Certo è difficile parlare di questo libro senza fare riferimento a CasaPound.
Errore ancor più grave sarebbe, però, ridurne per questa ragione la portata, limitandosi a considerarlo un testo di interesse esclusivamente «militante». Del resto, lo stesso autore, Adriano Scianca, nell’introdurlo spiega: «è una cronaca raccontata su un doppio binario, perché parte da un’ottica tanto descrittiva che normativa».
Dunque, è si descrizione di ciò che è CasaPound in quanto movimento ma è, forse prima ancora, rivisitazione di quel complesso sistema di idee e spesso luoghi comuni che è ed è stato il neofascismo italiano, definizione dalla quale infatti ci si svincola dichiaratamente, bollando come «terminali» la maggior parte delle esperienze caratterizzate da questa impronta.
Ed è indubbiamente questa la ragione per cui «Riprendersi tutto – Le parole di CasaPound: quaranta concetti per una rivoluzione in atto» ha una sua propria valenza culturale che la rende un’opera fondante, che rifugge il ghetto proponendosi con successo innanzitutto questo: il coraggio di proseguire nel tracciare un solco.
Pubblicato nel 2011 dalla Società Editrice Barbarossa, «Riprendersi tutto» è un testo piacevole alla lettura anche grazie alla forma scelta per l’esposizione: quaranta parole, quaranta concetti, proposti in ordine alfabetico, sviscerati e rivisitati, analizzati e spiegati fino a comporre un mosaico che nella loro apparente casualità rendono volutamente l’idea della a-sistematicità.
Quaranta «capitoli» alcuni dei quali essenziali per cogliere la novità che le trecentottantuno pagine del libro rappresentano rispetto ai nostalgismi, ai «miti incapacitanti» ed alle accuse di superficialità troppo facilmente attribuite ed attribuibili a certa «destra».
Ed ecco, dunque, l’ «Estremocentroalto», perché è fino alla ricodificazione linguistica di un preciso posizionamento politico che giunge l’innovazione. Un chiarimento definitivo della distanza, sacra centralità ma anche sprezzante rifiuto rispetto a «destra» e «sinistra», riassunto in una definizione che sa di rinascita e di ciclo eroico per usare termini – non troppo paradossalmente – evoliani.
Ma è ripartendo dalla «a» di anarchia, che sarà maggiormente chiaro quello che è un recupero deciso di ciò che nel fascismo è stato vitalismo e sano spirito rivoluzionario, rispetto all’apollineo mondo tradizionale, che ha condotto i neofascisti ad uno spesso involontario reazionarismo, tradottosi nei fatti in una confusa e timorosa autoreferenzialità.
«C’è una specifica via libertaria al fascismo», afferma infatti Scianca dopo aver passato in rassegna diversi casi di anarchici avvicinatisi al campo «avverso» ma, soprattutto, dopo aver evidenziato l’animo squisitamente libertario del fascismo. «Gli intellettuali antifascisti storici», scrive più avanti Scianca, «da Croce a Martinetti, si opporranno sempre alle camicie nere in quanto moralisti contro forze vitaliste, sregolate, irrazionaliste. Sarà quindi proprio l’anima libertaria tipica del fascismo, contraria alla morale comune, ostile al dovere borghese e all’autorità costituita a sconvolgere i primi antifascisti». È per la stessa ragione che, nonostante il velo libertario che copre l’attuale antifascismo, esso «comporta sempre una notevole dose di regressione a una dimensione iperborghese, forcaiola, legalitaria», di chi «chiede sistematicamente la mano dura di polizia e forze politiche nei confronti dei fascisti. Auspica e chiede arresti, chiusure di spazi, messe fuori legge, sgomberi».
Ed ecco il perché dell’accento posto più che mai sull’azione, cui è dedicato uno specifico capitolo, per sottolinearne l’imprescindibilità e proponendo lo «squadrismo mediatico» come legittimo e ovviamente non unico erede di quello spirito.
Ed ancora ecco il perché del brano sul tema «Occupazione», non solo in senso di occupazione fisica di spazi, quanto nel suo significato di avanzamento nel campo nemico, tipica strategia da trincea.
Ed ecco, infine, venendo alla «Tradizione», il senso dell’analisi che viene fatta principalmente sull’autore che ha rappresentato il pensiero tradizionalista italiano, Julius Evola. Strumentalizzato da alcuni per giustificare il proprio immobilismo, Scianca rileva innanzitutto l’incomprensione di chi tra i suoi seguaci ha schematizzato un autore in realtà molto dinamico sia nel pensiero che nell’azione. «Soldato, artista d’avanguardia, viveur salottiero e mondano […], fascista sui generis ma attivissimo su quasi tutti i fogli del regime, amico di Farinacci e Bottai, istruttore di SS – Evola offre dal proprio profilo biografico il ritratto di un vero «uomo di mondo», un individuo che visse a pieno la sua epoca, che sondò ogni direzione». Così è descritto il personaggio rilevando, a partire appunto dalla sua idea – tutt’altro che deterministica – di «ciclo eroico», che squarcia la linearità della inevitabile regressione temporale, un pensiero molto più d’avanguardia di quanto non sia stato percepito.
Conclude, dunque, Scianca: «Un evolismo fresco, combattente, non dogmatico è possibile». Ed è necessario per ritrovare un Evola più autentico di quanto non lo siano le interpretazioni dei suoi esegeti più intransigenti, forse tratti in inganno da un Evola che appare nella pratica molto meno statico di quanto non lo sia nel momento puramente teorico.
Chiarezza, inoltre, su temi «caldi» come «Donna», «Diverso», «Ebreo», laddove Scianca respinge seccamente, una volta per tutte, ogni apparentamento col razzismo e col «machismo macchiettistico». Esaltando lo spirito identitario e respingendo ogni forma di antisemitismo, porta comunque avanti un’opposizione schietta ma priva di ambiguità nei confronti dell’immigrazione di massa, auspicando l’innalzamento della donna così come avvenne sotto un fascismo che volle l’altro sesso tutt’altro che «ad occhi bassi» allo stesso tempo non cede ad ammiccamenti rispetto al femminismo.
Altro passaggio delicato il capitolo «Italia», poiché Scianca recupera un sano spirito patriottico, inevitabilmente passato in secondo piano col trionfo del «nerobiancorosso» e delle suggestioni medieval-nostalgiche. Ma si tratta di uno spirito patriottico da campo di battaglia, non reazionario ma di popolo, di un popolo che vuole tornare ad essere orgogliosamente Nazione, combattendo i soprusi anziché lamentandosene in maniera un po’ snob e velleitaria.
Proprio l’opposizione al velleitarismo destro-terminale sembra quindi, in termini politici, uno dei filoni principali del testo. Ciò che spiega un certo disamore o, meglio, una smitizzazione del medioevo clericaleggiante e della retorica anti-rivoluzione francese, che per troppo tempo ha inchiodato i «neofascisti» ad una ghettizzante eterna inattualità culturale.
Nel complesso, una riproposizione dello spirito fascista primigenio, declinato nel presente e che non fa una piega. Una rilettura coraggiosa, che non può fare a meno di partire dal recupero del mito e del simbolo finalmente vivificati (nel senso già espresso prima del solco che continua ad essere tracciato) per giungere ad una ritrovata centralità dell’arte e ad una politica intesa come «artecrazia», avanguardia del movimento, creatrice di immagini, suoni e parole capaci di rievocare «energie ancestrali».
È inaspettatamente questa, del resto, la chiave di lettura principale di «Riprendersi tutto», un libro incentrato nella sua essenza sulla «rigenerazione del mito».
Emmanuel Raffaele, “Il Borghese”, febbraio 2012
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