Regno Unito, deputate contro Theresa May: “Niente elezioni durante il Ramadan”

Ha indetto le elezioni politiche per il prossimo 8 giugno, nel bel mezzo del mese di Ramadan per i musulmani, che quest’anno cadrà tra il 26 maggio ed il 24 giugno. E’ per questo che il primo ministro conservatore del Regno Unito, Theresa May, è finito sotto accusa per aver ignorato le esigenze dei musulmani. “Il fatto che le elezioni generali si tengano a metà del Ramadan non è l’ideale”, ha dichiarato Rushanara Ali, deputata di fede islamica e laburista. “Si potrebbe verificare una sproporzione nella presenza degli elettori in quei collegi con una popolazione musulmana considerevole. Se qualcuno pensa che la sua capacità di andare a votare ne sarà influenzata, lo invito a registrarsi per il voto postale”, ha aggiunto Ali, 42 anni, in parlamento dal 2010, nel Regno Unito da quando aveva sette anni dopo essere aver lasciato il Bangladesh insieme alla sua famiglia.

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Oltre 400 jihadisti stanno rientrando nel Regno Unito. Intanto 3000 sospettati sono già nel paese

Più di quattrocento ex combattenti jihadisti stanno tornando nel Regno Unito“. A dare l’allarme, in un articolo pubblicato ieri su Sky News, è Mark White, che cita fonti della sicurezza, le quali riterrebbero appunto che almeno quattrocento combattenti, di ritorno dagli scenari di guerra in Siria ed Iraq, stiano per rientrare nel paese.
“Le autorità”, aggiunge White, “ritengono ci sia un rischio crescente che il Regno Unito subisca lo stesso tipo di attacchi con armi da fuoco ed esplosivi visti in Francia e Belgio recentemente“. Secondo Sky News, soltanto una piccola parte degli jihadisti tornati dal medioriente, sarebbero stati perseguiti ad oggi. Tra loro Imran Khawaja, condannato a 12 anni di prigione una volta rientrato nel paese: partito per la Siria nel 2015, tratto in arresto già nel 2015, Imran Khawaja, nonostante il nome poco inglese, viene dai quartieri ovest di Londra ed era stato fermato insieme al cugino Tahir Bhatti, condannato per favoreggiamento avendolo aiutato a rientrare nel paese andando a prenderlo fino in Serbia, ed al suo amico Asim Ali, condannato per averlo aiutato economicamente nell’impresa.

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Inchiesta del Sunday Times: “un abisso tra noi e i mussulmani”. Oltre la metà vuole reato omosessualità

ST100416b-624x724Più della metà dei mussulmani inglesi, su una popolazione di circa 3 milioni, metterebbe fuori legge l’omosessualità. Il 39% pensa che la donna debba obbedire ai dettami del marito. Il 31% non disdegnerebbe la poligamia. Il 23% ammette che, dopo tutto, gli farebbe piacere fosse in vigore la sharia. Eppure, gli oltre mille intervistati face to face dal team di “The Sunday Times”, che ha pubblicato i risultati nell’ultima uscita con richiamo in prima pagina e l’analisi dell’esperto in materia Trevor Philips, ed a cui seguirà la divulgazione televisiva dell’inchiesta su Channel 4 mercoledì prossimo alle 22, dicono che stare nel Regno Unito non gli dispiace affatto (8 mussulmani su 10). Si sentono inglesi anche perché, spiegano, possono pregare, praticare liberamente il loro culto, andare in moschea, vestire da mussulmani godendo della massima libertà, spesso più che nei loro paesi di provenienza. Eppure appena il 30% di loro, 3 persone su 10, ha rapporti regolari con non-mussulmani suoi concittadini. Un altro 30% negli ultimi anni ha frequentato case non-mussulmane appena una volta l’anno. Uno su cinque non ci è mai entrato. Tra i mussulmani originari del Pakistan o del Bangladesh la percentuale di matrimonio misti è prossima allo zero. Circa la metà dei mussulmani, dopo tutto, è nata all’estero. Sono semplicemente una comunità diversa. E, infatti, “una significativa minoranza, preferirebbe vivere una vita distante dal resto di noi”, scrive Philips. Si tratta a tutti gli effetti, spiega, di “una nazione nella nazione, con la sua geografia, i suoi valori e il suo futuro del tutto separato dal nostro”: “un abisso aperto tra mussulmani e non mussulmani sulle questioni fondamentali, come il matrimonio, i rapporti fra uomini e donne, l’istruzione, la libertà d’espressione ed anche la legittimità della violenza in difesa della religione”. Un abisso che si allargherà, dal momento che a metà secolo, sottostimando le cifre, i mussulmani inglesi dovrebbero almeno raddoppia entro la metà del secolo. A Birmingham, la seconda città più popolosa della Gran Bretagna, con circa un milione di abitanti. Il 42% della popolazione non è di origine europea e i mussulmani sono ben 235mila. “Loro non vogliono adottare la gran parte del nostro stile di vita decadente”, scrive il Sunday Times concludendo: “l’integrazione dei mussulmani sarà probabilmente la più dura che abbiamo mai affrontato”. Bisogna agire. Eravamo convinti che facendoli entrare cambiassero, diventassero inglesi, e invece non è così automatico. Ammette il giornalista. C’è, evidentemente, qualcosa che va oltre il pezzo di carta. Qualcosa che non va in quella certificazione che ti chiama “inglese”, quando invece tu appartieni di fatto ad un’altra comunità. Una nazione nella nazione, appunto. Quando l’uomo e la sua burocrazia, le sue ideologie negano ciò che è naturale, non si creda che le carte possano sconfiggere l’essenziale territorialità e comunitarismo dell’uomo, che cerca qualcosa di più un legame “societario”, di una finta nazione senza identità. Non lo fanno neanche gli italiani. Nonostante il tempo, quasi sempre, rimangono italiani. Chi peggiore a causa del rancore verso la madrepatria, chi migliore. Il punto, infatti, non è, come superficialmente si potrebbe segnalare, la differenza di vedute su questioni pur fondamentali tra mussulmani e non mussulmani inglesi. E’ dal modernismo che si sentono distanti e questo, dopo tutto, non è un elemento correlabile unicamente all’identità religiosa mussulmana. Invece, valutazioni contenutistiche a parte, ciò che è rilevante è l’esistenza stessa di questo “abisso”. Qualunque sia la nostra identità, qualunque sia la loro, qualunque sia quella da ciascuno considerata più valida, le nostre identità rimangono e rimarranno, si sviluppano in maniera diversa perché fanno parte di contesti diversi. Questa è esattamente la dimostrazione che non esistono gli inglesi in generale come ci raccontano le carte, ma esistono gli inglesi bianchi, gli inglesi mussulmani e così via. E’ la dimostrazione di come il concetto di nazione, di cittadinanza, di comunità sia ormai falsato mentre rimane intatta la sostanza e fingiamo di non accorgercene a causa dell’ideologia ‘democratica’ che ne ignora le cause. D’altra parte, sottolinea il giornale inglese, oltre la metà dei bambini parte di minoranze etniche frequentano scuole dove i bianchi sono minoranza. In pratica le comunità originarie tendono a mantenersi come tali, per fattori non solo economici, dunque, ma ‘culturali’. Questo, molto più che il parere superficiale sulla legalità dell’omosessualità, dovrebbe preoccupare la Gran Bretagna e le altre nazioni europee.

Emmanuel Raffaele, 12 apr 2016

Uk, Cameron denuncia razzismo di Stato: l’establishment apra alle minoranze

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“E’ più probabile che un giovane di colore si trovi in prigione piuttosto che in un’università prestigiosa”. David Cameron, primo ministro inglese, in una lettera al “Sunday Times”, ci è andato giù duro ed ha addirittura puntato il dito, in modo insolito per un conservatore, contro esercito, polizia, università e grandi aziende a causa del loro presunto razzismo istituzionale.

E’ una vergogna per la nostra nazione”, ha affermato il premier britannico, promettendo che il suo governo farà finalmente la differenza ed esortando il paese: “Portiamo a termine, insieme, la battaglia per un’uguaglianza reale in Gran Bretagna”. “Non è abbastanza dire di essere aperti a tutti”, ha infatti spiegato evidenziando alcuni dati: non ci sono generali di colore nelle nostre forze armate e solo il 4% degli amministratori delegati tra le FTSE 100 [1]  appartengono ad una minoranza etnica”. “Nel 2014”, ha proseguito, “la nostra università più prestigiosa, ha ammesso soltanto 27 ragazzi di colore su un totale di 2.500 […]. Le persone il cui nome ha un suono esotico hanno meno probabilità di essere richiamate per un lavoro, pur avendo le stesse qualifiche”.

Appena lo 0,1% degli ufficiali dell’esercito – ha aggiunto il giornale britannico – sono neri, lo 0,2 % (285) appartiene ad altre etnie, ben 4 forze di polizia non hanno all’interno gente di colore ed in generale la polizia conta soltanto 2 alti ufficiali di altre etnie; quanto agli altri settori, 6 club calcistici su 92 hanno al vertice una persona di colore ed il 13% del personale della Bbc (con 7,8% fra i manager) proviene da una minoranza.

Quanto al sistema penale, per numero di arresti la minoranza nera quasi triplica la popolazione di etnia caucasica ed asiatica; più o meno la stessa situazione per i procedimenti penali, le condanne e la popolazione carceraria.

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David Lemmy

Ecco perché il premier ha annunciato che David Lemmy, ex ministro laburista di colore, si occuperà del trattamento delle minoranze nel sistema penale, mentre ha intenzione di dare il via ad una legge che costringerà le università a fare maggiore chiarezza sul numero di persone e sull’etnia di quanti fanno richiesta di ammissione, tentando di persuaderli anche all’utilizzo di application form che non prevedano l’utilizzo del nome.

Dunque, David Cameron, l’antirazzista? Di sicuro la sua manovra contro l’establishment è ad alto rischio ma c’è chi non esclude il tentativo di accaparrarsi una fetta di voti laburisti. In ogni caso, è stato egli stesso a sollevare un interrogativo: Una persona su 10 fra i ragazzi bianchi più poveri accedono ad un alto livello di istruzione […]. Sono soltanto sintomi delle divisioni di classe o della carenza di pari opportunità? O è qualcosa di più radicato, insidioso ed istituzionale?”.

Senza dubbio, stando a queste dichiarazioni ed all’apertura del “Sunday Times” (un esempio fra tanti), il razzismo fa più notizia della scarsa mobilità sociale e l’allarme scatta per i neri che non accedono ai vertici e passano in secondo piano i dati sulle scarse opportunità dei bianchi appartenenti a quello che un tempo avremmo chiamato “proletariato urbano”. Bianchi o neri, infatti, in un paese che di recente ha mostrato tassi di disuguaglianza elevatissimi, il problema ha buone probabilità di esser dovuto ad un forte “classismo” della società inglese, in cui chi è povero rimane povero, non diventa ufficiale dell’esercito, manager di un’azienda e non prende la laurea ad Oxford. Del resto, in una nazione in cui i bianchi sono già una minoranza nella sua capitale, dove trovi donne col velo alla cassa di ogni attività commerciale, persone di colore alla guida di autobus, in metropolitana e che, più in generale, svolgono le stesse attività dei bianchi, un paese in cui interi quartieri sono arabi, africani o asiatici, si può seriamente parlare di razzismo?

Certo, la sotto-rappresentazione ai vertici è un fatto quanto lo è la ghettizzazione e le forti differenze tra Londra ed il resto del paese anche nella distribuzione etnica della popolazione. Ma le motivazioni sono tutt’altro che facili da individuare.

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La satira del “Sunday Times”

Perciò l’affondo, a cui la testata inglese ha dato ampia visibilità col titolo principale in prima pagina, non ha mancato di provocare la reazione stizzita delle università, in questo periodo al centro dell’attenzione dopo la decisione di Oxford di non rimuovere una statua dello statista colonialista Rodhes dalla facciata dell’Oriel college, come richiesto da alcuni studenti. Una decisione, tra l’altro, che secondo un assistente del premier non lo avrebbe trovato per nulla in disaccordo: “non puoi applicare i criteri del presente al passato”, sarebbe l’opinione, condivisibilissima, di Cameron.

Ma alle sue dichiarazioni, dicevamo, “le principali università hanno reagito furiosamente, affermando di aver già fatto molto per aumentare il numero degli studenti non bianchi”, riferisce il Sunday Times. Da Oxford, intanto, hanno sottolineato che il 13,2% dei laureati nel 2014 non erano bianchi, il 18% in altri istituti del Russel Group mentre 367 studenti appartenenti ad una minoranza etnica sono stati ammessi lo scorso anno, con un incremento del 15%. Inoltre, l’università sta pensando, in seguito alle recenti critiche, di inserire corsi specifici attraverso i quali approfondire la storia e le figure di riferimento delle minoranze etniche.

Cameron, d’altronde, ha fatto sapere di ritenere non risolutive misure di ripiego come l’istituzione di quote o altre soluzioni “politicamente corrette”.

Non rimane, a margine, che una riflessione: messa in conto la possibilità che non sia il razzismo ma un “classismo” senza distinzioni etniche la causa della sotto-rappresentazione delle minoranze, considerata anche la possibilità che le principali istituzioni cerchino invece di tutelare la purezza razziale della Gran Bretagna riservandosi i vertici dello Stato (teoria che non nasconde un certo complottismo) o che semplicemente il pregiudizio individuale influisca negativamente nelle decisioni (ma è razionale combattere per legge il pregiudizio?), è davvero possibile parlare di “valori condivisi” come ha fatto il premier e contemporaneamente dover inserire nelle università corsi specifici per raccontare la storia di un’appartenenza differente? È possibile parlare di uguaglianza e poi proporre di nascondere il nome e quindi l’identità di una persona nelle domande di ammissioni per evitare pregiudizi? È giusto costringere un imprenditore ad assumere qualcuno? Siamo sicuri che nei quartieri arabi o africani assumono bianchi nelle loro attività commerciali? Passeggiando per le strade “multietniche” di Londra sembra proprio di no.

“Il coinvolgimento dell’esercito inglese nelle guerre in Iraq e Afghanistan potrebbe non incontrare il gradimento delle comunità mussulmane o asiatiche. Ho assistito ai reclutamenti e le persone dicevano ‘Non approviamo quello che l’esercito sta facendo in Afghanistan. Non crediamo dovresti essere nell’esercito, prendendo parte a tutto questo’ ”, ha osservato il capitano Naveed Muhammad. “I reclutatori della polizia hanno incontrato resistenza da parte della popolazione di colore che sospettava pregiudizi. Ciò che Cameron definisce ‘valori condivisi’ potrebbero non esserlo quanto crede”, conclude in un pezzo d’approfondimento George Greenwook.

La questione, dunque, è più complessa di un facile titolo ad effetto sul giornale. Ed il sentimento d’appartenenza, probabilmente, è quello che fa concretamente la differenza. A dimostrarlo anche i recenti fatti di cronaca sul terrorismo islamico, che coinvolgono quasi sempre figli o nipoti di immigrati in Gran Bretagna, Francia e Belgio, paesi europei tra i più eterogenei etnicamente. E certo, neanche noi condividiamo gli interventi armati a guida statunitense in cui il nostro paese è coinvolto, ma per questo non cambia la nostra appartenenza, non per questo l’Italia smette di essere la nostra patria. Siamo sicuri che, quanto alle minoranze etniche in Europa, non sia stato già dimostrato il contrario?

Emmanuel Raffaele, 2 feb 2016

[1] “indice azionario che include le 100 società più capitalizzate quotate al London Stock Exchange”, Wikipedia