “la globalizzazione”, spiega il testo, “anche nella sua forma neoliberale, non è (stata) il risultato di una qualche dinamica intrinseca al capitale che inevitabilmente comporta(va) una riduzione del potere statale. Al contrario, è (stato) un processo che è (stato) attivamente promosso dagli Stati stessi. Tutti gli elementi che siamo soliti associare alla globalizzazione neoliberale – le delocalizzazioni, la deindustrializzazione, la libera circolazione delle merci e dei capitali, ecc. – sono, nella maggior parte dei casi, il risultato di scelte fatte dai governi“. E soprattutto di alcuni governi, Usa in primis.
La sinistra, di fatto, finì per introiettare l’inevitabilità di questa globalizzazione di impronta neoliberale: “in numerosi paesi proprio le forze socialiste e laburiste anticiparono la destra nello smantellamento del modello keynesiano“.
L’affermazione, forte, segue con numerosi esempi: il governo laburista di Callaghan nel Regno Unito, che propose “tagli alla spesa pubblica e moderazione salariale” per far fronte alla inflazione (erano gli anni di poco successivi alla crisi petrolifera del ’73); il governo Mitterand in Francia, che tradì l’elettorato con un “drastico programma neoliberista di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni e compressione salariale” con l’eliminazione di “tutti i controlli sui movimenti di capitale” e la “deregolamentazione del sistema finanziario”. “Si trattò”, spiegano, “di una scelta in senso liberista e filocapitalista autonomamente compiuta in piena coscienza dalla maggioranza della sinistra francese”, con “l’abbandono della lotta di classe a favore della sfera dei diritti civili e ogni tipo di istanze individuali“. Si trattava, insomma, di rinunciare a considerare i mali sistemici del capitalismo, sostituendo i “soggetti collettivi” ai “soggetti individuali”, di arrendersi all’idea che lo Stato nazione non avrebbe avuto più spazio con l’internazionalizzazione della finanza. Abbandonata la trincea nazionale, ma anche quella autenticamente socialista, si passò ad un quadro sovranazionale di gestione dell’economia, che attraverso la Cee si manifestò, però, in forma chiaramente neoliberale. E non a caso, evidenziano Fazi e Mitchell, “il principale fautore dell’euro fu l’ex ministro delle Finanze del governo Mitterand: Jacques Delors. Sarebbe stato lui, nelle vesti di commissario europeo dal 1985 al 1995, prima a convincere tutti i paesi europei a liberalizzare i movimenti di capitale e poi ad avviare il processo che avrebbe portato infine all’eurozona”.
DAL PC AL PD: CRONACA DI UNA RESA AL CAPITALISMO
Quanto all’Italia, il brillante saggio pubblicato da Meltemi sottolinea, innanzitutto, che “per gli estensori della Costituzione, e in particolare per i dirigenti della sinistra socialista e comunista, la difesa della sovranità popolare […] fosse inscindibile dalla difesa della sovranità nazionale“. E anche che la Costituzione, in generale, dava di per sé un indirizzo preciso nel senso di un capitalismo regolato, con vincoli precisi tesi a dare priorità all’utilità sociale. A tal proposito ricordano anche la contrarietà di Togliatti all’integrazione europea, rispecchiando la posizione del Pci (quanto del Psi) almeno fino a metà anni Sessanta. A tal proposito riportano alcune frasi – attualissime – tratte dall’intervento del deputato socialista Lelio Basso in Parlamento nel 1949: “così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla in comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla in comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale. […] L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera“. Allo stesso tempo denunciava come “i grandi trusts e i grandi monopoli preferiscono risolvere i grossi problemi dell’economia, della finanza e della politica nel chiuso dei consigli d’amministrazione e dei gabinetti dei ministri”.
Dedicheremo più avanti un approfondimento specifico al processo di integrazione europea, ma il quadro fornito nel testo è a questo proposito assai rilevante. Ed è rilevante la riflessione per cui la “Ceca è un ottimo esempio della dottrina dei ‘piccoli passi’ o del ‘piano inclinato’ alla base della strategia gradualista (o funzionalista) dei ‘padri fondatori’ dell’Europa unita, Jean Monnet e Robert Shuman. Questi, consapevoli della mancanza delle condizioni per procedere esplicitamente verso la costruzione di un super-Stato europeo, teorizzarono la necessità di procedere per gradi, attraverso progressivi trasferimenti di competenze e di sovranità in ambiti specifici e circoscritti, come appunto quello energetico, in maniera tale da non destare allarme nelle popolazioni degli Stati membri; questo […] avrebbe poi determinato le condizioni […] per rendere inevitabili (o apparentemente tali), grazie a crisi più o meno orchestrate a tavolino, ulteriori trasferimenti di sovranità, facendo ‘scivolare’ inesorabilmente i singoli paesi europei verso una ‘unione sempre più profonda’, fino al definitivo svuotamento delle sovranità nazionali”.
Una strategia, del resto, non certo segreta, riscontrabile in qualsiasi manuale di storia dell’integrazione europea oltre che, ovviamente, nella realtà.
E che mostra come, anche in Italia, infine, il Partito Comunista abbia infine ceduto alle pressioni neoliberali, finendo “per sposare in toto le tesi monetariste/neoliberiste di Modigliani”: contenere i salari e la spesa per frenare l’inflazione. “Tanto il Pci quanto il sindacato, dunque, offrirono il loro placet a drastiche politiche di compressione del salario e della spesa pubblica e di miglioramento della profittabilità, per di più senza alcuna contropartita sul piano delle riforme e delle politiche economiche”. Messa da parte la redistribuzione, austerità, lotta all’inflazione e questione morale divennero le parole d’ordine di Berlinguer, mentre i sacrifici degli operai per salvaguardare la competitività del Paese e evitare misure protezionistiche vennero considerati scelte inevitabili. La sinistra, di fatto, cambiava campo. I comunisti italiani, ignorando Keynes, “introiettarono l’ideologia liberista e antistatalista”, incapaci o impossibilitati ad offrire una visione alternativa.
L’OMBRA DELLA MONETA UNICA SULLA SOVRANITÀ’ MONETARIA
Quando i paesi europei decisero di vincolarsi ad un Sistema Monetario Europeo per stabilizzare le proprie valute, ancorandole ad un valore del cosiddetto Ecu, moneta convenzionale inesistente nella realtà, il Pci si schierò nonostante tutto contro, con posizioni molto chiare da parte di personaggi come Giorgio Napolitano che denunciava il rischio di “un dominio dell’economia tedesca a danno di quella italiana”. Il pericolo rivelatosi poi reale (e nonostante tutto ripetuto con l’adesione all’euro) era quello che in “un meccanismo di cambi fissi o semifissi, infatti, la valuta più forte rispetto alle altre finisce di fatto con il diventare valuta di riferimento, rispetto alla quale le altre devono adeguare il proprio tasso di cambio e, di conseguenza, calibrare la propria politica monetaria e fiscale interna”, con conseguente perdita di competitività, risorse e crescita. Ma, soprattutto, si trattava di un altro, fortissimo, vincolo esterno, “in nome del quale si potevano giustificare a casa propria politiche poco favorevoli ai salari dei lavoratori e che impedissero un intervento attivo dello Stato nell’economia”.
De-politicizzazione appunto, al fine di “ristabilire la redditività del capitale”: infatti, “la logica della ‘disinflazione competitiva’ intrinseca allo Sme consentì ai politici nazionali, adesso ‘privati’ dello strumento della svalutazione competitiva, di presentare la compressione dei salari e l’austerità fiscale come i soli mezzi attraverso i quali era possibile recuperare la competitività dei rispettivi paesi”.
Vi suona familiare il ritornello?
QUANDO LA BANCA CENTRALE SMISE DI APPARTENERE AGLI ITALIANI
Fazi e Mitchell parlano della scelta di aderire allo Sme, come a tutti gli altri accordi europei di politica economica comune, come vere e proprie scelte fatte da e per l’interesse delle élite economiche a scapito dei lavoratori. Scelte che, come da manuale, portarono prima alla separazione tra Banca d’Italia e Tesoro (nel 1981), poi all’unione monetaria che privò i Paesi membri del potere di emissione della propria moneta, ovvero di tutti gli strumenti di politica monetaria.
Prima della separazione il Tesoro poteva ricorrere ad un’apertura di conto presso la Banca d’Italia superiore alle proprie entrate e disponibilità o all’emissione di titoli di debito che potevano essere acquistati direttamente dalla Banca d’Italia. Il tasso di interesse veniva così deciso dallo Stato, gli interessi ritornavano poi al Tesoro e, nel caso dello scoperto, il debito costituiva di fatto un debito ‘fittizio’, essendo debitore e creditore in entrambi i casi lo Stato, col risultato che, molto semplicemente, la spesa veniva ‘monetizzata’ in un regime di sovranità monetaria piena.
Con la separazione tra i due enti ma, soprattutto, con il Trattato di Maastricht nel ’93, ogni facilitazione creditizia venne vietata “rendendo di fatto lo Stato dipendente dai mercati finanziari per le sue necessità di fabbisogno pubblico“.
Anche questo vi suona familiare, eh?
E pensare che, nonostante lo spettro del debito e dell’interventismo pubblico, il ridimensionamento dello Stato e dei suoi poteri, ha portato all‘esplosione del debito pubblico (che nel 1981 era al 58,5% del Pil), anche – ma non solo – a causa dell’elevato costo degli interessi sul debito, “costringendo lo Stato a indebitarsi ulteriormente, per decine di miliardi l’anno, solo per ripagare il debito pregresso”. Nel frattempo, il debito prima ‘fittizio’ diveniva reale, esponendo i Paesi al rischio default. A guadagnarci, le banche e gli investitori privati; a perderci, gli Stati e i cittadini in “un colossale trasferimento di ricchezza dalle tasche dei lavoratori e dei produttori a quelle dei detentori dei titoli di debito“.
Tutto ciò con l’obiettivo esplicito di un “nuovo ordine mondiale” globalista in cui la sovranità nazionale sarebbe stata messa da parte in ambito politico, economico e militare e del quale l’Unione Europea per diversi protagonisti risulta essere un passo fondamentale.
In questa ottica, la nascita del Pds, poi Partito Democratico, in Italia, rappresenta secondo Fazi e Mitchell, “lo stadio finale della decennale involuzione liberista del Pci”.
Del resto, non furono certo le destre a ratificare e sostenere tutti i passaggi che ci portarono all’Ue e all’euro, ma ancor prima ai famosi parametri di Maastricht, con una drastica riduzione del potere nazionale di fare politica economica (di pianificare, nazionalizzare, investire, controllare) e di portare avanti politiche anti-liberiste. Semplicemente, le decisioni fondamentali venivano trasferite ad istituzioni non politiche, mettendo in gioco la sovranità nazionale, ma anche una sovranità popolare autentica per l’Europa stessa.
Non si è trattato, insomma, solo di un trasferimento di sovranità dallo Stato nazionale ad organismi pseudo-federali, ma da organismi legittimati democraticamente ad organismi indipendenti dalla politica e di un cambiamento radicale della nostra costituzione economica.
Le privatizzazioni (fatte male) degli anni Novanta furono l’ennesimo episodio di questo smantellamento e, ancora una volta, gli attori protagonisti li troveremo poi nel campo della sinistra, a partire da Romano Prodi, ricordato per l’euro ma non tanto per la privatizzazione dell’Iri.
Dalla privatizzazione dei capisaldi dell’industria italiana a quella del settore bancario, senza che a questo abbia corrisposto un incremento nella produttività e nella ricerca: gli obiettivi sociali e nazionali venivano svenduti alla legge del profitto privato (magari di breve periodo).
L’UNIONE EUROPEA E LA COSTITUZIONALIZZAZIONE DEL NEOLIBERISMO
E’ chiaro – ma sarà ancora più chiaro a chi voglia leggere il libro – che il tutto corrisponde a un piano molto più ampio e sottile, non riassumibile neanche dalla pur seria questione della rappresentatività dei popoli in Europa, del potere del Parlamento europeo, delle differenze culturali e di interessi.
Fazi e Mitchell, però, parlano per farla breve di “costituzionalizzazione del neoliberismo”. Ed ecco perché sono molto ma molto diffidenti rispetto a qualsiasi ipotesi di cambiamento dall’interno dell’Ue, ma anche rispetto alla banalizzazione dell’uscita dall’Ue come panacea di tutti i mali (a fronte della mancanza di una alternativa economica al modello neoliberista, che molti sovranisti in giro per il mondo sembrano ancora abbracciare).
“La guerra alla sovranità nazionale (in particolare alla sovranità monetaria), dunque, è stata innanzitutto una guerra alla democrazia”, asseriscono i due saggisti, sottolineando il ruolo essenziale della sovranità monetaria nel definire l’indipendenza di una nazione. In poche parole, non è sovrano chi non è padrone della propria moneta.
L’UE: DEPOLITICIZZAZIONE CONTRO LA SOVRANITÀ’ POPOLARE
Interessante, a questo proposito, la descrizione dell’Ue come “un sistema complesso, a geometria variabile, multilivello, che presenta tratti sovranazionali (Commissione europea, Bce, Corte europea di giustizia), quasi federali (Parlamento europeo, privo però di poteri effettivi) e interstatali o intergovernativi (Consiglio europeo)”; una “nuova forma di Stato […] incarnato nel sistema dei trattati”; “un sistema compiutamente post-democratico, teso a destrutturare a tutti i livelli le capacità delle masse di incidere sulle politiche, in cui al governo democratico si sostituisce la governance“, un termine che – non a caso – nasce in ambito aziendalistico per definire la gestione di una impresa (una gestione, dunque, padronale).
Del resto, fateci caso: parlamento europeo o popoli europei non hanno il potere di modificare o emendare i trattati, ciò che è prerogativa solo degli Stati membri, con accordo unanime. Eppure i trattati hanno finito per inglobare gli ordinamenti nazionali.
Ed ecco che “l’evoluzione moderna del concetto di sovranità, innervato nella nostra Costituzione, inteso non più (semplicemente) come sovranità statuale e nazionale, bensì come sovranità popolare”, conosce la sua fine con il sistema dei trattati dell’Ue (per gli autori, di gran lunga distanti dal modello sociale pensato dai nostri padri costituenti).
Ora, la lettura integrale del testo analizzato è molto interessante per ripercorrere, nei dettagli, il dibattito economico che ha portato all’assetto attuale dell’Ue, la fase di smantellamento dello Stato-imprenditore con la privatizzazione del patrimonio pubblico, le conseguenze dell’impronta neoliberale europeista sull’Italia.
Ma, in questa sede, importava sottolineare due cose: mostrare a grandi linee perché tutto ciò ha influito sulla sovranità ed offrire una prospettiva politica differente sul rapporto tra sovranismo, sinistra, destra e liberismo.
La sinistra, ribadiscono più volte Fazi e Mitchell, facendo di queste una delle tesi centrali del loro libro, ha “giocato un ruolo centrale nella transizione al neoliberismo, tanto nella sua legittimazione ideologica […] quanto, spesso e volentieri, nella gestione politica di quel processo”, risultando così “largamente responsabile per il passaggio alla visione poststatuale e postsovrana del mondo cui abbiamo assistito negli ultimi decenni”.
Per riassumere, i momenti chiave elencati sono “la svolta antikeynesiana del governo laburista di James Callaghan”, “la svolta austeritaria del governo di Francois Mitteran”, “il ruolo del socialista Jacques Delors […] nella costruzione dell’architettura neoliberista europea”; “il ruolo giocato dal Pci (e dal sindacato) nella crisi organica del keynesismo italiano a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta”; “il ruolo centrale della sinistra postcomunista nell’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht e nel conseguente smantellamento dello Stato italiano”.
Lo scollamento della sinistra dalla sua naturale base sociale, nel libro, è quindi conseguenza di un cambio di campo ben preciso da parte della sinistra istituzionale.
DEMOCRAZIA SENZA POPOLO: IL SOGNO DEGLI ANTISOVRANISTI
Ma altrettanto importanti in questa analisi sono alcune considerazioni fatte ‘a margine’: “Nelle moderne democrazie costituzionali, come abbiamo visto, è il ‘popolo’ – inteso non come magma indistinto di individui (cioè come popolazione) ma come comunità fondata su affinità (anche e soprattutto prepolitiche) che rinviano ad un’identità collettiva – a rappresentare l’elemento ‘costitutivo’ dello Stato e il depositario della sovranità”.
Sarebbe illusorio, insomma, non solo sottovalutare le barriere linguistiche (che sono, a tutti gli effetti, identità), ma più in generale “liquidare tout court la questione dell’identità come superflua, in quanto costrutto artificiale e dunque ‘falso'”.
Una democrazia di questo tipo sarebbe infatti “inevitabilmente una democrazia senza popolo e dunque a bassissima intensità politica” dal momento che “la tenuta dei legami identitari si fa sempre più debole via via che l’ambito geopolitico di uno Stato si dilata e si fa sempre più sfumato”.
In poche parole, come prova il bisogno sempre attuale di identità e appartenenza (che è bisogno di comunità), declinato spesso – per reazione alla sua assenza – in fanatismo (religioso, nazionale, localistico o sottoculturale), la democrazia non può fare a meno di una sua dimensione umana. A parte le barriere oggettive, sociali e culturali alla creazione di un popolo europeo che si identifichi come tale, il processo di identificazione procede, di per sé, per gradi e la prima forma di identificazione, quella più forte, sarà sempre quella più prossima. E’ assurdo definire ‘artificiali’ le nazioni come concetto culturale e identitario, per poi pretendere di costruire a tavolino una identità sovranazionale, europea quando non globale/globalista.
SOVRANITÀ‘ E’ IDENTITÀ‘
In democrazia, per dirla volgarmente, le dimensioni contano e non solo per quanto riguarda le difficoltà connesse ad una effettiva rappresentatività delle istituzioni (problema già esistente con i sistemi elettorali nazionali e le attuali forme di democrazia rappresentativa): l’identità, infatti, come abbiamo anticipato nel nostro primo post, è alla base del concetto di sovranità poiché è alla base del concetto di indipendenza, di libertà e di auto-governo. E’ il ‘noi’ che si incontra e decide di darsi delle regole comuni per vivere in pace. E’ il ‘contratto sociale’ sottoscritto dai membri di una comunità. Va da sé che, quando le regole vengono decise e imposte da fuori, quella comunità non è più libera, perché ha smesso di autogovernarsi. La sovranità popolare, infatti, rispondendo a condizioni e bisogni specifici, non può che essere nazionale.
Per tornare al concreto dell’Ue, è in questo caso evidente che le decisioni politiche più rilevanti – di per sé difficili da comprendere per le masse -, in presenza di strutture sovranazionali, sono ancora più distanti dal cittadino, più ardue da comprendere, più complesse, meno influenzabili a livello popolare e inducono apatia, non certo partecipazione. Il controllo popolare, seppur non abolito ufficialmente, viene complicato, reso impossibile, dando mano libera alle lobby.
Che il concetto di identità e appartenenza sia di per sé foriero di conflitto – come da propaganda globalista – è tutt’altro che vero, come vedremo.
Tornando all’Ue e alla retorica per cui la rinuncia alla sovranità nazionale sarebbe necessaria, alla luce dell’indebolimento dello Stato con l’avvento delle grandi multinazionali e la liberalizzazione dei capitali, ancora una volta troviamo la conferma di quanto abbiamo già avuto modo di far notare: i mercati possono ricattare gli Stati, “solo perché gli Stati hanno scelto di creare un’architettura istituzionale che gli permette di farlo” (vedi spread, delocalizzazioni,ecc.).
“In entrambi i casi”, segnalano, “non sono i mercati a ricattare gli Stati ma le oligarchie nazionali a ricattare surrettiziamente i lavoratori e le classi popolari degli Stati in questione”. Il fatto che siano gli Stati a dipendere dai mercati e non il contrario, insomma, è solo un’inversione ideologica della questione.
LA SOVRANITÀ NON E’ REAZIONARIA
Ma, a parte la teoria dell’obsolescenza della sovranità nazionale, Fazi e Mitchell analizzano (seppur di sfuggita) e contraddicono anche un altro aspetto toccato nel nostro precedente articolo, ovvero il fatto che, da parte della sinistra, ormai, sia “la nozione stessa di sovranità ad essere rigettata tout court in quanto intrinsecamente reazionaria e/o nazionalista“. E’ la ragione per cui una prospettiva sovranista di sinistra non è neanche più considerata, è “l’ossessione no-border”, è l’accusa di razzismo e nazi-fascismo a chiunque osi pronunciare ancora il termine nazione.
In conclusione, Fazi e Mitchell ‘elencano’ le condizioni minime per ripartire: che la banca centrale e la moneta torni nelle mani dello Stato, che la valuta non sia ancorata ad altre valute (e quindi a cambi fissi). Ma anche un cambio di paradigma, a partire da una diversa concezione dell’autonomia di spesa che potremmo riassumere con questi riferimenti: tenuto conto che gli Stati dotati di sovranità monetaria “da un punto di vista tecnico, non sono sottoposti ad alcun vincolo di bilancio” e possono “spendere più di quello che incassano con le tasse” senza correre “alcun rischio di insolvenza”, “l’unico vincolo reale […] è quello dell’inflazione” ma anche che, “a condizione che la crescita della spesa non superi la capacità produttiva dell’economia, non c’è motivo di attendersi spinte inflazionistiche”. “Il potere di creare moneta in quantità illimitata”, aggiungono, “non significa certo che uno Stato debba spendere senza limiti e neanche che i disavanzi di bilancio siano di per sé positivi”. E il metro di misura sarebbe soltanto semplicemente l’impatto sull’economia: ovvero la capacità di generare piena occupazione e quella si mantenere la stabilità dei prezzi. Come? Facendo si che una quota maggiore della produzione sia sotto controllo pubblico, per poter pianificare maggiormente e stimolare l’economia, fare ricerca e investire, oltre che, ovviamente, ristabilire i controlli sui flussi di capitali.
Dunque, fine dell’Europa? Da questa prospettiva sarebbe certamente la fine dell’Ue, ma l’alternativa, più interessante, è “il rinnovamento del progetto europeo su basi radicalmente diverse, cioè sulla cooperazione tra Stati sovrani“.
(a cura di) Emmanuel Raffaele Maraziti
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